AORARCHIVIA

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DEF LEPPARD

 

 

  • PYROMANIA (1983)

  • HYSTERIA (1987)

 

Etichetta:Polygram Reperibilità:in commercio

 

Non so quanto si debba essere (relativamente) vecchi per ricordare come andavano le cose prima che scoppiasse l’attuale Era dell’Informazione Spicciola. Quasi da un giorno all’altro, siamo diventati tutti figli di Google (non sarebbe male come moniker per una band: Google Children; quasi quasi vado a registrarmelo...). C’è una parola, un nome, una frase, qualsiasi cosa che non conosci, non sai cosa vuol dire, a cosa si riferisce? Bene: ti fiondi su Google, scrivi la parola/frase, fai partire la ricerca e nel giro di qualche click ne sai abbastanza per poterci pontificare sopra con aria saccente. Ma una volta era diverso. Per quanto concerne il nostro campo specifico: non c’erano riviste musicali specializzate, solo fanzines; non c’erano enciclopedie rock attendibili, solo trattatelli scritti da pittoreschi personaggi che di hard rock non sapevano un beneamato cazzo; le radio non passavano musica rock, salvo per qualche scalcagnata stazione FM su cui l’esagitato  DJ metallaro di turno si sfogava con i soliti Deep Purple, Motorhead, Ozzy, Saxon o Iron Maiden; Videomusic mandava in onda uno special ogni morte di papa, e comunque era sempre l’heavy metal a farla da padrone più o meno assoluto. Un deserto, insomma. Ma esisteva, quanto meno, il passaparola. Che in certi casi si svolgeva secondo modalità tortuose e/o contorte.

Questo caso particolare  risale all’inverno del 1985, non ricordo il mese preciso, solo che era inverno e faceva un freddo cane. Mi trovavo ad una festa o presunta tale, in sostanza si trattava di un paio di stanze con della gente che si annoiava facendo finta di divertirsi (o magari si divertiva facendo finta di annoiarsi... tutto è possibile), illuminazione finto-discoteca e – horribile dictu – l’aria satura di merdosa musica pop, di quella che andava forte nelle radio e su DJ Television: Duran Duran, Spandau Ballet, Culture Club, Bronsky Beat, Pet Shop Boys, Madonna... Per il vostro povero webmaster, che da poco era stato toccato dal sacro fuoco dell’hard rock, il sottofondo musicale costituiva ovviamente una sorta di tortura della goccia o un qualsiasi trattamento equivalente, ovvero: un sadico, lento stillicidio, dapprima semplicemente fastidioso, poi sempre più doloroso e insopportabile, quel genere di cosa che, se hai le mani libere, ti induce alle azioni più drastiche e magari turpi per porvi termine. In quella circostanza, la soluzione sarebbe stata – drastica e per niente turpe – andarsene via, ma... C’è sempre un “ma”, da qualche parte. Il mio, era alto circa sul metro e sessantacinque, castana, jeans aderenti, un bel nasino all’ insù... Le giravo attorno, cercando di attirare la sua attenzione e quando finalmente riuscii ad attaccare bottone, si finì per parlare di musica, a lei piacevano tanto gli Wham e sopratutto George Michael, (quando partì “Careless whispers” cominciò letteralmente a sbrodolare): ma che ragazzi allegri, che bella musica, ti mette la gioia di vivere addosso... Ah, feci io, ma tu non hai mai sentito i Ratt o i Mötley Crüe. E chi cavolo sono?, chiese lei. Ed io cominciai a far sfoggio della mia ancora molto lacunosa cultura rock, provando a farle capire che quella roba era sì heavy metal (nessuno ci aveva ancora insegnato a chiamarlo class metal, hard melodico o AOR), ma non lo stesso heavy metal che facevano gli Iron Maiden, che lei naturalmente conosceva e ovviamente schifava. Mentre sgranavo nomi (molti a sproposito) come una mitragliatrice, con il palese scopo di impressionarla (favorevolmente, mi auguravo), una voce disse: «E i Def Leppard?». Mi voltai. Accanto a noi, senza che me ne fossi reso conto, s’era piazzato un tizio dai capelli indecentemente corti (i metallari, a quei tempi, dovevano ostentare lunghe criniere, pena la scomunica), che doveva aver ascoltato tutta la mia tirata. Pensai che mi stesse prendendo per il culo, che volesse sfottere o farmi fare una figuraccia con la ragazza. Gli lanciai un’occhiata poco amichevole mentre in testa mi risuonava la terribile domanda: chi cazzo sono ‘sti Def Leppard? Venni salvato in corner quando un’altra ragazza arrivò e se lo prese a braccetto, portandoselo via. Non lo notai più, quella sera. La ragazza dal bel nasino all’insù si fece abbordare da un altro e cominciò a dimenare il sedere tutta felice e contenta al ritmo di “Wake me up before you go go”, ed io rimasi a rimuginare su quel nome: Def Leppard... Il pomeriggio dopo, andai nel solito negozio di dischi e mi misi a frugare nello scaffale dell’ heavy metal, di cui presumevo di conoscere benissimo il contenuto, e che mi venisse un colpo se c’avevo mai visto questi Def Leppard... Invece, ecco saltare fuori un LP con quel nome stampato sopra: aveva in copertina quello che pareva un grattacielo in fiamme ed un titolo coerente: ‘Pyromania’. La data era: 1983. Il produttore, lo stesso degli AC/DC, Mutt Lange. Uhm... Dubbio amletico: lo prendo o no? Erano tredicimila delle vecchie lirette o giù di lì. Pensa e ripensa, valuta, un po’ di addizioni e  sottrazioni e il disco infine era mio. E quando infilai le cuffie e la puntina si avviò lungo i solchi di quel piattone di vinile nero... Beh, non ho mai più rivisto quel tizio, non ho mai saputo come si chiamasse, ma se mi sta leggendo, oggi, e ricorda una serata di ventitre anni fa, sappia che mi considero debitore di un favore nei suoi confronti, se non fosse stato per lui avrei scoperto i Leppard come minimo con un paio d’anni di ritardo, quando con ‘Hysteria’ tornarono finalmente a farsi vivi dopo un lunghissimo blackout.

Al di là dell’aneddoto personale, per parlare dei Leppard sarebbe forse più giusto concentrarsi proprio su ‘Hysteria’, che mi pare rimanga il loro album più venduto di sempre, al di fuori di qualche best of. Ma se ‘Hysteria’ rappresentò l’esplosione della band di Sheffield a livello internazionale, e addirittura anche in Italia (ve li ricordate sul palco del festival di San Remo?), è ‘Pyromania’ il vero momento magico, il disco che li consacrò superstar dell’hard rock melodico negli Stati Uniti, il disco che creò uno standard, scopiazzato a destra e a manca al punto che assieme a Bon Jovi e Journey, i Def Leppard costituiscono il terzo vertice di quel triangolo che delimita il suono della grande massa degli act del nostro genere. E’ il loro album “storico”, il vero inizio di una leggenda cominciata in piena New Wave Of British Heavy Metal e che prosegue indisturbata ancora oggi. “Indisturbata” nel senso che tutto quanto è accaduto nel mondo del rock negli ultimi venticinque anni pare non aver toccato la popolarità di questa band. Certo, hanno avuto qualche flessione temporanea delle vendite nel periodo d’oro del grunge e poi hanno tentato anche loro di rifarsi una verginità alternative, ma tutto questo è durato poco, le vendite sono ripartite (magari non proprio al galoppo, ma...) ed il sound è sempre – con gli inevitabili adeguamenti a quanto va per la maggiore nel rock – quello che conosciamo (pur non freschissimo, elettrico e travolgente come una volta, ma, insomma, il tempo passa per tutti, non soltanto per il webmaster...). I Def Leppard ormai non si discutono più, sono diventati classic rock, una delle cariatidi che reggono il tetto del santuario, al punto che MTV si è potuta permettere di organizzare un concerto-tributo dando le loro canzoni in pasto a bands modaiole abituate (immagino) a ben altre alchimie sonore che si sono ritrovate allegramente a suonare “Rock! Rock! Till you drop” e “Pour some sugar on me” nello stesso spirito con cui vent’anni fa i Mötley Crüe rifacevano la “Jailhouse rock” di Elvis Presley...

Pyromania’, dunque, è un album “storico”, uno di quei capisaldi che segnano per sempre, indissolubilmente un genere musicale. Un improvviso colpo di genio? Niente affatto. Tanto per cominciare, i Leppard avevano già due (bei) dischi alle spalle. E, dietro il banco del mixer, uno di quei produttori che hanno fatto la storia del rock attraverso i dischi delle bands con cui hanno lavorato: Robert John “Mutt” Lange. Tre anni prima, Lange aveva aiutato gli AC/DC a reinventarsi un suono, producendo quel capolavoro epocale che fu ‘Back in black’, un disco che ha avuto un impatto sul mondo dell’hard rock paragonabile solo a quello ottenuto dal secondo album dei Led Zeppelin e dal primo dei Black Sabbath. Dunque, non è un caso che “Rock! Rock! Till you drop” suoni alla maniera degli AC/DC, ma come se Angus e soci avessero improvvisamente scoperto quella cosa che si chiama “melodia”. Allo stesso modo di 'Escape' dei Journey, 'Pyromania' è anche un capolavoro di produzione, un prontuario per tutti coloro che cominceranno a bazzicare questo territorio appena scoperto, dove la secchezza dei riff va a braccetto con refrain accattivanti e cantabili, un miracolo di equilibrio, potente ma non abrasivo, fragoroso senza essere violento, pop e metal che cominciano a chiacchierare tra loro anziché guardarsi in cagnesco come avevano fatto fino a quel momento. E se in questa dimensione i Def Leppard lasceranno il testimone ai Ratt (che tanto debbono a questo disco) per passare con ‘Hysteria’ ad un discorso sbilanciato verso le frange più pop del genere, non possiamo considerare ‘Pyromania’ semplicemente uno stadio dell’evoluzione. ‘Hysteria’ è un altro capolavoro in tema di produzione, un attacco ben calcolato alle top ten, programmato per un pubblico più generico di quello a cui era destinato ‘Pyromania’, che si rivolgeva piuttosto alle schiere di adolescenti che s’erano lasciati il punk dietro le spalle ed erano alla ricerca di una nuova dimensione nel neonato rockrama ottantiano fatto di dinamismo e allegria. ‘Pyromania’ sembrava calzargli a pennello, era una risposta alle domande inespresse che  permeavano l’alba fulgida dei Big 80’s, la voglia di colore dopo tanti anni grigi e cupi, una risposta urlata attraverso anthem divenuti veri pilastri del genere, da “Rock! Rock! Till you drop” (quel riff magistrale...) a “Die hard the hunter” (il riff saltellante, la ritmica serrata, i flash di tastiere: il metal californiano nasce anche da qui), da “Action! Not words” (con le sue rifiniture di chitarra slide) all’anthem degli anthem, l’unica, inimitabile “Rock of ages”, la canzone che fa battere le mani e i piedi, ballare, sballare... tutto sempre molto AC/DC, ma degli AC/DC  tirati a specchio, laccati e cromati, addolciti dalle tastiere di quel mago del suono pop che fu Thomas Dolby. “Stagefright” è pure esemplare nella sua alternanza di parti abrasive scandite da riff affilati ed un coro raffinatamente melodico, “Foolin’” oppone suggestioni zeppeliniane ad un riff metallico su cui va ad adagiarsi un refrain dai riflessi glam, “Comin’ under fire” è il peso massimo del disco, ma il vigore metallico è sempre stemperato da impasti vocali di marca pop, mentre in “Too late for love” si stende una patina cupa sull’ennesima stesura anthemica. Il futuro sono “Photograph” e “Billy’s got a gun”, più morbide e sofisticate delle altre tracks, gli arrangiamenti già preannunciano la direzione che verrà presa con ‘Hysteria’, le chitarre graffiano meno, alla fisicità si sostituisce la ricerca dell’atmosfera, fascinosa su “Billy’s got a gun”, con il suo riff palpitante ed il pulsare del basso, un’inedita cavalcata notturna e hi tech.

L’eccezionalità di ‘Pyromania’ e le sue vendite stellari in america (ad oggi, nove milioni di copie) fu tale da concedere ai suoi artefici la bellezza di quattro anni di silenzio quasi completo. Fra il 1984 ed il 1987 dei Def Leppard si seppe poco o nulla, salvo che Rick Allen aveva perso un braccio in un incidente d’auto e si stava facendo di tutto per reinserire il batterista nella band grazie ad un set particolare di tamburi coadiuvato in maniera robusta dall’elettronica, mentre si era al lavoro su un nuovo album che col passare del tempo stava diventando fantomatico quasi come ‘Chinese democracy’ dei Guns N’ Roses. I Leppard, dopo la fase di pre produzione guidata dal solito Mutt Lange, furono costretti ad un temporaneo stop dall’improvviso forfait del loro produttore, stressato dal superlavoro. Decisero allora di farsi produrre da Jim Steinman, l’architetto del sontuoso ‘Bat out of hell’ di Meat Loaf, ma dopo due mesi passati in studio si dovette rinunciare e buttare via tutto quanto era già stato registrato a causa di mai meglio precisate “manie di grandezza” di Steinman. Si ricominciò a lavorare con Nigel Green, ma arrivò l’incidente a Rick Allen che bloccò di nuovo tutto finché nel 1985 un Mutt Lange rigenerato tornò dietro il mixer per la terza, definitiva, lunghissima registrazione del disco, conclusa solo nell’agosto del 1987: quattro anni e mezzo dopo ‘Pyromania’!

Hysteria’ è probabilmente il disco meglio prodotto nella storia dell’hard rock. Forse è troppo lungo (verrebbe quasi voglia di definirlo “mastodontico”), e il vigore elettrico di ‘Pyromania’ non è qui proprio un ricordo, ma in più di una circostanza la band mantiene basso il volume delle chitarre, e sopratutto satura lo spazio sonoro di impasti vocali che si sovrappongono, si fondono, si intrecciano di continuo diventando l'autentico tessuto connettivo delle canzoni. Joe Elliot cambia il proprio stile di canto, abbandonando i toni rauchi e urlati per passare ad una sorta di falsetto che in certi momenti porta l’ascoltatore distratto a scambiarlo per Robin Gibb... Eppure, lo spessore e la qualità della produzione e del songwriting sono tali da mettere in secondo piano il calo di voltaggio. ‘Hysteria’ è un masterpiece come il suo predecessore: non si limita a fotocopiare quanto di buono era già stato messo a punto, ma lo moltiplica per dieci e contemporaneamente cerca nuove vie in una dimensione più tecnologica, ben esemplificata dai due brani che aprono l’album “Women” e “Rocket”, anthem che giocano le loro carte sull’atmosfera più che sull’impatto, gli arrangiamenti devono aver richiesto settimane di sovrincisioni, il bridge percussivo che spezza “Rocket” sembra non finire mai, è pieno di effetti, voci campionate, licks di chitarra, i cori stupiscono per complessità pur mantenendosi all’interno di una matrice assolutamente pop. Su “Animal” il volume delle chitarre aumenta, il suono si irrobustisce, ma è sempre l’arrangiamento del pezzo la vera chiave di volta, la canzone non fa che girare attorno al refrain ma il tema melodico viene variato con una sapienza ed una classe strepitose, e con un passo così morbido da essere quasi impercettibile. “Love bites” è una power ballad non molto power, dove in più di una circostanza viene da chiedersi se i Def Leppard non siano diventati i Bee Gees: non che prendere linee melodiche in prestito dai signori della Disco anni 70 sia un crimine, però...   Pronto recupero con la grande “Pour some sugar on me”, l’anthem dal riffone zeppeliniano spaccamuri (avete presente il videoclip?), per me il capolavoro dell’album e per la prima volta un deciso ritorno alle atmosfere di ‘Pyromania’, sia pure in un contesto di produzione sempre ultraraffinato. “Armaggedon it” ha un riff portante che rimanda di nuovo agli AC/DC, potrebbe essere ancora un anthem ma tutto fluisce e si scioglie piacevolmente in un refrain delizioso. Qui finiva il lato A del vinile e vale la pena sottolinearlo, perché a quell’epoca nel fare la scaletta di un disco si ragionava ancora in termini di “lato A” e “lato B”, e sulla prima side del disco venivano solitamente concentrati gli episodi che si supponeva più interessanti, di più facile ed immediata presa. Le sei canzoni del lato B non impallidiscono nel confronto con le sei che le precedono, ma la sensazione che le cartucce migliori siano già state sparate permane, naturalmente il tutto rapportato all’eccezionalità del disco, dato che tante bands ucciderebbero per poter vantare nella propria discografia un set come il lato B di quest’album. “Gods of war” ha un intro di chitarre dal sapore celtico che sfuma su un bell’hard melodico dalla base ritmica secca ed essenziale: in qualche momento tornano i coretti alla Bee Gees ma sempre ben inseriti nel contesto; il finale è cupo, costellato di voci campionate. “Don’t shoot shotgun” è un boogie come altre bands potevano solo sognarsi e su “Run riot” tornano le nuance AC/DC a smaltare un telaio cromatissimo in cui riluce anche un bell’assolo heavy metal. Con la title track si ricomincia a battere strade più nettamente AOR. E’ forse l’unica canzone veramente superflua del disco: si poteva eliminarla e non sarebbe cambiato niente. Non che sia brutta: atmosfera, impasti vocali, melodia, tutto è al posto giusto. Ma, a parte una certa somiglianza con “Animal”, è un po’ troppo stucchevole per piacere fino in fondo (almeno a me). “Excitable”, invece, è una delle perle dell’album, una canzone sottovalutata che meritava più attenzione, un pop metal fenomenale, ricco di mille invenzioni. “Love and affection” chiude il disco, una power ballad energetica, magari non originalissima, ma sempre vincente ed efficace, e stupisce come la band, giunta ormai alla dodicesima (!!) canzone, riesca ancora a trovare soluzioni inedite rimodulando il proprio sound senza ripetersi.

Il successivo ‘Adrenalize’, molto più a torto che a ragione, farà la figura della copia carbone di ‘Hysteria’, ma Joe e compagni erano spompati da anni di tour ed ubriachi di soldi e successo, e più che autocelebrarsi, in quel momento, non credo si potesse fare (ma con quale classe, ad ogni modo). Con ‘Slang’ i Leppard, arruolato il grande Vivian Campbell in sostituzione del defunto Steve Clark, cominceranno a torcersi nei dubbi atroci: ce ne andiamo in pensione, continuiamo a far ballare la gente oppure diventiamo anche noi alternativi/incazzati? Dopo undici anni, almeno fino al recente ‘X’ ed al cover album ‘Yeah!’, pare che i Leppard non abbiano ancora deciso. In pensione non ci vogliono andare, ma non riescono a decidersi fra il divertimento e l’incazzatura, fra ciò che debbono, possono o vogliono essere. Io mi limito solo a far notare che il loro best of, ‘Vault’, continua ancora oggi a vendere a carrettate negli States. Forse Joe Elliot dovrebbe piantarla di ascoltare la radio cercando di stare al passo con chi ha vent’anni meno di lui e rimettere nello stereo proprio ‘Pyromania’: se la gente preferisce continuare a risentire "Rock of ages" anziché una qualsiasi canzone di ‘X’, un motivo ci sarà pure...

 

AORARCHIVIA

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TYKETTO

 

 

  • DON'T COME EASY (1991)

  • STRENGHT IN NUMBERS (1994)

 

Etichetta:'Don't come easy': Geffen

             'Strenght in numbers': MFN

Reperibilità:'Don't come easy': scarsa

                    'Strenght in numbers': buona

 

Sulla genesi di questa band non si sa nulla. Tutta quella sfilza di dati riguardanti le line up, i demos, le bands i cui avevano militato i vari membri passati e presenti, nel caso dei Tyketto si riduce allo (scarno) curriculum vitae di Danny Vaughan, ultimo singer degli Waysted per ‘Save your prayers’. Che era un bel disco, nient'affatto distante da quanto Danny farà con la sua nuova band. Gli Waysted erano inglesi, Vaughan americano. In quali circostanze sia tornato negli USA, come abbia incontrato i futuri compagni... buio completo. Un buco di cinque anni tra gli Waysted (‘Save your prayers’ uscì nel 1986) ed i Tyketto, che iniziano la loro vita pubblica nel 1991, con un gran bel contratto per la Geffen che li manda in studio nientemeno che con Ritchie Zito e, dato che i ragazzi non hanno un tastierista, gli paga i servigi di Alan Pasqua.

Don’t come easy’ spicca per la voce strepitosa di Danny Vaughan (come uno Steve Perry più tagliente e beffardo) ed un songwriting eccelso. “Forever young” apre il disco proponendo un’amalgama di atmosfere Journey ed Asia modulate su un registro aggressivo ed impetuoso alla maniera dei Giant, una canzone fenomenale che però non rispecchia in pieno il sound del disco nella sua globalità. I Tyketto iniettavano su una solida base di hard melodico atmosfere a volte sfacciatamente root, country e blues, un connubio non certo nuovo, ma pilotato dalla band (e da Ritchie Zito, of course) con una grazia ed un equilibrio impeccabili. Le tastiere restavano generalmente sullo sfondo, ed era tramite il costante impasto di chitarre acustiche ed elettriche che la band preferiva esprimersi, così che su “Wings” sembra di ascoltare dei Journey nello stesso tempo più duri e più rustici, mentre su “Walk on fire” e “Sail away” il pensiero corre ai Giant, sempre adattati ad un clima più ruvido e root. “Nothing but love” propone di nuovo una variante rude del classico Journey sound (con qualche smalto alla Bon Jovi, magari), “Burning down inside” riesce ad essere melodica e ritmata (come dei Refugee a volume più alto), “Seasons” è un country blues elettroacustico dai vaghi riflessi zeppeliniani, “Lay your body down” un hard rhythm and blues con un coro deliziosamente anthemico, “Standing alone” la ballatona di rigore (ma il testo non è un po’ troppo teen oriented?), “Strip me down” un piccante hard blues caratterizzato dagli interventi dell’armonica.

Ottime critiche (e ci mancava...), ma ‘Don’t come easy’ vendette pochino, non riuscì ad entrare neppure nella top 100 di Billboard. Perché? Il grunge sarebbe esploso di lì a poco, ma questa non è la risposta. Forse mancò una promozione adeguata. In proporzione, il disco vendette meglio nel Regno Unito, dove Danny Vaughan era più conosciuto. Comunque, la Geffen pareva intenzionata a dare ancora fiducia ai ragazzi, per il nuovo disco venne chiamato alla produzione un altro pezzo grosso come Kevin Elson. Purtroppo, ‘Strenght in numbers’ subì in principio la sorte di tanti ottimi album registrati durante la prima ondata del grunge: la Geffen, assodato che il panorama musicale era cambiato in maniera (apparentemente) definitiva, decise di non pubblicarlo, e anzi, spinse sulla band perché mutasse sound e look. Ma i Tyketto non vollero saperne di mettersi a fare gli alternativi/incazzati, e così la Geffen li scaricò. Arrivò il contratto con la Music For Nations, che rilevò dalla Geffen il master di ‘Strenght...’ e lo pubblicò finalmente nel 1994.

Strenght in numbers’ vede la band cambiare un po’ rotta rispetto a ‘Don’t come easy’. Il suono si fa più essenziale, asciutto, le tastiere fanno la loro comparsa solo a sprazzi ed in appena tre brani, la vena root e blues che spiccava su ‘Don’t come easy’ con vigore elettrico diventa una componente in certi momenti preponderante, le chitarre acustiche si fanno sentire con più forza.

La title track apre il disco presentandosi come un anthem dei fascinosi innesti funky; “Rescue me  e “Catch my fall” rimandano ancora ai Giant, o meglio, ad una loro versione più ruvida ed in chiaroscuro, la prima con un refrain quasi country, mentre la seconda rinnova ancora una volta la connection con i Journey. “The end of summer days” è una splendente ballad elettroacustica dai morbidi riflessi westcoast, tutt’altra musica su “Ain’t that love”, che vira in direzione southern rock, quasi un boogie con tanto di piano e ottoni,  The last sunset” è una stesura acustica dai toni western di grande suggestione e “All over me” segue le tracce del più caldo hard blues aerosmithiano. Se “Write your name in the sky” e “Meet me in the night” sono due notevoli variazioni su base Journey, “Why do you cry” è un blues elettrico con un Danny Vaughan semplicemente da urlo, ed a chiudere arriva l’hard anthemico e fascinoso di “Inherit the wind”. Per la verità, la chiusura vera e propria è affidata ad una versione leggermente rimixata di “Standing alone”, che non mi pare tanto significativamente diversa da quella pubblicata sul primo album da meritare l’inclusione nel nuovo lavoro, comunque...

In definitiva ‘Strenght in numbers’ è un disco forse meno “appariscente” del suo predecessore, ma mi pare che guadagni addirittura qualcosa rispetto ad esso nel songwriting: è più essenziale nei suoni, più nudo, meno prodotto e di conseguenza fa più fatica a conquistare al primo assalto, ma la sua indiscutibile sostanza gli fa guadagnare posizioni nel tempo, un ascolto dopo l’altro.

Dopo quest’album, Danny Vaughan se ne va, il suo posto viene preso da Steve Augeri per il tutto sommato non disprezzabile ‘Shine’, ma il suono della band pare rimanere di suo esclusivo appannaggio per una sequenza di album solisti dal songwriting incerto, mai particolarmente elettrici e sicuramente non memorabili al di là delle sempre eccelse prestazioni vocali di Danny.