Di questa unica testimonianza lasciataci da Christian Scarborough non si può certo dir bene, ma neppure condannarlo senza attenuanti. È uno di quei prodotti indie messi assieme alla garibaldina, senza un filo conduttore, prodotti e registrati alla meno peggio, alternando canzoni discrete ad altre da dimenticare. “Night Songs” è una specie di arena rock, monotono e all’acqua di rose, ma “Rock Tonight” fa davvero pena: non è solo in ritardo di una decina d’anni – a cominciare dal titolo: si era nel 1991… – anche se fosse uscita nel 1981 sarebbe risultata soporifera: tutta tramata di coretti fessi, sembra il prodotto di una versione svaccata e rimbambita degli Autograph. Anche “Fire” suona vecchia, ma almeno è più elettrica e decisa, mentre “Back On My Feet Again” vorrebbe essere una ballad ma è trita più che banale e afflitta da una qualità audio esecrabile, lo strumento che si sente meglio è il basso… “Satisfy Me” non c’è male; svelta, un po’ Surgin’, un po’ Legs Diamond. E anche “Brothers” riesce benino, seguendo la scia dei Journey pre ‘Escape’, mentre la saltellante “Good Morning Jennifer” suona vagamente Bryan Adams e non è affatto da buttare. Migliora la resa fonica con “Call Me Any Time”, ballatona tutta piano e tastiere che però dice poco, va meglio “Are You Ready”, un altro arena rock, anche questo arrivato però fuori tempo massimo e con una qualità audio di nuovo sull’andante. “Welcome to the Business” ripropone più o meno la ricetta di “Brother”, “Smooth” chiude le danze con uno swing alla Van Halen, ma molto patinato e con un suono pessimo: peccato, perché la canzone non è male e con un altro mixaggio avrebbe potuto risultare davvero buona. Aggiungendo al quadro la voce curiosa del cantante, le timbriche opache degli strumenti, e il fatto che spesso e volentieri il mixaggio sembra fatto da un incompetente, non meraviglierà il fatto che ‘Bump in The Night’ sia una autoproduzione. Stupisce piuttosto che una etichetta pirata brasiliana abbia ritenuto di ristamparlo (ma su CDr) nel 2014.
Di Jon Butcher, uno dei pochi artisti afro americani che abbia bazzicato i territori del rock melodico, già scrissi quando la Escape ristampò un album dei suoi Axis (seguite il link). Jon usò questo moniker fino al 1985 (riprendendolo poi saltuariamente dal 2002), mentre il suo album del 1987, ‘Wishes’, era intestato solo a lui, come questo ‘Pictures From the Front’ di due anni successivo. Questi dischi uscirono sotto l’ala della Pasha, la potente agenzia di Spencer Proffer, e su ‘Pictures…’ la produzione (condivisa ovviamente con Proffer) era nelle mani nientemeno che di Glen Ballard (anche songwriter). Con una backing band formata da Thom Gimbel (alle tastiere, ovviamente), Ronnie Lee Sage (batteria) e Jamie Carter (basso), Jon continuava a giocarsi la carta del rock melodico sofisticato come aveva fatto al tempo degli Axis, aprendo l’album con la suggestiva “I’m Only Dreaming”, un po’ AOR e un po’ heartland su un riffing di matrice U2. “Might As Well Be Free” cambia registro, virando su un hard melodico californiano ben lubrificato dalle tastiere, mentre di “Live or Die” si può solo dire che è una power ballad strepitosa. “99 (May Be All You Need)” notturna, un po’alla John Parr, ripropone l’AOR patinato degli Axis, “Beating Drum” punta sull’atmospheric power, salendo in un crescendo lento e ipnotico, “The Mission” è il primo strumentale dell’album, dipanandosi attorno a una serie di begli assolo. Elegante “Send Me Somebody”, con le strofe d’atmosfera, sexy e ritmate, e il refrain solare, mentre su “Division Street” torna in scena l’hard melodico. Il secondo strumentale, “Come and Get It”, è vivace e divertito, sospeso tra blues e funk, fra chitarre ruvide e un bello spiegamento di fiati. Chiude “Waiting For a Miracle”, che riprende le atmosfere di “I’m Only Dreaming”, ariosa e con un certo flavour Journey nel refrain. Jon Butcher era ed è un ottimo chitarrista, e aveva anche una gran voce, a metà fra Michael Bolton e David Coverdale. È chiaro che la Capitol prima e Spencer Proffer dopo credevano molto nelle sue possibilità, sia ‘Wishes’ che ‘Pictures From the Front’ ebbero una promozione più che discreta, ma le vendite furono tutt’altro che soddisfacenti. Cosa si sia messo tra lui e i piani alti delle classifiche, Dio lo sa: la sua pelle non aveva il colore giusto per l’AOR? Oppure fu colpa di quel cognome che in inglese significa “macellaio”? Comunque sia andata, il 1991 risultò fatale anche per Jon Butcher che, perduto il contratto con la Capitol, uscì dai nostri ranghi, dedicandosi in prevalenza al blues. Mai ristampato né disponibile su Amazon Music, ‘Pictures From the Front’ è però reperibile in abbondanza e a prezzo onesto sul mercato dell’usato: procurarselo, per chi ama l’AOR sofisticato in voga alla fine dei Big 80s, è quasi un obbligo.
Durante gli anni ruggenti del nostro genere, l’Italia rimase sostanzialmente indifferente al rock melodico. Band come Def Leppard, Bon Jovi e Whitesnake vendevano poche migliaia di copie nel nostro paese, l’AOR di Journey e Foreigner era del tutto ignorato, Motley Crue e Ratt venivano snobbati anche dai metallari. Però il rock melodico trovava un suo spazio tramite la mediazione di pochi interpreti aborigeni, che lo proponevano cantato in italiano: Vasco Rossi, la Steve Rogers Band e altri traslarono l’hard melodico in versione cantautorale per lo schizzinoso popolo del Bel Paese, che ha bisogno molto più di altri (tedeschi, scandinavi, svizzeri, olandesi) di musica in cui una voce canta nell’idioma nazionale. Che questo materiale rientrasse a pieno titolo nell’ambito dell’hard melodico o dell’AOR, è opinabile: la voce era piazzata al centro dello spazio sonoro, lo schema seguito nel mixaggio era sempre quello della musica cantautorale o pop. Si trattava, insomma, di un ibrido, dove quel che contava erano soprattutto le parole, non la musica. Ancora più scarsi in proporzione quelli che nell’ambiente dell’hard rock nazionale scelsero la via del rock melodico e riuscirono a pubblicare dischi, riducendosi in pratica a due moniker: Elektradrive e Sharks. Gli Elektradrive (seguite il link per qualche ragguaglio sulla loro storia) scelsero di cantare in inglese, mentre gli Sharks decisero per l’italiano. Una scelta suicida? Considerato che fu proprio grazie al cantato in italiano che riuscirono a trovare un contratto nientemeno che per la CGD, non sembrerebbe. Che i testi in lingua madre gli tagliassero le gambe sui mercati esteri era ovvio, ma comunque irrilevante: a quell'epoca, l'unico genere da esportazione era l'eurodance, e la CGD non era comunque la WEA o la RCA, compagnie che avrebbero potuto (in teoria) promozionare un artista italiano anche fuori dal nostro paese. Gli Sharks puntavano al mercato nazionale, e suppongo non abbiano mai neppure vagheggiato di tour in Germania o UK, accontentandosi di aprire gli show italiani di Jethro Tull e Deep Purple (e scusate se è poco). Era, in assoluto, una scelta valida in relazione al genere affrontato? Potremmo stare a discuterne per una settimana ma, alla fine, credo che sia soltanto una questione di gusti personali. Per il vostro webmaster, il rock si canta in inglese, punto: è un assioma, e in quanto tale non posso giustificarlo e neppure metterlo in discussione. Questo, naturalmente, mi rende difficile giudicare in maniera del tutto imparziale ‘Notti di Fuoco’, con quella voce che non canta nella lingua che per me è quella giusta per il rock. Apre le danze “Banzai”, galoppante e un po’ Giuffria con refrain anthemico, mentre “Spogliati Per Me” impasta i Van Halen era Hagar con gli Autograph. “Signora Sola” tira di nuovo in ballo i Giuffria accoppiandoli ai Survivor, “Il Mio Rock n’Roll” è anthemica alla Europe, “Dimmi Che Ci Stai” mette assieme Van Halen e Kix, “Che Cosa ti Fa?” suona un po’ Bon Jovi, “Questa Donna” è la power ballad di rigore, “Vi Muovete O No?” è fatta di keys martellanti e chitarre che galoppano, “Notte Di Fuoco” chiude l’album innestando parti di tastiere e chitarre classicheggianti sui Journey di “Separate Ways”. Nove canzoni e tutte buone. La produzione (di Luigi Schiavone) è eccellente, gli arrangiamenti quasi sempre azzeccati. Le tastiere (dai suoni curatissimi) spesso prevalgono sulle chitarre (che hanno timbriche in qualche frangente un po’ tirate via), ma questo resta un album di hard melodico, non di AOR. L’unica vera riserva che ho è sul mixaggio, che il più delle volte dà un volume troppo basso alle parti di chitarra e fa uscire un po’ troppo la voce. Un mixaggio, in definitiva, un po’ sbilanciato sul versante canzonettaro e non completamente rock. Niente da dire riguardo le esecuzioni: Dario Fochi aveva un gran bel vocione (ma perché, su “Il Mio Rock n’Roll”, “roll” lo pronunciava “ruol”?), Fabrizio e Mauro Palermo si dimpegnavano brillantemente a tastiere e chitarre, la sezione ritmica formata da Antonio Ge alla batteria e Francesco Di Foggia al basso pestava sodo ch’era un piacere. E i testi? C’aveva messo mano Enrico Ruggeri, ed erano tutt’altro che ingenui o superficiali (anche se il titolo dell’album dava, indiscutibilmente, un po’ sul tamarro). Anche il look della band risultava impeccabile: forse non li si poteva scambiare per i Firehouse o i Ratt, ma nelle foto promozionali facevano la loro figura da chic rocker. E allora, perché gli Sharks ci hanno dato un solo album? Dovevano pubblicarne un altro, non è chiaro se lo incisero ma non uscì oppure se il progetto si fermò allo stadio dei demo, comunque nel 1990 la band si sciolse. Quanto abbiano venduto non si sa, ma che ‘Notti di Fuoco’ non sia mai entrato nelle top ten non è un mistero. Che poi questo album, per chi ama il rock melodico possa funzionare come quelli cantati in inglese… Francamente, non lo so. Nelle mie orecchie, funziona solo fino a un certo punto. Ma resta un buonissimo disco: non proprio dimenticato, ma certo poco noto e ancora meno considerato. Non mi risultano ristampe, anche se deve esserci in giro un CD pirata (la CGD lo pubblicò solo su LP e cassetta) uscito non saprei dirvi quando. ‘Notti di Fuoco’ lo trovate però su Spotify, ed è un ascolto che ogni appassionato italiano di rock melodico dovrebbe concedersi, per almeno due buoni motivi: sperimentare che effetto fa il cantato in lingua madre e provare a immaginare quali conseguenze avrebbe avuto un eventuale successone di ‘Notti di Fuoco’ sulla rachitica scena rock nazionale: di certo, ne avremmo viste delle belle…
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