Qualcuno si ricorda di quando i Manowar, sui palchi e nelle interviste, inveivano e lanciavano strali e anatemi contro il “false metal”? Con chi ce l’avevano, di preciso, non si è mai capito bene, la sola cosa veramente chiara era che si ritenevano non semplicemente la miglior band di heavy metal operante sul terzo pianeta del sistema solare, ma l’unica band che lo praticasse davvero. Che questo atteggiamento fosse pura scena o frutto di una megalomania da trattare a livello clinico neppure è mai stato chiaro. Ma che, scaraventato (furbescamente?) sul pubblico metallaro, abbia dato frutti abbastanza buoni, è innegabile. È quasi un peccato che il pubblico dell’AOR non abbia invece mai dato segni di fanatismo riguardo i propri gusti musicali: ve li immaginate, che so, i Journey o i Survivor tutti presi, tra una canzone e l’altra durante i loro show, a scagliare maledizioni sul “false AOR”? Non saprei dirvi se il false metal (come lo intendevano Joey De Maio e compagni) esista o sia esistito davvero, ma esempi di false AOR posso farne parecchi, su uno in particolare (i Distance di ‘Under One Sky’) mi sono già ampiamente soffermato. E questo album dell’ex Traffic Jim Capaldi appartiene senza dubbio alla categoria. Non è affatto un brutto disco, tutt’altro: produzione sontuosa (girarono otto studi per registrarlo), una palata di ospiti prestigiosi (ovviamente Steve Winwood, e poi George Harrison, Eric Clapton, Mick Ralphs, Peter Vale, Mel Collins). Solo che, nonostante sia stato incluso nelle liste di Heavyharmonies, non è fatto quasi per niente di AOR. Le uniche canzoni che possiamo iscrivere sui nostri registri sono “Something So Strong”, che apre l’album con un raffinato AOR d’atmosfera tra Jeff Paris e la Michael Thompson Band e quella “Dancing On The Highway” che ne segue più o meno la scia in un clima più elettrico e dotata di un mood più incalzante e aggressivo, per finire con “Take Me Home”, densa di suggestioni heartland, fra i Bon Jovi più springsteeniani e John Waite. Il resto? “Love Used To Be A Friend Of Mine” è una scheggia di quel pop sofisticato e d’atmosfera praticato da Phil Collins e Mike & The Mechanics, senza neppure una nota di chitarra, la title track è una ballad con qualche tocco funky, di “Voices In The Night” basta dire che potrebbe appartenere al repertorio degli Imagination o dei Commodores, “You Are The One” torna al pop più funky (ma spara un paio di assolo di chitarra nel finale, però molto brevi), “Oh Lord, Why Lord” fa molto anni 60 ma con i suoni degli 80, e la chitarra di George Harrison che scandisce un riff ovviamente molto Beatles (ma pure un po’ Procol Harum). Ripeto: è un gran bel disco, ma di AOR ce n’è proprio poco, e non capisco perché si cerchi di farlo passare per un prodotto del nostro genere, gabellando per generalmente rock un album che è invece nella sostanza quasi del tutto pop.
Nonostante crisi e sbandamenti e digressioni e (soprattutto) insuccessi sul piano del prestigio personale, a Bryan Adams i consensi non sono mai venuti a mancare. Insomma, tutto si può dire del Nostro, salvo che sia stato un one hit wonder. Le vendite a livello mondiale dei suoi album dovrebbero ammontare a una cifra compresa tra i 75 e i 100 milioni di copie. Nelle classifiche, perfino quelle canadesi, ormai si affaccia di rado, ma i suoi concerti si tengono sempre negli stadi e, al giorno d’oggi, questo conta molto più di un numero uno sulla Billboard 200. Riguardo la qualità dell’offerta musicale… C’è quel monolite intitolato ‘Reckless’ con cui Bryan deve sempre fare i conti. Sostanzialmente chiuso il sodalizio con Jim Vallance è cominciato e andato avanti a singhiozzo quello con Mutt Lange: che ha dato e continua a dare buoni frutti, ma troppo spesso ha rischiato di far scambiare un album di Bryan per uno dei Def Leppard. E entrando in ‘Roll With The Punches’ si viene assaliti precisamente da questa sensazione, dato che la title track apre il disco con un bell’anthem che potrebbe venire dritto dalle session di ‘Pyromania’. Più personale risulta “Make Up Your Mind”, con quel riff stile U2 opportunamente scartavetrato che ritma uno dei tipici rock da FM di Bryan avvolto da un certo flavour moderno; si torna al Leppard-style negli impasti vocali di “Never Ever Let You Go”, adagiati su un morbido tappeto elettroacustico, ma davvero superba risulta “A Little More Understanding”, con quel suo ancheggiare così sensuale (un po’ Steely Dan, direi) in cui vanno a incunearsi gli interventi dell’organo Hammond. Due ballad a seguire: “Life Is Beautiful” è un’altra, impeccabile scheggia di sound Def Leppard, mentre “Love Is Stronger Than Hate” è elettroacustica, luminosa e vagamente folk. Notevole “How’s That Workin’ For Ya”, che procede tra chitarre grattanti, il piano honky tonk, una melodia beffarda, meno interessante “Two Arms To Hold You”, ballatona sentimentale che (pare) nei dischi del Nostro proprio non può mancare. “Be The Reason” replica più o meno la formula di “Make Up Your Mind”, compreso il riff alla The Edge, “Will We Ever Be Friends Again” chiude l’album con una magnifica ballad malinconica e d’atmosfera: qui le timbriche e i suoni sono moderni ma la melodia è classicamente anni 80. Insomma, ‘Roll With The Punches’ segue la scia dei lavori recenti di Bryan: c’è qualche ballad di troppo, ci sono canzoni di ottima fattura ma tutt’altro che personali e qualche acuto. Ma è una delle poche cose veramente buone in ambito rock melodico che abbia sentito dal principio dell’anno e posso raccomandarlo caldamente a tutti.
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