recension

AORARCHIVIA

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RAGE OF ANGELS

 

 

  • The Devil’s New Tricks (2016)

Etichetta:Escape Reperibilità:in commercio

 

Il primo album di questa band, creatura dell’ex tastierista dei Ten, Ged Rylands, lo recensii a suo tempo per Classix Metal e, sintetizzando quanto scrissi all’epoca, si trattava di un album che qualunque fan della band di Gary Hughes non avrebbe potuto non trovare piacevole. Dopo tre anni, questo ‘The Devil’s New Tricks’ porta qualche cambiamento che si può attribuire al fatto che dietro il microfono si è insediato stabilmente Rob Moratti, mentre sul disco precedente le parti vocali erano affidate a cinque o sei cantanti diversi. È evidente che Rob non si è limitato a prestare la propria voce ma ha contribuito in maniera attiva al songwriting, spostando in una certa misura l’asse del sound, molto meno Ten oriented rispetto a quanto accadeva tre anni fa. Il risultato globale è sempre di buon livello – in alcuni frangenti, di alto livello – ma è doveroso sottolineare che risulterà forse più gradito ai fan del Moratti solista o di quello dei Final Frontier piuttosto a chi si attendeva un lavoro sulla stessa falsariga del predecessore.

Rage of Angels” apre l’album con sette minuti e mezzo di hard rock melodico serrato e solenne condito di assoli di chitarra (alla sei corde si alternano Neil Fraser, Chris Green e Martin Kronlund) e tastiere, ma il risultato finale è un po’ anonimo, se non fosse per le vocals passerebbe per il parto di una qualsiasi band svedese contemporanea. Più interessante “All You Own Way”, con Rob che prende con decisione il comando delle operazioni ed un arrangiamento più vario. La title track offre qualche vaga rimembranza Ten su un tessuto che fa pensare a dei Journey più heavy mentre “One Step Closer” scivola su un bell’intreccio tra un riffone sgusciante, il martellare delle keys ed il refrain multilayered. Si sale ancora più in alto con “Strangers In The Night”, con il suo bel disegno di tastiere sul riff sfrigolante ed i cambi di tempo nelle parti soliste e nel bridge, con i Journey sempre sugli scudi ma qualcosa di decisamente Ten nel refrain. Notevole “I Feel It In My Heart”, ariosa nel ritornello ma cadenzata ed elettrica nelle strofe, ma anche “In And Out Of Love” spicca: aperta da una citazione della “Knucklebones” di David Lee Roth e Steve Vai, si dirige dritta in California con i suoi sofisticati impasti chitarre/tastiere fra cui scivola un divino crescendo vocale. Bella anche “Stop Changing The TV” che parte come un arena rock pompatissimo e diventa un hard melodico policromo in cui risalta il sofisticato ricamo delle vocals. Torniamo in territori Journey prima con “What Matters Most Of All”, quasi una power ballad, calda e intensa, e con il brano di chiusura “Long Days Without You, questa una power ballad senza equivoci, con un sound da AOR moderno.

The Devil’s New Tricks’ uscirà il 26 febbraio ed è senza dubbio una delle prime belle novità dell’anno appena cominciato.

 

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GAIA

 

 

  • TRUTH AND ILLUSION (1996)

Etichetta:Koch Records Reperibilità:scarsa

Dettagli biografici? Zero. Di questa band non si sa niente di niente, salvo che erano un duo austriaco composto dalla cantante Jan Parker e dal multistrumentista Paul Heeren . Abbiamo solo il suo unico, notevole parto discografico con cui gingillarci, registrato tra Londra e Monaco, con l’ausilio di parecchi ospiti ed il mixaggio di Rafe McKenna  e Bernie Staub. Uscito per una piccola indipendente, perso tra i miasmi dell’epoca grunge, poteva diventare una lost gem, invece gira tra eBay e Amazon a cifre se non proprio irrisorie, certo nient’affatto stratosferiche (una dozzina di dollari, in genere): ottima cosa per chi vuole acquistarlo, certo, ma se la quotazione riflette l’interesse verso ‘Truth And Illusion’, si deve concludere che ai Gaia nessuno presta molta attenzione. Ed è un vero peccato perché, ripeto, questo loro unico album è un prodotto superiore alla media nel settore dell’AOR sofisticato. Saltata a piè pari la prima canzone (“Wonderland” è un hard rock molto diretto, a tratti ispido, che alterna un riff molto U2 ad un deciso grattare rock: cupo, senza una nota di tastiere e del tutto diverso dal resto del materiale che compone l’album, piazzato in apertura forse solo per far credere a qualche acquirente incauto che la band suonava roba in linea con i gusti del decennio), approdiamo a “Beloved”, basata su un disegno delicato e palpitante di tastiere e percussioni, un brano d’atmosfera completato da un refrain pomposo e solenne, e sulla stessa falsariga prosegue “Clear Blue Light”, con l’aggiunta di un synth bass e in un clima più leggero e pop. “Gun” mescola elettrico e acustico su un consistente fondo di tastiere in un bel clima drammatico, mentre “Contract Of Hearts” è una power ballad ben orchestrata, in cui Jan duetta con Paul Heeren. Sofisticata si rivela “Witness”, dominata da un giro di keys dal sapore prog e la chitarra che entra sapientemente nel tessuto sonoro innervandolo di elettricità; “Last Dying Breath” è fatta di AOR intenso e suggestivo ed è seguita da “Last Dying Breath Reprise”, una ripresa strumentale del tema melodico condotta da pianoforte e tastiere d’archi e ottoni. “Trust” ricorda i Beggars & Thieves del primo album: la melodia aperta, le chitarre pulsanti, il clima elettrico un po’ U2 ammorbidito dalle tastiere. Stessa ricetta per “Moment Of Truth”, ma in chiave di power ballad e con l’aggiunta di un refrain squisito. “Man Woman” torna sui sentieri dell’AOR più raffinato, perfetto connubio di tastiere vellutate e chitarre luminose, e davvero deliziosa riesce “Mountain”, con i suoi giochi di percussioni, il tappeto di keys, il fremito elettrico delle chitarre: ancheggia in maniera sensuale e danzereccia facendo pensare a degli Headpins raffinati ed in chiaroscuro. Se “Sands Of Africa” è una eccellente ballad lenta e d’atmosfera, “Heart Of Man” riprende un po’ i temi di “Trust” con chitarre taglienti e decise, strofe da arena rock ed un refrain impostato su una melodia suggestiva: forse il top del disco. Chiude “Heartland”, policroma, cantata in duetto, con un refrain potente e grandioso ed un finale orchestrale con un vero e proprio torrente di tastiere. Ristampare ‘Truth And Illusion’ sarebbe tutt’altro che una follia

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SLAUGHTER

 

 

  • STICK IT TO YA (1990)

Etichetta:Chrysalis Reperibilità:in commercio

 

Anni fa, scrivendo dell’unico album dei Salty Dog, espressi la mia scarsa simpatia per tutti quei cantanti dall’acuto micidiale stile scheggia-di-vetro-che-sfrega-su-una-lavagna, fornendo anche il nome di alcuni di questi soggetti, tra cui primeggiava (ovviamente) quello di Mark Slaughter, aggiungendo poi anche qualche considerazione non del tutto lusinghiera sulla sua band. Ascoltando il suo nuovo album solista (l’ho recensito su Classix Metal) ho ritrovato un Mark Slaughter che ha temperato notevolmente la sua attitudine all’acuto assassino (sarà più l’età che altro, immagino) e i contenuti davvero eccellenti di ‘Reflections in a Rearview Mirror’ mi hanno spinto a tirare fuori i CD della band madre, da qualche anno un po’ trascurati.

Storia curiosa, quella degli Slaughter. Nascono per coprire un buco, quando la Vinnie Vincent Invasion frana. La band del primo rimpiazzo di Ace Frehely nei Kiss spuntò un contrattone dalla Chrysalis, ma non vendette in proporzione alle attese, per di più il temperamento nevrotico di Vinnie lo mise in rotta di collisione con gli altri membri del gruppo, in particolare con il bassista e produttore Dana Strum ed il secondo vocalist Mark Slaughter (sul primo album della VVI cantava l’ex Journey Robert Fleischman). La label, indispettita dalle cifre troppo alte prelevate da Vinnie sul conto della band, lo licenziò e trasferì il suo contratto a Mark e Dana Strum, che reclutarono un nuovo chitarrista (Tim Kelly) ed un batterista (Blas Elias), fondando gli Slaughter. Ci fu un debutto d’assaggio, diciamo così, con un EP live a quattro pezzi, poi l’esordio sulla lunga distanza, nel 1990, con ‘Stick It to Ya’, che riscosse un successo sicuramente non preventivato dai suoi artefici (numero 18 sulla Billboard 200, due volte disco di platino negli USA), promossi da un giorno all’altro fra le superstar del metal melodico americano e molto gettonati come produttori e songwriters.

Ma ‘Stick…’ si meritava davvero il successo ottenuto o arrivò nei quartieri alti di Billboard per puro mazzo? Be’, la qualità dell’album era indiscutibile. I Vinnie Vincent Invasion parevano sempre indecisi tra il metal classico e quello californiano, mentre Mark e Dana cassarono del tutto la componente più heavy dal suono della loro band, diventando una perfetta (ma perfetta davvero) espressione del sound nato tra le spiagge di Venice e le colline di Hollywood. Che la musica fosse cambiata lo dichiaravano immediatamente con “Eye to Eye”, che dopo un intro d’effetto sparava un classico riffone metallico su cui Mark adagiava la deliziosa leggerezza pop/glam e canzonettara dell’hard rock losangeleno. “Burnin’ Bridges” ancheggia ch’è una meraviglia, omaggiando decisamente i Mötley Crüe con un refrain da urlo, mentre “Up All Night” guarda in direzione Van Halen tramite un party rock dal ritornello essenziale alla Twisted Sister. Si tira il fiato con la prima power ballad, “Spend My Life”, elettroacustica, semplice ed efficace, seguita dallo strumentale “Thinking of June”, un minuto di chitarre acustiche e tastiere prima di “She Wants More”, ancora Van Halen a manetta, divertente e saltellante. “Fly to the Angels” omaggia i Led Zeppelin con grazia, Mark planteggia sfacciatamente nelle strofe delicate e acustiche poi torna al falsetto nel refrain elettrico, potente e melodico, che bello quel bridge di tastiere sul tappeto di chitarre. “Mad About You” spara un riffone AC/DC ed il risultato finale è tremendamente Kix, “That’s Not Enough” ritorna alla leggerezza glam dei migliori Crüe, scanzonata, sculettante, fantastica. “You Are the One” potremmo descriverla come il connubio ideale tra “Is This Love” e le cose più melodiche e ritmate dei Danger Danger, mentre “Gave Me Your Heart” è un hard melodico molto Journey: buono in sé, fa un po’ la figura del filler quando lo paragoniamo al resto. “Desperately” agita i fianchi un po’ come “Burnin’ Bridges”, splendente metal californiano dalla cifra melodica sempre un po’ Jouney, mentre “Loaded Gun”, heavy e diretta, guarda di nuovo ai Van Halen e chiude sostanzialmente l’album, dato che a seguire ci sono una ripresa acustica di “Fly to the Angels” e poi “Wingin’ It”, un minuto di vocalizzi swinganti e fingersnaps.

Le fortune della band finirono con l’irruzione del grunge sulla scena musicale yankee: anche se il successore di ‘Stick…’, ‘The Wild Life’, tenne bene il mercato nel ’92 (salì ancora più in alto su Billboard, arrampicandosi fino al numero 8, ma totalizzò solo un disco d’oro), la Chrysalis gli stracciò il contratto e rifiutò di pubblicargli ‘Fear No Evil’, che uscì solo nel 1995 per l’indie label CMC International. Sempre attivi sul fronte live, non pubblicano nuovo materiale di studio addirittura dal ’99, ma ‘Reflections in a Rearview Mirror’ ha sicuramente dato soddisfazione a tutti i fan di una band che è stata una delle più belle espressioni del metal californiano.

 

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CHRIS OUSEY

 

 

  • DREAM MACHINE (2016)

Etichetta:Escape Reperibilità:in commercio

 

Il primo album solista di Chris Ousey si è rivelato, senza mezzi termini, un capolavoro (per leggere la recensione, seguite il link). L’architettura di quel lavoro si doveva in massima parte a Mike Slamer e scoprire che il chitarrista inglese non era coinvolto nella realizzazione di questo nuovo ‘Dream Machine’ aveva spento un po’ il mio entusiasmo per questo secondo capitolo. Ma Chris Ousey, perso Mike Slamer, si è assicurato un altro pezzo da novanta, Tommy Denander, che scrive tutte le undici canzoni dell’album e suona le parti di chitarra assieme a Chris Green, e il risultato finale è un lavoro che può guardare ‘Rhyme & Reason’ senza arrossire, anzi. ‘Dream Machine’ prosegue sulla strada del nuovo inaugurata dal disco precedente (ma con qualche pausa), un “nuovo” che non significa sperimentazione fine a se stessa, oppure allinearsi al sound melodico contemporaneo di Nickelback o Halestorm oppure a quello in voga nella scena scandinava, ma cercare soluzioni meno convenzionali pur rimanendo nell’ambito dell’hard rock melodico più classico. Quando scrissi di ‘Rhyme & Reason’, auspicai che quell’album diventasse un punto di riferimento per chi pratica il nostro genere: non è successo e anche questo ‘Dream Machine’ temo che non troverà proseliti, preso in mezzo fra chi pratica la clonazione selvaggia di album degli anni ’80 da un lato e le orde svedesi con il loro melodic rock monotono e soporifero dall’altro.

Dicevamo che Chris e Tommy Denander si prendono qualche pausa nella loro ricerca di soluzioni non banali. Accade con “This Is the Life” e “Eager to Please”, che fanno tanto Deep Purple era Coverdale (la prima ha un riff che ricalca quello di “Burn”, veloce e impetuosa; la seconda risulta calda e bluesy), nelle atmosfere House of Lords della comunque ottima “Better Time to Come” e nella conclusiva “Return to Me”, un hard melodico serrato, senza infamia e senza lode. Altra musica, in tutti i sensi, nelle altre sette canzoni. “Another Runaway” e “War” sono caratterizzate da suggestivi disegni di tastiere su cui vanno a sovrapporsi chitarre taglienti e geometriche; la title track, sexy e notturna, si avvolge letteralmente attorno ad un riffone lento, beffardo, potente, ed ha una fase solista divisa tra Hammond e chitarre. Sfumature prog alla maniera dei Radioactive in “Tearing It All Down”, con una chitarra pulsante che si adagia sul tappeto di tastiere e percussioni ed una melodia lontanamente Journey, mentre arriva addirittura a stupire “Into Your Dream”, una sorta di funky AOR con nuance R&B nel refrain ma tramata di chitarre mutanti e a volte decisamente prog. Più scontata la struttura di “Moment of Madness”, su cui però Chris tesse una melodia tutt’altro che banale, ma a seguire c’è un’altra gemma, “Gone Long Gone”: riff portante zeppeliniano, chitarre policrome, delicate sfumature prog, un ritmo avvincente che coniuga atmosfera e fisicità.

Tommy Denander ha giocato un ruolo importante nella definizione del sound di questo nuovo album, ma bisogna rimarcare la volontà di Chris Ousey di proporre musica che esca dalla solita routine, sfuggendo a clichè e riciclaggi che stanno lentamente strozzando il nostro genere. ‘Dream Machine’, come il suo predecessore, non inaugurerà una nuova era per il rock melodico, ma è una boccata d’ossigeno per chi vuol credere che l’AOR abbia un futuro che non sia sterile ripetizione del passato.

 

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LEE AARON

 

 

  • FIRE AND GASOLINE (2016)

Etichetta:On Fire Records Reperibilità:in commercio

Graditissimo ritorno discografico, questo di Lee Aaron. La sua strepitosa voce è rimasta integra e ‘Fire and Gasoline’ pare riprendere il discorso lì dove ‘Emotional Rain’ (per i dettagli, seguite il link) l’aveva interrotto nel 1994 (riferito, naturalmente, alla sua carriera nel rock), con qualche inevitabile adeguamento ai nuovi tempi. Difatti, la canzone che apre l’album, “Tom Boy” è moderna, ritmata, con un refrain irresistibile, per un risultato finale che suona come degli Halestorm più pop e leggeri. Un basso agile e suadente percorre la title track, lenta, melliflua, sexy ed un po’ funky, ma “Wanna Be” torna al contemporaneo con un punk melodico leggerino alla maniera di Avril Lavigne, mentre “Bitter Sweet” si avvolge attorno ad una chitarra ipnotica, un brano d’atmosfera che si apre alla melodia nel refrain. Dopo il buon hard melodico “Popular” arriva la superba “50 Miles”, hard bluesy notturno e d’atmosfera, con un refrain di southern rock cromato; “Bad Boyfriend” riapproccia piacevolmente il moderno, diretta e rockenrollistica ma “Heart Fix” è addirittura divina, AOR hard edged che guarda un po’ ai Beggars & Thieves, mirabile connubio di atmosfera e fisicità. Se “Nothing Says Everything” è una classica e ben riuscita ballad elettroacustica, “If You Don’t Love Me Anymore” torna all’hard melodico imbastendo una melodia un po’ Journey e “Find The Love” conclude alla grande con un AOR dalle suggestioni zeppeliniane, procedendo su un crescendo sensibile ed emozionante. In definitiva, un album eccellente, ben bilanciato fra passato e presente, ottimamente prodotto e suonato, che soprattutto ci ridà modo di ascoltare una grandissima voce che temevamo persa alla causa del rock melodico.

 

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IDLE TEARS

 

 

  • IDLE TEARS (1986)

Etichetta:MCA

Ristampa: Yesterrock

Reperibilità:in commercio

Questo gioiellino è stato una rara avis finché la yesterrock non lo ha ristampato due anni fa. Nati a Chicago, gli Idle Tears si spostarono a Los Angeles quando vennero messi sotto contratto dalla MCA che gli fece incidere l’esordio omonimo nel 1986. Secondo l’abituale politica della MCA, non ci fu alcuna promozione e la band si sfasciò rapidamente, con i suoi membri che andarono a cercare fortuna altrove (ma senza trovarla: il bassista Erik Scott formò i Signal e aggiungere altro è davvero superfluo). Senza dilungarci in lamentazioni sulla perfidia della label nel far morire una band tanto interessante, andiamo subito ad esaminare i contenuti di ‘Idle Tears’ che, parte con una stralunata (e, per certi versi, assolutamente anni ’80) versione dell’inno nazionale americano per introdurre l’esplicita Fingers On The Pulse Of America, caratterizzata da un riff molto AC/DC prima dell’esplosione di melodia alla Journey nel refrain, con una lunga fase di chitarra solista. Take Me Home” è invece suggestiva, un brano d’atmosfera che si dipana attraverso percussioni sintetiche ed un pulsare di keys e a seguire ci sono i bei chiaroscuri del rock da FM “Oh No”. “Hysterical Broads In The Space” è uno strumentale breve, minaccioso e nevrotico più che isterico, a cui succede “Paradise”, elettrica e rarefatta nella stessa misura, con le sue percussioni africaneggianti, l’organo Hammond, le stratificazioni dei cori, gli interventi di chitarra ora discreti ora laceranti: notevole. Più convenzionale “Until You’re Down”, pop rock graffiante che ricorda gli Heart dei primi anni ’80, mentre “Love In The Dark” torna all’FM rock, intensa e drammatica sulla scia di John Waite e Bryan Adams. Divertente risulta “F.B.I.”, che ancheggia un po’ alla Headpins con suo bell’impasto chitarre/tastiere e conclude in bellezza “Heroes Never Cry”, power ballad elettroacustica in crescendo. La voce di Liz Constantine, limpida e tagliente assieme, era un notevole complemento alla musica di una band che non aveva paura di esplorare territori meno convenzionali di quelli già ampiamente battuti all’epoca della sua pubblicazione. Onore al merito della label tedesca che ha cavato questo eccellente prodotto discografico fuori da un immeritato oblio.

 

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JOAL

 

 

  • WHO'S GOT THE FEELING (1993)

Etichetta:WEA Germany Reperibilità:scarsa

 

Non mi sbilancio fino al punto di definire questo secondo album della tedesca Joal un capolavoro dimenticato, ma i contenuti di ‘Who’s Got The Feeling’ sono di caratura talmente elevata da giustificare la sua iscrizione nel registro delle lost gems: “lost” davvero, perché pochissimi se lo ricordano e qualcuno ha avuto il coraggio di metterlo parecchi gradini sotto il primo album, lavoro a mio parere discreto ma anni luce lontano dalla magnificenza di ‘Who’s Got The Feeling’. Le differenze tra i due prodotti si possono far agevolmente risalire al cambiamento di personale, se il primo disco vedeva all’opera in prevalenza la coppia Tommy Newton/Tommy Hansen (anche alla produzione), qui troviamo come esecutori – tra gli altri – Billy Liesegang (Harlan Cage, 101 South), Andy Maleck (Fair Warning, Last Autumn’s Dream), Fritz Randow (Victory), Michael Gerlach (Eloy).

Give Me Back My Music” apre l’album con un feeling deliziosamente swingante fra gli scoppi dei fiati e lo sfrigolare dell’Hammond, ma tutto volto sempre in una chiave elettricamente rock, passando da atmosfere suadenti a momenti aggressivi, e sulle rotte del blues si prosegue con “I Got This Feeling” tramite uno slow spettacolare e sempre ad alto voltaggio. “Falling Angel” è un torrido hard bluesy dal riff dondolante introdotto da una chitarra slide e dall’armonica, ma è con “Fool” che si sale ad altezze siderali: sax, chitarre cristalline e tastiere tratteggiano un elegante quadro AOR blues che deflagra letteralmente nel refrain potente e quasi anthemico, vagamente Scorpions con il plus di un bridge suggestivo. Il big sound AOR di derivazione U2/Simple Minds che associamo alla musica più sofisticata di Lee Aaron domina “Who’s Gonna Cry”, dal coro grandioso, “This Is Love” è una ballad suggestiva tinta di R&B, dal crescendo power, mentre “Steel City Blues” sale altissima, una track cangiante, parte come un mid tempo bluesy, potente e con vocals tutt’altro che scontate sviluppandosi lungo linee vigorosamente elettriche e metalliche ma conservando il feeling blues e mantenendo sempre una notevole carica sexy. Bella anche “Sand And Water”, classico hard rock americano con refrain anthemico, a seguire “Changes” offre un gran lavoro delle chitarre che si intrecciano, si sovrappongono, si fondono tessendo una sorta di grandioso arena rock d’atmosfera, mentre con “Living In Paradise” torniamo dalle parti di Lee Aaron, di nuovo big sound ma con piacevoli innesti funky e un bello smalto soul nel ritornello. Ombre Zeppelin e Aerosmith avvolgono l’hard melodico “Back On My Feet Again” e gran finale con “Keep Your Dreams Alive”, un altro superbo intrecciarsi di chitarre che sfocia in un refrain molto classic rock partendo da una sofisticata atmosfera AOR, con un finale orchestrale e imponente.

In mezzo a tutto questo eccellente materiale, la voce di Joal faceva la sua figura: tonalità da contralto ma capace di una notevole estensione, espressiva e duttile. Peccato che la sua carriera sia rimasta confinata nella natia Germania, entrambi i suoi album vennero pubblicati dalla filiale locale della WEA e non risultano distribuiti nel resto d’Europa. Il CD di ‘Who’s Got The Feeling’ è in effetti abbastanza raro da avere quotazioni sostenute (sui 50 euro) ma Amazon lo vende in formato mp3 per 11,90 euro: fateci almeno un pensierino...

 

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AMERICAN ANGEL

 

 

  • AMERICAN ANGEL (1989)

Etichetta:Grudge Reperibilità:scarsa

Nella mia recensione dell’album di Punky Meadows pubblicata sul numero di Classix Metal attualmente in edicola, ho ricordato quanto rari siano stati i tentativi di resuscitare quel certo genere di hard rock melodico che segnò il trapasso fra gli anni ’70 e gli anni ’80. Genere poco amato in patria, di cui perfino il ricordo sopravvive a stento: non meraviglia tanto che abbia trovato scarsi seguaci durante i Big 80s ma piuttosto che qualcuno si sia dedicato all’eroica impresa di riportarlo all’attenzione del pubblico. Gli American Angel furono una di queste solitarie (ma solitarie davvero) entità sonore. I loro punti di riferimento erano band che mai avevano conquistato i favori del grande pubblico: Starz, The Godz, Legs Diamond, Rex, Ram Jam… Tutti gli alfieri di quel suono heavy ma più o meno tramato di melodia che imperversò senza fortuna finché Crüe, Ratt e Dokken non lo imposero in una forma leggermente diversa. E l’apertura con “Bring the World Back” rimanda proprio alla band di George Lynch, in un certo senso: perché questa scheggia di elettricità diretta ma intessuta di linee vocali di grande estensione melodica è il class metal prima che il genere venisse definitivamente codificato da ‘Under Lock and Key’. “How Can I Miss You” alterna parti patinate e molto Legs Diamond a feroci scoppi d’energia in cui il suono diventa rauco e compresso e la stessa dicotomia domina “Lonely Brown”: atmosfera notturna e misteriosa nelle strofe che viene spezzata dal riffone heavy su cui si stende il suggestivo refrain. “Teenage Runaway” e “I Wanna Be a Millionaire” risultano molto sleaze, ma sempre metalliche e melodiche alla maniera degli Starz, del resto i Crüe non si sono dichiarati più volte discepoli della band di Richie Ranno? E sempre gli Starz possiamo tirare in ballo per descrivere “After the Laughter”, praticamente un arena rock come si faceva nel 1978. “Grand Theft Ecstasy” segue la solita formula heavy metal + melodia, con un refrain decisamente poppeggiante, “Lessons” è una mirabile power ballad in bilico tra i ’70 e gli ’80 (qui compaiono il pianoforte e appena una bava di tastiere), “Back to You” è invece un mid tempo metallico e sinuoso e se i Ratt avessero cominciato la loro avventura cinque o sei anni prima avrebbero suonato esattamente in questo modo. La galoppante “It Don’t Come Easy” chiude, proponendosi come il peso massimo di un album davvero interessante ma certo poco sintonizzato con i gusti correnti in quel 1989 che ne vide la pubblicazione. Il fatto che gli American Angel lavorassero per una label indipendente non aumentò di certo la loro visibilità, e anche se dopo l’esordio ci furono altre tre uscite a loro nome (l’ultimo album, ‘Vanity’, è del 2007), il tentativo coraggioso (o disperato?) di riportare in auge un genere che anche nei suoi anni d’oro non riuscì mai a entrare nella top ten di Billboard fallì tra l’indifferenza generale.

 

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MONKEYHEAD

 

 

  • MONKEYHEAD (2003)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:scarsa

 

Nel nostro genere, un album difficilmente conquista uno status elevatissimo se è stato pubblicato prima o dopo il periodo d’oro 1981-1993. Quanto è venuto fuori fino al giro di boa del millennio gode ancora di una certa considerazione, ma fra tutto quello che porta una data posteriore raramente individuiamo titoli elevati allo status di classico. Quest’unico album dei Monkeyhead meriterebbe senza dubbio di venire iscritto nel registro dei classici del ventunesimo secolo, eppure è a tutti gli effetti uno degli innumerevoli dischi “dimenticati” del nuovo millennio, cancellato o quasi dalla memoria collettiva perché uscito nell’anno sbagliato. Fu, anche, la prima prova del talento come chitarrista e songwriter di Jason Hook, che ritroveremo successivamente nel progetto Zion di Fred Curci e poi nella band di Alice Cooper all’epoca di ‘Along Came a Spider’ prima che l’ingresso nei Five Finger Death Punch gli desse meritata fama: dietro il moniker c’era soprattutto lui, considerato che incideva tutte le parti di chitarra, componeva il materiale e figurava come produttore, mentre addirittura Beau Hill veniva accreditato come produttore esecutivo (anche se i compiti precisi che si accolla in una produzione musicale chi prende questa qualifica prettamente cinematografica non saprei specificarlo). Ed è certamente il suo chitarrismo che caratterizza e costituisce un plus decisivo in queste undici canzoni, con l’introduttiva “The One That Makes You Crazy” a fare da vera dichiarazione d’intenti, con il suo riffing da tipico metal californiano ma reso più urgente, nevrotico e complesso da un trattamento chitarristico che potremmo associare a fuoriclasse dello strumento come Reb Beach o Steve Stevens. E proprio la band di Reb si può tirare in ballo per descrivere “Dragon Fly”, che ha la stessa leggerezza sofisticata delle cose migliori degli Winger con il plus di un refrain misterioso sottolineato da poche note stregate di tastiere. Lo stessa impalcatura sostiene “Guns Of July”, un riffing nello stesso tempo e impossibilmente intricato e scorrevole, su cui il bravo cantante Simon Davies drappeggia una linea vocale di grande estensione melodica. La prima ballad si intitola “Temptation”, più acustica che elettrica, un po’ Firehouse, con un eccellente assolo di chitarra acustica. “Anything For Money” suona come se dei Ratt più sofisticati avessero deciso di mettere una bella dose dei Led Zeppelin più funk nel tipico metal di Los Angeles, “Adriana” associa magicamente Tattoo Rodeo, Ratt e Winger (il refrain), “Bow To Your Master” corre lungo le strade del class metal tracciate da Heavy Bones e Kick Tracee, mentre “Stark Raving Mad” mescola divinamente Ratt e Van Halen. “Only You” è una ballad elettroacustica semplice e suggestiva ma gode di una qualità audio inferiore al resto, “Morphine” omaggia i Kiss versante Paul Stanley e “All My Friends In Heaven” chiude l’album con una power ballad molto Warrant. Bisogna sottolineare anche la qualità dei testi, fantasiosi, spumeggianti, ben lontani dalle solite banalità rockettare.

Le quotazioni di ‘Monkeyhead’ sono mediamente basse, salvo per l’edizione giapponese su etichetta Avalon che in genere supera i trenta dollari e ha in scaletta altre due canzoni: chi ama l’hard melodico di classe superiore non può farselo mancare.

 

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DANTE FOX

 

 

  • BREATHLESS (2016)

Etichetta:AOR Heaven Reperibilità:in commercio

 

I Dante Fox dobbiamo senza dubbio considerarli una band che se la prende comoda, dato che c’hanno messo quattro anni per dare un successore a ‘Lost Man’s Ground’, album che rappresentò per il sottoscritto una mezza delusione: era composto da appena sei canzoni nuove, aveva una qualità audio non del tutto impeccabile e (soprattutto) non raggiungeva neppure alla lontana i livelli stratosferici del precedente ‘Under The Seven Skies’ (per leggere la recensione, seguite il link). ‘Breathless’ è invece un prodotto discografico di assoluta eccellenza (anche per quanto riguarda la resa fonica) e assieme ai nuovi lavori di Dare, Jesse Damon e Lee Aaron è il meglio che abbia ascoltato finora in questo 2016 in ambito rock melodico.

L’apertura, con “Young Hearts”, avviene nel segno dei Journey, Journey più drammatici e tormentati di quelli che conosciamo soprattutto per merito della voce vibrante di Sue Willetts. “All Eyes On You” è caratterizzata dal contrasto fra il ritornello un po’ FM ed il riffing metallico da arena rock attraversato da un bel giro di Moog mentre la title track risulta sognante nelle strofe ma imponente ed elettrica nel refrain, con qualche vaga ombra zeppeliniana. “Break These Chains” ripete, più o meno, la formula di “Breathless”, con strofe d’atmosfera ma un refrain forse troppo diretto: di certo, risulta inutilmente lunga. Eccellente “Broken Hearted Man”, power ballad in cui risalta il perfetto equilibrio fra chitarre e tastiere, nello stesso tempo delicata e intensa, mentre su “I Can’t Stop Tonight” il clima da arena rock si stempera in strofe suadenti, AOR con un bel retrogusto funky prima del ritornello sempre vagamente FM. Sue sale in cattedra su “Dynamite”, con la sua voce che ricama sul riff dondolante e notturno prima di entrare decisa e tenera con il ritornello. Ancora una power ballad con “Love Affair”, un divino crescendo su cui il refrain si staglia drammatico e potente, e drammatica è anche “How Will You Know (Where To Find Me)”, dominata da tastiere d’archi turbinanti che le donano un bel flavour sinfonico. “Creeps Into My Mind”, nella sua dimensione elettroacustica, ci riporta vagamente a quelle track di ‘Under The Seven Skies’ influenzate dal sound degli All About Eve e per chiudere ecco “Broken Hearted Man (Acoustic/ String Arrangement)” che, come dice il titolo, è una versione di “Broken Hearted Man” per sole chitarra acustica e archi.

Breathless’ trae la sua forza in parti uguali da un songwriting ispirato e dalla grandissima voce di Sue Willetts: fatelo vostro senza esitazioni.