AORARCHIVIA

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CRY WOLF

 

 

  • CRUNCH (1990)

Etichetta:Grand Slamm Reperibilità:scarsa

 

Ricordate lo strano misto di fascino e sospetto che suscitava il Giappone nei Big 80s? L’economia del sol levante galoppava a ritmi frenetici e pareva che il futuro appartenesse tutto ai ragazzi con gli occhi a mandorla. Poi sono arrivate recessioni e crisi economiche in successione e oggi la terra dei kamikaze appare avvolta in un limbo grigio, oscurata e messa da parte da una Cina che fa puramente e semplicemente paura (con ragione?). La Cina ha indubbiamente strappato al Giappone il ruolo di potenza economica globale, ma non ha altro da offrire al mondo salvo prodotti a basso prezzo: è un predatore puro, feroce ed onnivoro, tutto artigli e voracità. Il Giappone, pur nel suo sostanziale disprezzo per i gajin, considerava invece l’occidente con lo stesso impasto di diffidenza ed attrazione con cui l’occidente osservava lui, importando non solo merci, ma anche cultura, sopratutto in campo musicale. Per l’hard rock, il Giappone era diventato terra di conquista fin dagli anni ’70, ma per il rock melodico divenne quasi istantaneamente una seconda patria, al punto da recitare un ruolo, secondario ma per nulla trascurabile, nella storia dell’AOR, sopratutto in campo discografico, grazie all’attività delle sedi locali delle majors e di alcune potenti etichette nazionali, come l’arcinota Pony Canyon (le bands aborigene – dai Loudness agli Ezo, dai Vow Wow ai 44 Magnum – non sono mai andate oltre un onesto e a volte un po’ ingenuo artigianato). E se dei Cry Wolf possiamo parlare – meglio: se dei Cry Wolf c’è qualcosa da ascoltare – lo dobbiamo al Giappone. Questa band losangelena aveva difatti avuto l’idea di autofinanziarsi un signor demo, un prodotto potenzialmente adatto anche ad essere pubblicato che però non attrasse l’attenzione di alcuna etichetta yankee. Ma arrivò la giapponese Shinjuku, che lo stampò – solo in Giappone, naturalmente – sia in vinile che in CD (un mini-CD, per la precisione). Si fece avanti poi un promoter che portò la band a fare un tour a Tokio e dintorni, e con un tale successo che la EMI Japan gli fece incidere un album, pubblicato poi nel 1990 dalla Grand Slamm in USA in una versione largamente rimaneggiata e con un titolo diverso (‘Crunch’, mentre la release nipponica era intitolata ‘Cry Wolf’). Sembrava che per i Cry Wolf il futuro fosse tinto di rosa, avevano cominciato un tour in patria quando il van in cui tenevano strumenti e attrezzatura venne rubato: lo ritrovarono dopo poco, ma svuotato e incendiato. Fu un brutto colpo per il morale della band che, appiedata e sconfortata, gettò la spugna e si dissolse, salvo tornare recentissimamente con un sound aggiornato che nulla ha da spartire con quanto fatto ai bei tempi che furono.

E fatto, oltretutto, molto bene. ‘Crunch’ era un album davvero eccellente, focalizzato in prevalenza sull’hard rock losangeleno ma comunque vario e dinamico. “Road to Ruin”, dopo un intro d’effetto, ci catapulta sul Sunset Strip con un metal californiano tra Ratt e Autograph che si fa addirittura glorioso nel refrain; formula replicata nell’altrettanto piacevole “Face Down in the Wishing Well” con una deriva ancora più accentuata verso il sound della band di Stephen Percy. “Red Shoes” vira decisamente verso l’universo sonoro dei Van Halen, saltellante e con un guitar work spettacolare, con il singer Timmy Hall davvero bravissimo a calarsi nella parte del marpione stile Diamond Dave. Cala il ritmo per “Long Hard Road”, notevole ballad elettroacustica, sognante ma nient’affatto eterea, ma la band riprende immediatamente a macinare Watt con “On the Run”, class metal serrato ma con piacevoli spunti melodici. Per “Stop, Look, and Listen” torna l’hard & boogie di marca Van Halen, agile, turbinoso, divertente. “Pretender” è l’ennesima figlia illegittima di “Ten Years Gone”: i Cry Wolf forse esagerano un po’ nel ricalco, ma dopotutto ne abbiamo sentite di peggio in questo ambito e l’arrangiamento è di gran classe: consideriamolo un omaggio a Page & compagni, oltre che una gustosa attualizzazione di un classico sempiterno (per inciso, curiosamente escluso da quella che doveva essere l’antologia definitiva dei Led Zeppelin, ‘Mothership’). “Dirty Dog Night” ha un titolo che già dice tutto: party metal vibrante, festaiolo, con un discreto feeling Motley Crue. Sono gli Whitesnake, invece, a ispirare “West Wind Blows”, maschia, cadenzata e sinuosa nello stesso tempo. Chiusura affidata a “Back to You”, quasi una power ballad, melodica ed elettrica, come degli Autograph più raffinati o degli Steelheart meno heavy. Mi preme sottolineare l’eccellenza del chitarrista Steve McKnight, l’abbondante presenza delle tastiere e la bravura di Timmy Hall al canto, duttile ed espressivo senza forzature.

Non facilissimo da trovare e abbastanza caro, ma ‘Crunch’ è un disco che ogni amante dell’hard rock californiano di classe dovrebbe avere nella propria collezione.

 

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WHITESNAKE

 

 

  • FOREVERMORE (2011)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Prima di cominciare a riferirvi del nuovo album degli Whitesnake, sento il dovere di coprirmi il capo di cenere e fare pubbliche scuse a Doug Aldrich. Le mie illazioni riguardo la sua scarsa creatività e gli interventi sugli arrangiamenti delle canzoni di ‘Good To Be Bad’ da parte di Reb Beach che avevo ipotizzato nella recensione di quel disco si sono rivelate del tutto campate in aria: Reb Beach, difatti, su ‘Good…’ ha suonato poco o nulla e la quasi totalità della parti di chitarra sono state eseguite da Doug Aldrich. All’esecuzione di questo nuovo album, invece, Reb Beach ha partecipato più attivamente, ma dato che non si è qui rinnovata la tradizione degli Whitesnake di specificare canzone per canzone chi, dei due chitarristi, suona gli assolo, non saprei dire cosa venga dalla sei corde di Reb e cosa da quella di Doug. E il fatto che i loro interventi non siano identificabili a colpo d’occhio, è un un chiaro segno della compattezza di questa strepitosa coppia d’asce.

E adesso: ‘Forevermore’…

Com’è questo disco? Sopratutto, com’è in rapporto a ‘Good to be bad’?

Risposta telegrafica: diverso.

E non poteva essere altrimenti. Perché forse era impossibile andare oltre quanto era stato fatto su ‘Good…’. Un album titanico, che nella varietà dei temi rimaneva sempre tempestoso, elettrico, urgente. ‘Good to be bad’ era un ciclone che si abbatteva implacabile sull’ascoltatore, lasciandolo con il fiato mozzo, lo percorreva una tensione quasi spasmodica, come se ogni canzone fosse destinata a diventare l’ultima parola sulla specifica tematica affrontata. Un capolavoro inaspettato e forse imprevedibile. Di certo, avranno pensato David Coverdale e Doug Aldrich, irripetibile. E allora, saggiamente, per ‘Forevermore’ si cambia. Non troppo, ma quanto basta per qualificare questo nuovo disco come diverso da ‘Good…’. Ha quasi il sapore di un viaggio attraverso trent’anni di storia della band, partendo da ‘Ready and Willing’ e arrivando fino a ‘Good…’, perché questo penultimo album è già un classico, ha ridisegnato il sound della band, sound a cui ‘Forevermore’ resta fedele ma svariando parecchio, e sempre in modo efficace. Se amate gli Whitesnake in toto, prima e dopo la conversione yankee, ritroverete con piacere cose che dopo ‘Slide it in’ sembravano perdute per sempre. Dunque: una celebrazione? E perché no? Ripresentarsi tramite tutto il proprio spettro sonoro, senza rinnegare nulla di quanto è stato fatto nella propria carriera è anche una questione d’orgoglio, di giusto orgoglio e il pedigree che questa band può esibire la autorizza ad inorgoglirsi senza riserve.

David Coverdale è più in forma che mai. La sua voce ha avuto un netto miglioramento rispetto a ‘Good to be bad’, e alla soglia dei sessant’anni (li compirà il 22 settembre) sembra tornata quasi alla magia dei bei tempi che furono. Non so quali cure abbiano prodotto questo mezzo miracolo, ma proprio di “miracolo” dobbiamo parlare, basta ricordare in quali condizioni erano ridotte le corde vocali di David già all’epoca di ‘Restless Heart’, e parliamo del 1997 (naturalmente, potremmo fare qualche cattivo pensiero sul fatto che il figlio di David, Jasper, è accreditato a “vocals” non meglio specificate e chiederci se il rampollo non sia venuto in soccorso del genitore in qualche frangente, ma una perfetta identità di voce tra padre e figlio è ipotesi più fantascientifica che maligna e allora l’eventualità che David Coverdale abbia dovuto far ricorso ad una controfigura canora ha più o meno la stessa consistenza delle voci che volevano Lee Aaron avesse “aiutato” un Klaus Meine con grossi problemi alla gola a prodursi nei suoi tipici acuti durante la registrazione di ‘Savage Amusement’).

Steal Your Heart Away” apre l’album con una vera dichiarazione d’intenti: l’inizio ruggente prelude ad un impasto emozionante di vecchi e nuovissimi Whitesnake: anthemica, con quel riffing tagliente e veloce innestato su un ruvido telaio blues e le rifiniture di armonica. Insomma: l’ennesimo masterpiece. Si torna ai Big 80s con la sinuosa “All Out of Luck”, che però ha un ritornello “morbido” nello stile più british della band. “Love Will Set You Free” pone una questione interessante: suona come un formidabile esercizio sul tipico sound alla ‘1987’ ma è anche quasi identica alla “Smooth Locomotion” che apriva il primo album dei Burning Rain, l’ultima band solista di Doug Aldrich. D’altra parte, come ho ampiamente raccontato nella recensione di quel disco (per saperne di più, seguite il link), i Burning Rain avevano come fondamentale punto di riferimento proprio gli Whitesnake, quindi “Smooth Locomotion” era a sua volta ispirata al materiale presente su ‘1987’. Un serpente (bianco, naturalmente…) che si morde la coda o un gioco di specchi, chiamatelo come vi pare: però, questa citazione alla terza potenza funziona e tanto basta (a me, almeno). Anche “Easier Said Than Done” appartiene al periodo californiano, una power ballad veramente efficace. Brusco ritorno al sound di ‘Good To Be Bad’ con “Tell Me How”, heavy, drammatica e zeppeliniana con il suo riffeggiare nervoso e potente, mentre “I Need You (Shine a Light)” è in pratica una scheggia di ‘Ready and Willing’ o ‘Come and Get it’ – con tanto di organo Hammond – opportunamente metallizzata. “One of These Days” e “Fare Thee Well” sono sensibili ballad elettroacustiche che prendono spunto dal materiale analogo di ‘Restless Heart’, con un risultato finale però incomparabilmente superiore (non tanto perché a suonarle non è Adrian Vandemberg – per cui, in ogni caso, non stravedo – ma perché quel disco mancava quasi del tutto di ispirazione e convinzione). Su “Love and Treat Me Right” sembra che la chitarra ritmica sia suonata da un Bernie Marsden in OD da testosterone: un grande refrain incastonato in un mosaico di nuovo alla ‘Good To Be Bad’, mentre “Dogs in the Street” ci riporta ancora una volta all’epoca dei capelli platinati e delle Jaguar argento metallizzato, un magnifico class metal con il finale che riecheggia vagamente “Kittens Got Claws”. “Whipping Boy Blues” è un fragoroso hard blues zeppeliniano, beffardo e sexy, quasi una alternate version della “Woman Trouble Blues” di ‘Restless Heart’ aggiornata al nuovo sound. “My Evil Ways” si sviluppa lungo un impasto fenomenale di vent’anni di sound della band, svariando tra i vecchi album britannici, ‘Good To Be Bad’ e il disco con Jimmy Page, il tutto ritmato a tempo di blues e con uno stratosferico incrociarsi di assoli. Finale glorioso con gli oltre sette minuti della title track: chiaroscuri era ‘Coverdale/Page’, veli di tastiere e intrecci di chitarre acustiche che preparano una squisita grandeur zeppeliniana ritmata sull’andamento della sempiterna “Ten Years Gone”.

Annotato che  qui c’è al lavoro una nuova sezione ritmica (Michael Devin al basso ed il veterano – Foreigner, China Rain, Pride & Glory, Steve Stevens… – Brian Tichy alla batteria), non c’è davvero altro da dire, soltanto prendere ‘Forevermore’ e spararselo a volume adeguato. Ed io posso concludere questo pezzo solo con un'alternate version (anche per rimanere in tema…) della mia recensione di ‘Good To Be Bad’: ancora grazie, mister Coverdale.

 

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FLAME

 

 

  • FLAME (1992)

Etichetta:Giant Reperibilità:scarsa

 

Quando penso che, ai bei tempi che furono, band come i Flame venivano catalogate tra quelle “minori”… Se oggi avessimo anche soltanto dieci nuove band capaci di sfornare dischi come quello di cui mi appresto a riferirvi, potremmo vivere felici e senza rimpianti per il rock melodico di una volta.

Biografia e notizie assortite sui Flame, praticamente non ce ne sono. Pare venissero dalla Bay Area di San Francisco ed esordirono nel 1989 con un album intitolato ‘Blaze’ su etichetta Rockhill Records che io non ho mai visto dalle nostre parti ma negli States è tutt’altro che una rarità, esattamente come questo secondo disco omonimo, uscito per la Giant (sempre una label indipendente ma distribuita dalla major Warner) nel 1992, troppo tardi per incidere su un mercato già catalizzato dalla nuova sensazione Grunge (bisogna anche sottolineare la scarsa attitudine della Giant di provvedere ad una promozione adeguata per le bands del proprio rooster: chiedetelo ai Bangalore Choir…). Finito rapidamente nei forati, ‘Flame’ gira oggi su eBay ed Amazon a pochi dollari, uno di quegli album inspiegabilmente snobbati dai cercatori di reliquie dei Big 80s, e non è certo una disgrazia considerato che proprio questo strano disinteresse contribuisce a tenerne basse le quotazioni. E il disinteresse è davvero incomprensibile, considerato quanto i Flame ci propongono attraverso le 14 tracce di un album davvero completo, ben prodotto e arrangiato e benedetto da un songwriting vario e brillante.

La breve scheggia acustica “Razor Blade Road (Prelude)” apre in maniera suadente il disco, ma “Rain” cambia bruscamente atmosfera con il suo riffone secco su cui va ad adagiarsi un pregevole intreccio di voci, fantasmi di keys, un breve intervento di armonica per un risultato finale che impasta piacevolmente Lynch Mob e Tangier, e sulla stessa falsariga procede la successiva “Electraglide”, più ruvida e ancora più Lynch Mob. “Wild One” è invece un bel metal californiano sul tipico asse Crüe/Ratt, mentre sulla eccellente “Don’t Look Down” i Flame suonano come dei Foreigner più heavy. “Wonderland” si rivela per un notevole street metal, agile e sinuoso, intarsiato di bei breaks notturni, un bridge percussivo ed un assolo breve e rauco, la grande atmosfera della power ballad “Shelter You” (chitarre acustiche e organo Hammond sugli scudi) richiama Tesla, Cinderella e Guns N’ Roses, “If You Had a Heart”, dopo un intro acustico e traditore, si srotola in un dinamico hard melodico che viaggia su un bel riff singhiozzante, un vago tappeto di tastiere ed una linea melodica avvincente e molto Lynch Mob. Riffone massiccio e clima anthemico per “Never Say Die”, ancora un’introduzione acustica e zeppeliniana per “Ball and Chain”, prima che il suo riff ci catapulti in pieno Sunset Strip, anche per il tramite di un refrain molto Keel. “Blood for Blood” ci regala un altro bel ritornello sospeso su un variegato telaio elettrico, “Desperate Heart” è ancora una power ballad, dove aleggia di nuovo il fantasma dei Tesla  e spunta quello dei Bon Jovi. “Automatic” è un grande class metal ritmato, notturno e anthemico, caratterizzato dalle sciabolate di Hammond sull’incedere delle chitarre e da vaghe ombre Van Halen. “Razor Blade Road (Reprise)” chiude il disco con un sovrapporsi di chitarre acustiche ed Hammond, flavour zeppeliniano che sfocia in un finale dove un organo stende panneggi esotici e arcani.

Nelle note stampate sul booklet non è riportato il nome del tastierista – che questa band non aveva nella propria line up – ma nella lista dei ringraziamenti spunta il nome di Kim Bullard, e sospettare che ci sia proprio lui a pestare sui tasti d’avorio diventa legittimo, un ulteriore plus per una raccolta di canzoni veramente pregevole, ben suonata e cantata, accuratamente prodotta da Bill Wray e di cui sarebbe veramente criminale privarsi, anche per via delle sue quotazioni sul mercato dell’usato: il rapporto qualità – prezzo è elevatissimo, e chi ama la scena hard rock californiana non può davvero rinunciare al parto di questa band impropriamente definita “minore”.

 

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WAYSTED

 

 

  • SAVE YOUR PRAYERS (1986)

Etichetta:EMI Capitol

Ristampe:Amazing Rediscoveries/Majestic Rock

Reperibilità:in commercio

 

La storia di questa band comincia con un’altra band, i Fastway. Come ho raccontato nella recensione a loro dedicata (per leggerla, seguite il link) i Fastway dovevano essere un progetto comune di Eddie Fast Clark e Pete Way. Ma Way si ritrovò più o meno volontariamente fuori dai Fastway ancora prima di cominciare. Fuori anche dalla band di Ozzy Osbourne, Way, che aveva lasciato gli UFO per divergenze musicali con Phil Mogg, si mise in proprio con gli Waysted. Pete non aveva digerito la svolta melodico/commerciale di 'Mechanix' e difatti il primo lavoro della neonata band era all’insegna di un heavy metal piuttosto ispido. Ma la sirena del mercato USA intonava un canto irresistibile e dopo un altro album, 'The Good, the Bad, the Waysted', Pete Way decise di ammorbidire sostanzialmente il sound dei Waysted tramite del materiale che avesse qualche chance di scalare la classifica di Billboard. Il suo ex compagno degli UFO Paul Chapman riprese il posto di chitarrista (lasciato per un tour al futuro Cold Sweat Eric Gamans) e, a conferma del nuovo target che Pete aveva in mente, arrivarono a completare la line up ben tre statunitensi: il batterista John Diteodoro (poi Johnny Dee quando entrerà nei Britny Fox)), il key player Jimmy DeLella ed il cantante Danny Vaughn, gli ultimi due reclutati da Chapman (avevano fatto parte dei suoi D.O.A., poi Circus Circus).

Danny Vaughn non è accreditato come autore di nessuna delle dieci (undici nella ristampa del 1996) canzoni di ‘Save your prayers’, ma la continuità del sound tra gli Waysted di questo disco ed i primi due album della futura band di Danny, i Tyketto, autorizza a sospettare che il cantante non si sia affatto limitato a prestare la propria voce al materiale composto dalla coppia Way/Chapman, ma sia intervenuto in maniera abbastanza radicale a livello quantomeno di melodie e arrangiamenti su più di una canzone. “Walls Fall Down” apre l’album tramite un class metal anthemico e totalmente californiano ma “Black & Blue” e “Singing to the Night” suoneranno familiari a chi già conosce ‘Don’t Come Easy’ e ‘Strenght in Numbers’: la prima introdotta da un bell’arpeggio, la seconda con nitide rifiniture di piano ed un assolo molto melodico, sono impostate su grandi melodie nella vena del rock mainstream d’epoca (Springsteen, Mellecamp, Tom Petty) stese su un imponente tappeto elettrico. “Hell Comes Home” è ancora class metal dall’arrangiamento variegato, cadenzato e maestoso, intarsiato di sapienti tocchi di keys, mentre “Hero’s Die Young”, dopo l’intro di piano e chitarra acustica, esplode in un heavy metal galoppante, l’assolo sembra che Paul Chapman l’abbia preso dal songbook di Toni Iommi, piacevole grazie sopratutto al canto di Danny, sempre lontanissimo dallo stile tronfio e solenne del cantante tipo di HM classico. “Heaven Tonight” torna all’hard melodico, quasi una power ballad dove spiccano il pianoforte e la marcata vena Springsteeniana, “How the West Was Won” innesta invece sulla matrice una forte e piacevole trama rock’n’roll. “Wild Night” è un party metal veloce e divertente, con tanto di assolo vanhaleggiante, poi il metal californiano torna a dettare legge con la grande “Out of Control”, un po’ Ratt, piena di ombre bluesy, notturna e suadente pur nel suo riffing secco, spezzata da briges melodici dilatati dalle tastiere. “So Long” chiudeva con una magnifica power ballad metallica, nello stesso tempo maschia e malinconica. La ristampa aggiungeva come bonus track la B side del 45 giri “Heaven Tonight”, “Fire Under the Wheel”, un class metal spettacolare, funambolico e rabbioso. Da sottolineare la bella produzione di Simon Hanhart. Nella ristampa del 2004, è stata aggiunta un’ulteriore bonus track, la cover della “Fortunate Son” dei Creedence Clearwater Revival.

Nonostante le vendite discrete, almeno in patria, la band si sfasciò dopo un paio di tour, salvo riformarsi nel 2003 e pubblicare ad oggi un paio di album, senza più Danny Vaughn, sostituito dal vocalist dei primi due dischi, Fin.

Con una promozione giusta, ‘Save Your Prayers’ avrebbe potuto ambire sul mercato americano a risultati molto più lusinghieri di quelli che ottenne: con il suo sound perfettamente sintonizzato su quello che l’audience USA prediligeva, rimane ancora oggi una delle cose migliori che il rock melodico britannico (anche se, in effetti, la band in quel periodo era britannica solo per due quinti) abbia prodotto nella sua tutt’altro che gloriosa storia.

 

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RAINBOW

 

 

  • STRAIGHT BETWEEN THE EYES (1982)

Etichetta:Polydor Reperibilità:in commercio

 

L’ultima parte della carriera dei Rainbow non è mai stata in cima alle preferenze dei critici, almeno di quelli nostrani. Finché c’era Ronnie James Dio, andava tutto bene, ed anche la breve stagione con Graham Bonnet non era affatto da buttare via, ma l’arrivo di Joe Lynn Turner manda il gradimento per l’ensemble di Ritchie Blackmoore in caduta libera. Le accuse convergono attorno ad un’eccessiva “commercialità” della proposta, afflitta oltretutto da un songwriting poco ispirato e in generale troppo americaneggiante. Che Blackmoore fosse tentato dall’avventura nelle terre d’oltreoceano non stupisce se si pensa quante volte i Deep Purple avevano toppato nelle charts USA: tour sempre sold out ma vendite scarsine in rapporto a quanto si realizzava in Europa e Giappone. E le dimensioni del mercato yankee erano una tentazione troppo forte per resisterle. Il punto era, che Ritchie non voleva o poteva snaturare il proprio sound più di tanto per metterlo al servizio dei gusti degli americani, come farà in seguito David Coverdale, che ricalibrò totalmente gli Whitesnake per scalare la classifica di Billboard e arrivò a farsi biondo per apparire più telegenico a chi lo guardava su MTV. Insomma: concedersi all’audience a stelle e strisce, sì; cambiare pelle come un camaleonte, no. Esplorare nuovi territori, d’accordo; mettersi a fare il verso a Journey e Loverboy, decisamente no. Ma i compromessi, si sa, molto di rado funzionano, e quel compromesso che furono i Rainbow era Turner funzionarono poco o nulla. Un paio di singoli di successo, concerti sempre molto seguiti ma gli album vendettero, come al solito, ben poco in relazione alle potenzialità di quel mercato. E quando, nel 1983, arrivò l’occasione di rimettere assieme i Deep Purple, Ritchie chiuse il capitolo Rainbow senza pensarci due volte, forse addirittura con una punta di sollievo. L’impressione era che, dopo il primo tentativo fallito di scalata alle charts USA con ‘Difficult to Cure’, gli altri due album fossero venuti più che altro per inerzia, che il discorso Rainbow proseguisse soltanto perché Blackmoore non aveva niente di meglio da fare, o nulla di più stimolante su cui investire. Un’inerzia che portava anche ad episodi imbarazzanti. Se difatti su ‘Difficult…’ c’era “No Release” che faceva ricalcava pesantemente  la "Evil Wind" dei Bad Company, su ‘Straight Between the Eyes’ dobbiamo parlare di puro e semplice plagio per “Tearin’ My Heart out”, invereconda scopiazzatura della “Heartbreaker” dei Free. Che un personaggio della statura di Ritchie Blackmoore si rifugiasse in riciclaggi così plateali e sfacciati per mettere assieme un disco è un sintomo appunto di quell’inerzia, di una mancanza di stimoli che conduceva Blackmoore a percorrere la facile strada del ricalco piuttosto che cercare cose almeno passabilmente originali. Per il resto, ‘Straight…’, come il disco che lo precede e quello che lo segue, non è assolutamente da buttare dalla finestra, tutt’altro. Ci sono scampoli del più classico sound dei Rainbow come “Bring on the Night (Dream Chaser)”, col suo andamento galoppante ed il clima eroico alleggerito dal refrain melodico, e “Tite Squeeze”, un mid tempo più caldo e bluesy del solito, belle canzoni ma niente che non avessimo già sentito nei dischi precedenti. “Death Alley Driver” è invece un esempio del nuovo corso Billboard oriented, serratissima e americana anche se Ritchie e David Rosenthal non si fanno scrupolo di infarcirla con assoli tutti impostati su scale classiche, e qui l’innesto è più sconcertante che mai, come veder spuntare un violinista in frac sullo stage di un concerto dei Twisted Sister… “Stone Cold” è molto più convincente, come i Journey o i Legs Diamond trapiantati nel classico tessuto dell’hard rock inglese, “Power” è un bell’anthem dal riff secco, e anthemica si rivela pure la dinamica “Rock Fever”, rocknrollistica eppure moderna (c’è anche un synth bass). “MISS Mistreated” e “Eyes of Fire” sono però – con il senno di poi – le canzoni più interessanti, perché esprimono un sound che Blackmoore riprenderà e svilupperà su livelli molto superiori una decina d’anni dopo con ‘Slaves & Masters’ (che portava il monicker dei Deep Purple, con tutto quello che ne seguì: per chiarimenti, seguite il link). “MISS Mistreated” segue la linea AOR di “Stone Cold”, ma è più heavy, “Eyes of Fire” è esotica ed arcana, infarcita di assoli torrenziali, ma il clima barocco è alleggerito dall’interpretazione tutt’altro che retorica di Joe.

È notorio che il tempo sfuma e addolcisce tutto e dopo trent’anni magari qualcuno sarà tentato di iscrivere nella lista dei capolavori anche gli ultimi tre album dei Rainbow. Anche con tutta la buona volontà di questo mondo, però, ‘Straight Between the Eyes’ e i suoi due fratelli non possiamo proprio caricarli su questo registro. Non sono neppure, in compenso, dei pozzi senza fondo. Dischi a corrente alternata, questo sì, che presentano cose buonissime, altre passabili e altre ancora da dimenticare. Per me, sopratutto il preludio a quel masterpiece che sarà ‘Slaves & Masters’ che, anche se portava un altro moniker, è l’ultimo ed il migliore disco dei troppo bistrattati Rainbow era Turner.

 

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KING KOBRA

 

 

  • KING KOBRA (2011)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Vita tormentata, quella dei King Kobra. Un continuo vagolare tra i generi, cantanti che andavano e venivano… Non ne sono mai andato pazzo, né ho mai capito perché godevano di tanta buona stampa fra i critici. L’impressione era che a questa band mancasse sempre qualcosa, anche se non sono riuscito a capire cosa finché non ho ascoltato questo disco. Non era qualcosa, ma qualcuno: Paul Shortino. Non che Kelly Keeling non potesse riempire la casella vuota che avevo sempre visto nei King Kobra, ma il suo ingresso nella band avveniva in coincidenza con la scelta di Carmine Appice di allinearsi alle mode vigenti e il risultato era l’orrido ‘Hollywood Trash’ (titolo che voleva essere comico ma risultava invece assai esplicito sul contenuto dell’album in questione), che con l’hard melodico non aveva più molto a che fare. A dieci anni giusti da quella bruttura, Carmine realizzava finalmente quello che tanti altri act (Ratt, Warrant, Lynch Mob eccetera) avevano compreso già da qualche tempo: le band degli anni ’80 hanno un seguito che vuole da loro la musica degli anni ’80, punto e basta. E allora, il nuovo ‘King Kobra’ spara dodici, affilate schegge di metal californiano dei bei tempi che furono, fregandosene allegramente del calendario e mettendo da parte voglie (patetiche) di top ten. Per l’occasione, la line up è tornata quella originale, con David Michael-Philips e Mick Sweda alle chitarre e Johnny Rod al basso e la fondamentale aggiunta di Paul Shortino che non si limita a cantare ma contribuisce fattivamente al songwriting.

Rock This House” è un classico brano di apertura, frenetico e serrato ma con un bel refrain party oriented, “Turn Up the Good Times” ha la stessa atmosfera festaiola ma cambia il tempo che diventa lento e cadenzato, “Live Forever” muta registro, hard melodico ad ampio respiro che impasta Dokken, Bon Jovi e Journey. Si torna al metal californiano con la strepitosa “Tear Down the Walls”, tra Autograph e Quiet Riot, con un coro di puro arena rock, clima subito replicato dalla veloce e cattiva “This Is How We Roll” arricchita al principio da un rovente effetto live. “Midnight Woman” chiama in causa gli Whitesnake (e di nuovo gli Autograph), bella la punteggiatura martellante del piano ed il bridge di tastiere, “We Got a Fever” è una grande esercitazione sulla materia dell’hard rock vanhaleniano era Roth, “Top of the World” ritorna al class metal, massiccia ma agile, con un refrain arioso che scivola su un bel tappeto di tastiere, “You Make It Easy” è più melodica e Whitesnake, qui nel bridge  spicca una chitarra acustica e spagnoleggiante. “Crying Turns To Rain” è una discreta power ballad, poi tornano a fare capolino i Van Halen (per il tramite dei loro figliocci Bulletboys) su “Screamin’ For More”, scanzonata, con la sua atmosfera da nightclub losangeleno affollato di stangone poppute e chiude “Fade Away”, super ballad tutta acustiche e tastiere, tramata di una bella sezione archi, vagamente Bon Jovi.

King Kobra’ è dunque un disco senza emergenze, che fa dell’atmosfera vintage (anche nel suono, appena impastato e piacevolmente analogico) la sua vera forza, bastano i titoli (e i testi) delle canzoni a raccontare un album che snobba l’attualità socio/musicale per fiondarci nella cromata Los Angeles dei Big 80s. Al di là del suo valore come macchina del tempo per inguaribili nostalgici, ‘King Kobra’ resta una buona esercitazione su quel sound che ha segnato un’epoca e – per me, almeno – la miglior cosa che quel moniker ci abbia offerto fino ad oggi.