HARD BLUES DEPARTMENT

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REBECCA DOWNES

 

 

  • BELIEVE (2016)

Etichetta:Mad Hat Reperibilità:in commercio

 

Quanto è importante la voce, in una canzone rock? Ve lo siete mai chiesto? Il modo in cui interagiamo con quelle voci che spesso pronunciano parole che neppure riusciamo a decifrare o tradurre è complesso, difficile da spiegare. Personalmente, non mi sono mai imbattuto in una voce che fosse irresistibile a tal punto da spingermi all’ascolto di qualunque cosa abbia mai cantato. L’ugola femminile che ho sempre trovato più affascinante è quella di Alannah Myles, ma questo non è bastato a farmi piacere album come ‘A Rival’ o ‘85 BPM’: per quanto straordinaria sia la voce di Alannah, non riusciva a rendermi comunque gradevole musica troppo lontana dai miei gusti. E se pure la musica è inquadrabile fra quella di mio gradimento, un tessuto sonoro di qualità non eccelsa rovina in genere tutto il divertimento. È un fatto che una bella voce può trasformare un lotto di canzoni nient’affatto straordinarie in oro puro e, all’inverso, una brutta voce può sfregiare e rendere inascoltabili schegge di pregevole contenuto musicale. È però anche un fatto che, in campo rock, siamo tutti piuttosto di bocca buona: senza arrivare ai casi estremi di gente come Ozzy o Lemmy buonanima, indubbiamente il rock tollera (o addirittura venera) personaggi che in altri generi musicali non potrebbero neppure sognare di mettersi davanti ad un microfono. Oltretutto, le voci veramente belle, in campo rock, non sono poi comunissime: chi se le ritrova, preferisce spesso valorizzarle in altri ambiti, in cui la pressione sonora è meno forte e la voce può venire fuori senza dover obbligatoriamente battagliare con un tessuto musicale gonfiato da montagne di Watt. Questo lungo preambolo alla recensione del secondo disco di Rebecca Downes spero sia servito a chiarire non solo il mio pensiero riguardo l’elemento “voce” in campo rock, ma anche a inquadrare il problema che il suddetto elemento pone nella valutazione complessiva di un album. Quando alle nostre orecchie arriva una voce strepitosa, magari rischiamo di farci ammaliare, prendere al laccio, incantare, anche se la musica su cui scivola è di caratura tutt’altro che eccelsa, dando del mix finale un giudizio positivo che chi dalla voce non è altrettanto ammaliato potrebbe finire per non condividere. La voce di Rebecca Downes mi ha stregato e preso al laccio immediatamente ma, c’è forse solo quella straordinaria ugola che vale la pena di ascoltare su ‘Believe’ e l’album che lo ha preceduto, ‘Back to The Start’? No… grazie al cielo. Il rock blues che la sua backing band le mette a disposizione non è certo avventuroso, ma di sicuro è molto efficace e certamente ha contribuito quando le è stato assegnato il riconoscimento di miglior vocalist femminile ai British Blues Award l’anno passato. Nonostante quel premio, Rebecca è ancora pochissimo nota fuori dal Regno Unito, e anche in casa non è che abbia fatto sfracelli (su Facebook ha soltanto poco più di 7500 like). Non è una novellina: anche se non sappiamo quando sia nata, dalle sue foto è evidente che non è giovanissima. Del resto, da dieci anni lavora come vocal coach, ha preparato anche partecipanti a spettacoli della TV inglese, inclusa l’edizione locale di The X Factor. Ma, tornando alla sua voce… Come posso descriverla? Diciamo che somiglia un po’ a quella di Alannah Myles. Solo un po’. La sua ugola non ha quei toni acidi e rauchi che vanno a sovrapporsi in maniera miracolosa ad altri morbidi e vellutati. Ha un tono pulito, ma di una grana ricca. È, soprattutto, una voce intensa, ma che resta sempre perfettamente controllata e questo bisogna sottolinearlo, perché non vorrei qualcuno commettesse lo sbaglio di accostarla a certe vocalist del retro rock, patetiche scimmiottatrici di Janis Joplin che credono di poter esprimere le proprie emozioni mugolando, squittendo, o semplicemente urlando a squarciagola come ossesse: Rebecca canta il blues ed il rock, non grida né biascica, e la sua proposta musicale con il retro rock non ha nulla a che vedere. Timbriche pulite, produzione di ottimo livello, eccellente songwriting sono una rampa di lancio perfetta per una voce come la sua e che il missile raggiunga con regolarità le stelle è l’ovvio risultato finale. “Never Gonna Learn” è un inizio scoppiettante a ritmo di boogie, ben lubrificato dall’organo Hammond, “Night Train” è vellutata nelle strofe, aggressiva nel refrain, il classic rock avvincente di “It’s That Easy” precede lo slow zeppeliniano “Sailing On a Pool of Tears”, mentre il funky – suadente, agile e sexy – segna il tempo di “Sweetness”. Il blues elettrico torna a dettare legge su “1000 Years”, “Could Not Say No” è uno slow morbido come la seta, “Long Long Time” sono le 12 battute elettrificate in chiave rock, con piacevole contorno di armonica e slide guitar, “Momma’s Got a Gun” saltella sfacciata e sinuosa, ancora blues robusto con una Rebecca camaleontica che alternativamente graffia e carezza… “Salt Winds” si potrebbe descrivere come un parto di ipotetici FM molto più soul del consueto, mentre Chris Rea sembra spuntare fra le note di “Come With Me Baby”, slow notturno e carezzevole. Gran finale con la title track, il brano più rock del disco, che viaggia su un delizioso giro di chitarra dal sapore esotico ed ha l’epicità dei migliori Bad Company.

Non voglio concludere questo pezzo con la scontate lamentazioni riguardo la mancanza di meritocrazia in campo musicale: se il successo dipendesse solo dal talento, Rebecca Downes dovrebbe essere già una star, invece è conosciuta poco perfino a casa sua. Ve l’ho segnalata con deprecabile ritardo (‘Believe’ è uscito nel 2016) ma l’importante è che l’abbia portata alla vostra attenzione: non lasciate che questa meravigliosa voce svanisca nel nulla.

 

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SAMARKIND

 

 

  • SAMARKIND (2017)

Etichetta:autoproduzione Reperibilità:in commercio

Da una band esordiente formata da personaggi sicuramente minori (il cantante ha militato negli Assassin, una band irlandese con all’attivo solo un 45 giri nel 1987, il chitarrista polacco Michal Kulbaka era negli heavy metallers Lancelot Lynx), non ti aspetteresti molto, invece questi Samarkind pubblicano un album di notevole qualità, dando un’interpretazione personale ed avvincente del sound dei Bad Company, a cominciare da “Black Rain”, convulsa, intensa, ben lubrificata dalla chitarra slide, con nette sfumature southern e zeppeliniane. Anche il riff di “Sun Stroke Heart” è molto à la Page, mentre “Skinny Rivers” ha un ritmo boogie ed una chitarra funky, ancheggiante e divertente. La ballad elettroacustica in crescendo “Good Man Call” è un po’ opaca ma ha una seconda parte ricamata di begli assoli di chitarra. Tutto il resto si ispira al sound della band di Mick Ralphs: rifatto in chiave ruvida e selvatica su “Thru That Door”; in versione western, decisamente spettacolare con quel riff pulsante, in “Fire And Blood”; impastando elettrico ed acustico con un riffing tra il southern e l’esotico in “Touch Stone Man”, tanto misteriosa e fisica, sexy e intensa; al tempo di un riff secco nella fascinosa “Blue Mountain”. La scelta  (o la necessità, non lo sappiamo) dell’autoproduzione rischia di tagliargli le gambe, il supporto di una label continua ad essere fondamentale se si vuol far conoscere il frutto dei propri sforzi fuori dalle pagine di Facebook o YouTube, ed i Samarkind meritano di essere posti all’attenzione di chiunque ami l’hard rock più classico ma praticato con un piglio moderno e ben lontano da qualunque tentazione revivalistica e filologica.

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BILLY F. GIBBONS

 

 

  • THE BIG BAD BLUES (2018)

Etichetta:Concord Records Reperibilità:in commercio

Il quasi ovvio titolo di questa recensione potrebbe essere “ritorno al blues”, con il reverendo che si lascia alle spalle le atmosfere cubane praticate di recente per immergersi nuovamente nel blues più sanguigno ed elettrico, fra cover ed originali: un dichiarato omaggio alle sue radici. Ma funziona? In dettaglio: “Missin’ Yo’ Kissin’” è totalmente ZZ Top, con una chitarra nello stesso tempo sporca e tagliente ed un’armonica dal suono semplicemente orrendo; “My Baby She Rocks” è un mid tempo lento e pigro, impostato su timbriche sporchissime, che avremo già sentito diecimila volte, proprio come “Second Line”. La prima cover in scaletta è la “Standing Around Crying” di Muddy Waters, ed è resa con un bel piglio, fra i suoni grassi di chitarra, l’armonica e la voce rauca del reverendo. “Let The Left Hand Know…” ha un ritmo dondolante e chitarre di nuovo sporchissime, la “Bring It To Jerome” di  Jerome Green diventa un boogie dal suono feroce ma sempre lento e cadenzato, mentre “That’s What She Said” ha una bella slide che disegna un riff geometrico. “Mo’ Slower Blues” è un mid tempo potente e fascinoso, quasi un voodoo blues, con tanto di pianoforte, ma è cantata dal Nostro con una voce più buffonesca e sopra le righe del solito. “Hollywood 151” è molto vivace, l’eterna “Rollin’ and Tumblin’” (sempre di Muddy Waters) suona velocizzata e nervosa e funziona benissimo, mentre la “Crackin’ Up” di Bo Didley viene riproposta in maniera praticamente filologica, una scheggia di quel pop americano degli anni ’50 di cui nessuno sembra sentire particolarmente la nostalgia. Insomma, ‘The Big Bad Blues’ convince solo in qualche episodio, per il resto suona scontato o lascia il tempo che trova. E non c’è da meravigliarsene, dopo tutto: sono passati i tempi in cui la musica si doveva vendere, e dunque doveva avere un valore ed un significato. Sono passati i tempi in cui le registrazioni le finanziavano le labels, che pagavano apposta i produttori per tenere sotto pressione e (nel caso) prendere a calci nel culo i musicisti per farli rendere al massimo. Soprattutto per i mostri sacri del genere, tutto è scaduto a passatempo: registrare è niente più che un modo per ammazzare la noia tra un tour e l’altro, spendendo poco e senza stancarsi troppo, e uno come Billy Gibbons non si preoccupa certo di offrire chissà cosa nei suoi album di studio, tanto sa benissimo che la gente (in maggioranza suoi coetanei o giù di lì) verrà ai concerti comunque, e sopratutto per sentirlo suonare per la milionesima volta “La Grange” o “Legs”.

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GHOST HOUNDS

 

 

  • ROSES ARE BLACK (2019)

Etichetta:Maple House Records Reperibilità:in commercio

Non saprei dire quanto è rilevante, ma non posso fare a meno di segnalarvi che il leader di questa band è il miliardario (patrimonio stimato: circa 1,2 miliardi di dollari) Thomas Tull (chi vuol saperne di più su di lui, può seguire il link su Wiki). Quello che conta è la musica, e la musica dei suoi Ghost Hounds (in cui suona la chitarra e compone) è straordinariamente buona: hanno un bravissimo cantante dalla voce simil Paul Rodgers, perfettamente coerente con la loro proposta che proprio a quella band mirabile soprattutto si ispira. “Black Rose” e “Fire Under Water” sono i brani in cui più forte si sente l’ascendente, la prima tagliente, western e magari anche un po’ Outlaws, la seconda quasi filologica: grandiose. Ma anche la cover della “Devil Woman” cantata da Cliff Richards (i più la ricorderanno rifatta dagli Shy su ‘Excess All Areas’) è tramata di umori Bad Company, come il boogie “We Roll Hard” (inevitabile l’accostamento anche agli ZZ Top) e la morbida ballad elettrica “When Your Shadow Touches Mine”, C’è poi l’heartland rock in chiaroscuro intitolato “Til It’s Gone”, l’incandescente mid tempo blues alla “Red House” di “Push That Rock Up The Hill”, le rimembranze Rolling Stones e Who di “Skin The Games”, due ballad (“Second Time Around”, elettrica e carezzata dall’Hammond; il country folk elettroacustico di “Almost Loved You”). Del tutto insignificante, invece, “Bad News” che apre l’album con un rock blues accademico. Prodotto da Vance Powell (Chris Stapleton, The White Stripes, Danger Mouse, Arctic Monkeys, Kings of Leon), ‘Roses Are Black’ non è il primo album dei Ghost Hounds, dato che una prima versione della band pubblicò nel 2009 un disco prodotto addirittura da Nile Rodgers a cui non fece però seguito alcunché. Tull la sua quota di successo (il successo che conta di più agli occhi del mondo, quello economico) l’ha già avuta abbondantemente, e se i Ghost Hounds andranno in orbita non sarà certo per il portafogli del loro leader ma solo per la qualità elevatissima della loro proposta musicale.

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SHADOW & THE THRILL

 

 

  • SUGARBOWL (2020)

Etichetta:Deko Entertainment Reperibilità:in commercio

 

Non c’entra niente con la musica, d’accordo, però non si può fare a meno di notarlo: nell’era di Google, a volte, un nome può diventare una maledizione. Ti chiami “Tony Montana” e se qualcuno ti cerca con Google, cosa trova? Una montagna di pagine sul film ‘Scarface’, dove il personaggio interpretato da Al Pacino si chiamava così. Niente mi toglie dalla testa che è per questo motivo che il Nostro ha aggiunto quel “Cardenas” al proprio cognome e magari è per la stessa ragione che si è presentato al mondo con questo suo primo album solo tramite un moniker.

Tony Montana ce lo ricordavamo bassista nei Great White degli album migliori, ‘Once Bitten’ e ‘…Twice Shy’, poi era finito in ombra prima di ricomparire nella band di Jack Russell come chitarrista, dimostrandosi in questo ruolo eccezionalmente abile. Per questa nuova avventura si è associato a Brent James Arcement (Fiona Apple, BulletBoys), che si occupa di batteria e tastiere, mentre Tony canta ed esegue tutte parti di basso, chitarra e armonica.

L’apertura, affidata a “Lovesong”, non è proprio clamorosa: canzone diretta, fra il Bryan Adams più selvatico e i primi Bon Jovi: trascurabile. Si comincia a ragionare con “Misery”, heavy blues metallico e notturno, e ancora più in alto si sale con “The Grind”, che è funk, leggera e divertita, nelle strofe, r&b nel refrain, spezzata da un middle eight scandito da un pianoforte drammatico. Tocchi funky anche sulla title track, un hard bluesy che fa tanto primi Lynch Mob, imbastendo una bella commistione di elettricità ed atmosfera. Stratosferica “Ready To Roll”, che ci dà acustiche, elettriche e tastiere magistralmente intrecciate attraverso una scansione ritmica sinuosa e irresistibile, componendo un mosaico di atmosfere tramato da scoppi di energia. Rotola via tra i ’70 e gli ’80 “Just Enough”, hard rock con una accattivante anima funky, mentre “Crazy” è un superbo slow blues in forma di ballad. “Mississippi” è proprio quella dei Tangier (sul primo album, ‘Four Winds’), ma rifatta in versione acustica, e molto bene. Chiude alla grande “Unaware”, slow hard blues stregato ma dal refrain luminoso.

La produzione è impeccabile, Tony Montana canta bene e suona benissimo. ‘Sugarbowl’ è sicuramente uno degli highlight di quest’anno sciagurato in ambito hard blues.

 

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DUCAIN

 

 

  • DUCAIN (2021)

Etichetta:Mon Hills Records Reperibilità:in commercio

 

Con gli esordienti si deve essere magnanimi e pazienti, anche quando non sono esattamente di primo pelo. Questi Ducain, americani del West Virginia, sono quattro individui non proprio giovanissimi e di cui prima non si era mai sentito parlare, che hanno inciso mezzo album eccellente. Avete letto bene: mezzo album. La prima metà di ‘Ducain’ è notevolissima, da gridare al miracolo. Poi la band si affloscia e sbanda, recuperando qualcosa con l’ultimo pezzo in scaletta. Ma andiamo con ordine.

L’apertura, affidata a “Drops”, è un apprezzabile crossover tra southern rock e stoner, cupa ma suggestiva. A seguire, “Pocket Bullet Deputy” interpreta la materia prediletta di Blackfoot e Lynyrd Skynyrd  su un registro più heavy, mentre “Not the Drinkin’ Kind” accoppia di nuovo una pesantezza quasi stoner ad un refrain southern. “I’m Right Here” è praticamente una power ballad, lenta e in crescendo, fra Hammond e chitarre dal suono grasso e caldo, debitrice delle atmosfere di Outlaws e Black Crowes, “Killer” potrebbe funzionare come tema conduttore della soundtrack di un western moderno, minacciosa e con una bella alternanza di parti lente e altre più heavy. “Mountain Mama” la potremmo descrivere come un party southern, vivace e ritmata, ma il top assoluto è “Hurricane”, una canzone che i Lynyrd Skynyrd avrebbero firmato con orgoglio: un crescendo pacato, l’Hammond su cui ricama una chitarra solitaria, la superba melodia…

A mio modesto parere, i Ducain avrebbero potuto chiudere il loro disco d’esordio a questo punto, e credo nessuno avrebbe trovato nulla da ridire: sette canzoni bastano e avanzano a fare un album. Invece, hanno deciso di schiaffarci dentro altre sei canzoni, non tutte malvagie, ma neppure del tutto allineate alle prime sette. “Thick as Thieves” si esercita di nuovo nella commistione southern/stoner, ma con una esagerata enfasi anni ’70, “Phoenix” invece vagola tra il moderno e il grunge e dà la sensazione di essere finiti di botto in un altro disco. Va meglio con “Pray”, boogie con chitarre molto abrasive, e per nulla festaiolo, mentre con “Tempt Me” sembra che i Ducain abbiano voluto prendere gli Outlaws e (orrore!) farli diventare grunge. “Word to the Wise” suona dinamica e molto Black Stone Cherry, “Tenacious Soul” chiude con un crescendo malinconico e decisamente Outlaws, però risulta un po’ scontata.

Insomma, questi ragazzi (che poi, tanto ragazzi non sono) avrebbero – mi pare – le potenzialità per salire allo stesso livello dei migliori esponenti moderni del southern rock, come Whiskey Myers, Bishop Gunn o Primal Giants, ma devono imparare a tenere sempre acceso e ben tarato il loro shit detector (la spiegazione del termine la trovate alla fine della recensione a cui conduce il link), concentrandosi su quello che sanno fare meglio anziché buttare nei loro dischi tutto quello che hanno sotto mano per fare mucchio o – peggio – dare un colpo al cerchio e uno alla botte.

 

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BILLY F. GIBBONS

 

 

  • HARDWARE (2021)

Etichetta:Universal Music Reperibilità:in commercio

 

Dopo quel disco fiacco e a tratti decisamente insipido che fu tre anni fa ‘The Big Bad Blues’ (per i dettagli seguite il link in questa stessa pagina) non mi aspettavo molto dalla terza prova solista di Billy Gibbons, invece il nostro reverendo barbuto mi ha stupito sfornando un album davvero validissimo, che straccia senza pietà il suo predecessore (predecessore che venne votato addirittura album dell’anno ai Blues Music Awards del 2019: ennesima conferma – come se poi di una conferma ci fosse necessità – che la qualità di un album non ha gran peso nel giudizio di giurie e affini che devono attribuire premi e medaglie assortite).

Si comincia benissimo con quella sorta di funky-boogie intitolato “My Lucky Card”, mentre la successiva “She’s On Fire” è forse troppo diretta ma su “More more more” il reverendo ci sorprende suonando quasi come i Nickelback di ‘Dark Horse’ in una chiave meno heavy. “Shuffle, Step & Slide” si dipana su un classico shuffle blues, “Vagabond Man” è una ballad southern rock con bei panneggi di organo Hammond, “Spanish Fly” è un insolito anthem scheletrico e ipnotico e dall’anima blues. Il fantasma di Stevie Ray Vaughan aleggia sul rock blues “West Coast Junkie” mentre al più classico sound ZZ Top tornano “Stackin’ Bones” (tagliente e notturna, marezzata di backing vocals femminili) e “I Was A Highway” (lenta e dal refrain anthemico). “S g l m b b r” spara un hard rock molto anni ’70 con linee vocali scanzonate e poppeggianti, la “Hey Baby, Que Paso” dei Texas Tornados (unica cover del disco) viene opportunamente elettrificata senza snaturarne l’anima tex-mex. Chiude “Desert High”, blues tenebroso e glaciale su cui si adagia uno spoken word di grande suggestione.

Hardware’ è certamente uno degli album rock blues migliori dell’anno, perciò non sorprendetevi se a nessuno verrà in mente di attribuirgli qualche premio…

 

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SLASH

featuring Myles Kennedy and The Conspirators

 

 

  • 4 (2022)

Etichetta:Gibson Records Reperibilità:in commercio

 

In questo nuovo album di Slash eccetera eccetera, sento risuonare quella classica domanda da cui (immagino) tutte le band hard rock vengono perseguitate al giorno d’oggi: chi ce lo fa fare? Nei dettagli… Chi ce lo fa fare di scrivere materiale che non sia la rimasticatura di cinquant’anni di rock, quando il pubblico non vuole sentire altro che questo? Chi ce lo fa fare di passare giorni e giorni in studio a provare e incidere e rifinire nei dettagli la nostra musica quando al pubblico basta il frastuono che gli scarichiamo addosso dal palco quando suoniamo dal vivo? Chi ce lo fa fare di romperci la testa a cercare di comporre belle canzoni, canzoni originali, canzoni che magari dicano qualcosa di nuovo, quando al pubblico, delle suddette canzoni non frega niente e gli basta smerigliarsi le orecchie con il tum tum della batteria e il suono quanto più possibile sporco e distorto delle chitarre elettriche (prova inconfutabile di questo fatto è l’idolatria che il pubblico suddetto continua a nutrire per una band come gli AC/DC, che su quei due elementi ha da sempre basato i propri show, e riempie gli stadi anche se da più di quarant’anni non incide un disco almeno decente)?

Non si spiega altrimenti la rozzezza scandalosa (scandalosa almeno per il sottoscritto) di questo ‘4’ in contrasto con la magnificenza del precedente ‘Living the Dream’. Slash ha deciso che darsi tanto da fare per incidere un album è inutile, che suonare live in studio non solo basta e avanza, ma al giorno d’oggi è anche molto più cool. Il suono è schifoso e impastato? Ottimo! Non ci sono sovrincisioni? Fantastico! Le canzoni fanno quasi tutte pena? Chi se ne frega! Tanto i recensori si sperticheranno a tessere lodi per questo nuovo approccio che verrà giudicato sincero, spontaneo, vero, senza fronzoli… E, comunque, gli album chi li compra? Tutti se li scaricano gratis oppure li ascoltano su Spotify, e magari solo per una settimana. Quindi, alla fine della fiera, ne vale davvero la pena di sbattersi tanto a incidere bei dischi? Se foste dei musicisti, voi, lo fareste?

4’ è uno di quegli album da far ascoltare a chi, nonostante tutto, continua imperterrito a ritenere che il rock sia in ottima salute: forse non basterà a fargli cambiare idea ma almeno qualche dubbio dovrebbe riuscire a suscitarlo.

 

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THE KARMA EFFECT

 

 

  • THE KARMA EFFECT (2022)

Etichetta:TMR Rock Records Reperibilità:in commercio

 

Un piccolo consiglio a chi vuole intraprendere la carriera di recensore musicale: mai e poi giammai fidarsi o dare il minimo credito ai comunicati con cui le label (o le band stesse) annunciano un album facendo paragoni con quanto registrato da altri nel passato o nel presente. Se le note di accompagnamento vengono da un’etichetta, quasi certamente sono state vergate da un impiegato che di musica sa poco o niente e si limita ad ammucchiare moniker per fare scena e magari dimostrare una cultura rock in realtà molto lacunosa o addirittura inesistente. Nel caso che le note suddette siano di mano della band, c’è ancora meno da fidarsi perché nessun musicista ammette volentieri di aver saccheggiato in maniera più o meno scoperta il repertorio di un altro artista e così cerca di dirottare l’attenzione verso altri moniker con cui la sua musica magari ha a che fare né punto né poco o cita solo un po’ di band storiche per provare a darsi una patente di nobiltà, impressionare o fare scena.

Esempio lampante dell’inaffidabilità dei comunicati lo troviamo in quello che annuncia al mondo l’uscita dell’esordio di questa band britannica, che cita Aerosmith, Black Crowes, Bad Company e Faces come primarie fonti d’ispirazione dei Karma Effect. Se poi fate una puntata sul sito della band, troverete aggiunti alla lista anche Led Zeppelin, Rolling Stones e qualche altro nome da lungo tempo canonizzato dal popolo rock.

Ora, non è che alcuni di questi riferimenti manchino del tutto (però di Aerosmith e Led Zeppelin mi venisse un colpo se sento la minima traccia), ma sono largamente secondari rispetto alla band che più di tutte ha pesato sul sound di questo album: i Thunder. I Karma Effect si possono efficacemente descrivere come una versione più raffinata e con un suono d’antan dei Thunder. Le otto canzoni del disco hanno quasi tutte un andamento vivace e pimpante, fanno eccezione (of course) le due ballad: “Stand” (elettrica e solare, con un bel crescendo che culmina con un finale decisamente hard rock) e “Save Me” (molto power e un po’ bluesy). Il songwriting è pregevole e questa band si meriterebbe un dieci e lode anche solo per le vibrazioni positive con cui ha innervato la propria musica. Perché d’accordo che c’è il Covid, la guerra in Ucraina, la crisi energetica, la disoccupazione, il riscaldamento dell’atmosfera e Dio sa quant altro, ma che i musicisti vogliano mettersi in concorrenza con i telegiornali per portarci prima alla depressione e poi alla disperazione è mostruoso. Non so se quella dei Karma Effect può essere considerata una vera sfida, ma uscire in questo particolare momento con un album allegro e divertente può apparire quasi come una salutare provocazione, un antidoto ai piagnistei e ai miserere in stile Bon Jovi (mi riferisco ai Bon Jovi di ‘2020’, naturalmente), di cui tutti abbiamo (e non solo in questo particolare momento) un disperato bisogno.

 

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MITCHELL'S KISS OF THE GYPSY

 

 

  • UNFINISHED BUSINESS (2022)

Etichetta:MelodicRock Records Reperibilità:in commercio

 

Questo disco dovrebbe celebrare (sembra) i trent’anni dalla pubblicazione del primo e unico album dei Kiss of The Gypsy: sempre “unico”, perché Tony Mitchell ha aggiunto il proprio nome al moniker, rimarcando con ammirevole (e insolita nell’ambiente musicale) onestà la differenza tra la band che operava su ‘Kiss of The Gypsy’ e quella odierna, così che ‘Unfinished Business’ non può tecnicamente venire caricato nella discografia della band originale.

Unfinished Business’ regge il confronto con quell’album fantastico? Solo fino ad un certo punto. Le chitarre hanno un suono più rude e sono mixate a un volume più alto, gli arrangiamenti risultano più movimentati e fantasiosi e, insomma, qui c’è molto del Tony Mitchell degli ultimi album. Ma il recupero di quelle sonorità e atmosfere è indiscutibile, anche se in più di un frangente Tony non si nega all’autocitazione, fin dall’iniziale “Eye of the Hurricane”, in cui, tra il riffone zeppeliniano e l’organo Hammond, viene infilato qualche secondo di “Blind For Love”. Se “Duty to Party” fa molto Deep Purple (era ‘Burn’), “Runaways” recupera qualcosina da “From The Dirt”, con le sue strofe funk e la grande melodia nel coro, mentre “Too Much Love” è aperta da accordi misteriosi che ci portano in uno slow massiccio, con l’Hammond e la chitarra che procedono appaiati e un refrain suggestivo. “Remedy”, con gli ottoni e la chitarra slide, non può che ricordarci gli Aerosmith, “Taking Care of Business” rotola via agile e potente, “Foolin’” parla la lingua dei Bad Company (con qualche accordo ripreso da – mi pare… – “Comin’ Back”), “Sin City Blues” è ovviamente bluesy, calda, tutta slide e armonica e con un bel coro anthemico. La ballad soul “Time to Heal” precede “Wild Horses”, che prende le mosse da “Promise Land” anche se nel refrain sembra inseguire lo Springsteen di “Born in The USA”.

Dopo la bellezza di trent’anni non potevamo chiedere a Tony Mitchell di riportarci proprio dove ogni ascolto di ‘Kiss of The Gypsy’ ci trasporta ancora oggi, e le non trascurabili citazioni da questa o quella track dell’album inciso nel 1992 ci dice quanto sia complicato per lui ritrovare certe atmosfere. Alla fine, quello che mette in una posizione scomoda ‘Unfinished Business’ è il confronto con l’originale, perché preso per sé è un ottimo album: però, di ‘Kiss of The Gypsy’ non ha la freschezza e l’entusiasmo, qualità che dopo trent’anni sarebbe stato davvero improbabile riuscire a recuperare.

 

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DUSTIN DOUGLAS AND THE ELECTRIC GENTLEMEN

 

 

  • BLACK LEATHER BLUES (2023)

Etichetta:Momojo Reperibilità:in commercio

 

L’attuale scena classic rock americana ha un che di paradossale. In apparenza è spumeggiante più che vitale, dato che comprende una quantità bestiale di band, la maggior parte delle quali però un contratto discografico non ce l’ha e registra i suoi album in autonomia, suonando soprattutto dal vivo. Chi la segue davvero? E tutti questi album chi li compra o perlomeno si prende il fastidio di scaricarseli gratis? Di certo, su Billboard si affacciano solo molto di rado e non perché la pirateria imperversi qui più che altrove. Dustin Douglas e i suoi gentiluomini elettrici non hanno mai visto un loro disco entrare, anche solo di sfuggita, nelle chart e a meno di improbabili ritorni di fiamma del grande pubblico per un genere che in termini di popolarità è ridotto ormai ai minimi termini, difficilmente potranno sperarlo. Dunque, questo ‘Black Leather Blues’ è fatalmente destinato a svanire nella nebbia che ammanta al giorno d’oggi le produzioni indipendenti. Ed è un vero peccato perché, pur non essendo un capo d’opera, ‘Black Leather Blues’ è un disco notevole. È aperto dal bel groove di “Why Would You Say Such A Thing”, prosegue con le suggestioni Hendrixiane di “Burnin’ Down”, col suo riff singhiozzante e una bella cifra melodica nel refrain, si fa lento e misterioso con “Broken”, fra sprazzi di organo Hammond e un riff dalla pesantezza stoner, si tuffa negli anni 80 tramite “Good Love” (a metà strada fra Guns N’ Roses e Tora Tora), rimane da quelle parti per “Change”, power ballad alla Black Crowes un po’ di maniera ma non malvagia, torna dritto agli anni 70 con “What You See”, diretta, rovente ma marezzata da bei tocchi di colore, si scatena in “C’est La Vie” un po’ stoner nelle strofe, fascinosa nel bridge, diretta nel refrain su un riffone rotolante, policroma, in cui le atmosfere si susseguono e si alternano con grande efficacia. Poi c’è “Gonna Take This Train”, che procede fra sciabolate di chitarra, un refrain tempestoso e l’assolo di slide, mentre “Do Watcha Gotta Do” è un lento martellante, insinuante e beffardo, con belle rifiniture di Hammond, e in chiusura “Barely Holding On” si rivela per una gradevole ballad elettrica in chiaroscuro.

Procuratevelo prima che scompaia per sempre.