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AORARCHIVIA

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BEAU NASTY

 

 

  • DIRTY BUT WELL DRESSED (1989)

Etichetta:WTG/CBS Reperibilità:scarsa

 

Un’altra scheggia di quei tempi beati (musicalmente, almeno) che furono i Big 80s, nella loro dimensione prevalente del metal californiano. Il monicker della band ed il titolo del disco lo urlano a squarciagola. Certo nessuna band grunge, punk, stoner, psych, gothic o qualunque altra etichetta vi venga in mente del rock post ottantiano avrebbe mai scelto di chiamarsi Beau Nasty, né di dare al suo primo album un titolo come, “Sporco, ma ben vestito”… ed è chiaro che quello “sporco” non dobbiamo intenderlo nella sua accezione igienico sanitaria. Qui c’è la Los Angeles festaiola e sguaiata, volgare ed infoiata che ogni venerdì sera andava a mettersi in mostra sul Sunset Strip e ciondolava dentro e fuori i locali alla moda, Roxy, Cathouse, Blue Jay, Troubadour…

Prodotto da Beau Hill, mixato dalla premiata ditta formata da Steve Thompson e Michael Barbiero, ‘Dirty…’ è un competente, impeccabile trattato di hard rock californiano dalle molte sfaccettature, nobilitato da una produzione (ovviamente) strepitosa, una mirabile orchestrazione dei backing vocals e dal lavoro di due chitarristi abilissimi e versatili (George Bernhardt e Brian Young, quest’ultimo poi nella band di David Lee Roth). Si passa con la massima disinvoltura da un sound alla AC/DC cromato e metallizzato alla maniera dei Kix (“Shake It”, anthemica, sporca e molto glam; la title track), a variazioni sul tema Van Halen era Roth (“Goodbye Rosie”, zompettante, sempre un po’ glam e con qualche sfumatura zeppeliniana; “Gimme Lovin’”, agile e divertita, ricamata di acrobazie chitarristiche; “Love to the Bone” con intro e outro western ed una forte componente bluesy/Southern). E poi, il class metal notturno, suadente e drammatico intitolato “Gemini”, che ha forti rimembranze Scorpions come “Paradise in the Sand”, power ballad un po’ acustica e molto elettrica. “Piece of the Action” è uno splendido metal da spiaggia, sapiente impasto di Black & Blue e Autograph, “Make a Wish” una notevola ballad di forte impronta Bon Jovi, e chiude la divertente cover del super classico “Love Potion #9”, interpretata  in chiave glam su un riffing serrato e cadenzato.

Purtroppo, l’unica testimonianza discografica di questa band non è mai stata ristampata e i CD girano tra eBay ed Amazon a prezzo non leggerissimo (dai venticinque dollari a salire fino a ottanta per l’edizione giapponese), mentre vinili e cassette hanno quotazioni meno elevate ma comunque tutt’altro che da saldo estivo. In ogni caso, la spesa vale l’impresa.

 

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TEN

 

 

  • HERESY AND CREED (2012)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

 Gary Hughes soffre di un serio problema di natura grafica. Anche se la musica della sua band si allontana sempre più da quelle architetture solenni, pompose ed epicheggianti che per diverso tempo ne hanno caratterizzato il sound, lo styling delle copertine non è mutato né punto né poco, più adatto ormai a band come i Magnum o i Royal Hunt che ad un gruppo sempre più impegnato nel recupero di quell’AOR hard edged che ha rappresentato il suo ambito originale di pertinenza. Anche i titoli delle canzoni potrebbero spesso suggerire ad un incauto acquirente che i Ten siano sempre quelli di ‘Spellbound’ o ‘The Robe’, mentre oggi questa band suona in maniera piuttosto simile ai suoi primi due dischi ed ai lavori da solista di Gary Hughes. Mi ricorda un po’ la storia dei Molly Hatchet, che nonostante praticassero (e con notevole autorità) il Southern Rock, per molto tempo hanno adornato le copertine dei propri dischi con illustrazioni fantasy degne di un racconto di Conan il Barbaro che potevano farli scambiare per seguaci dei Manowar o dei Manilla Road. Cui Prodest? Non era meglio evitare di piazzare sulla cover del CD queste due guerriere discinte e scegliere un tema iconografico un po’ più leggero, che riflettesse in maniera adeguata il contenuto di ‘Heresy and Creed’? Un contenuto, fra l’altro, davvero eccellente. Si può parlare davvero di rinascita artistica per i Ten, che già con ‘Stormwarning’ erano tornati a fare musica ad alto livello e si riconfermano con questo disco sempre in grado di dire la loro nell’AOR del ventunesimo secolo. ‘Heresy and Creed’ segue la linea molto convincente del suo predecessore, ma lasciandosi praticamente del tutto alle spalle le tentazioni pomp/epic che ancora su ‘Stormwarning’ tenevano banco in un paio di canzoni. Il paragone si può estendere a ‘Babylon’, e naturalmente a ‘Ten’ e ‘The name of the Rose’: prima, insomma, che Gary Hughes si mettesse in testa di trasformare la sua band nei nuovi Magnum. Il suono è scintillante e di qualità strepitosa, la produzione impeccabile, la pressione delle tastiere negli arrangiamenti è tornata a salire ed il nuovo chitarrista (in questo ruolo non hanno trovato pace dopo l’addio di Vinnie Burns) convince fin dalle prime note di “Arabian Nights”, che dopo l’intro sinfonico “The Gates Of Jerusalem” inaugura l’album con un synth bass pulsante, tappeti di tastiere e spettacolari chitarre heavy metal su cui veleggia una melodia leggera che sfocia in un classico refrain. Anche “Gunrunning” ci serve un’altra di quelle melodie impagabili che sono ormai il trade mark di questa band, drappeggiata su una solida base ritmica, con un bel bridge di keys, e la direzione AOR prosegue senza tentennamenti con la splendida “The Lights Go Down”, che è fatta di un pianoforte limpido, una linea melodica palpitante, un refrain essenziale ed efficace. “Raven’s Eye” inizia con delle chitarre acustiche nello stesso tempo cupe e luminose da cui spunta una meravigliosa melodia celtica che si fa elettrica e drammatica scivolando magicamente nell’AOR per lo strepitoso refrain: capolavoro? Un disegno di tastiere quasi dance annuncia “Right Now”, col suo smalto anni 70, un chitarrone zeppeliniano, gli arpeggi acustici ed il canto suadente ed ancheggiante: irresistibile. Chitarre aggressive e stoppate su “Game Of Hearts” ed un organo Hammond su cui si stende però una melodia sempre deliziosamente pop. Qualche autocitazione nelle strofe non guasta “The Last Time”, power ballad molto ispirata, ma il pezzo forte, diciamo così, arriva con “The Priestess”, hard rhythm & blues molto cool, divertente ed allupato, con preziosi intarsi funky, che riconferma l’interessa di Gary Hughes per i Little Angels (il refrain è ricalcato palesemente su quello di “Boneyard”, una delle canzoni di ‘Young Gods’). “Insatiable” è un hard melodico e metallico che alterna furibonde accelerazioni a parti più suadenti, “Another Rainy Day” un’altra power ballad, melodia semplice e fresca ed assolo diviso tra il piano e la chitarra. “Unbelievable” è vivace, di nuovo con qualcosa dei Little Angels nelle sue sfumature R&B ma con un classico refrain e chiude una ballad veramente incantevole intitolata “The Riddle”.

In definitiva, la ricetta di questa band, nella sua sostanza, non cambia, e pur avendo ormai sviluppato un suo suono, non si nega a nuove suggestioni, sempre ottimamente trapiantate su un terreno che possiamo ormai ben definire classico. Che questi trapianti siano spesso fatti in maniera letterale è innegabile, ma se c’è qualcosa che Gary Hughes ha dimostrato nella sua ormai ventennale carriera è che sa appropriarsi della musica altrui mettendoci abbastanza del proprio per non scandalizzare. Non è il copia & incolla a cui siamo ormai abituati, ma una rimodulazione tutt’altro che facile e condotta sempre con sapienza e ottimo gusto, che riesce nella difficile impresa di far dimenticare la fonte originale (o, quanto meno, a rendere più difficile individuarla a colpo d’occhio: pur conoscendo a menadito il repertorio dei Little Angels, mi sono reso conto che il ritornello di “The Priestess” era stato modellato su quello di “Boneyard” solo al secondo ascolto). Forse non potremo mai definirli una “grande” band nel senso in cui lo sono stati i Bad English o i Giant, ma di certo i Ten hanno strameritato il posto che occupano nella hall of fame dell’AOR.

 

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PARADISE

 

 

  • DO OR DIE (1992)

Etichetta:Dream Circle Reperibilità:scarsa

 

C’è una differenza tra le band di vent’anni fa e quelle di oggi. Un orecchio allenato (come, posso immodestamente affermare, è quello del vostro webmaster) è in grado di coglierla ad un ascolto appena casuale, distinguendo senza possibilità d’errore tra un prodotto discografico di oggi e di ieri. Cosa sia precisamente questa differenza (vi prego di notare il corsivo) è tutt’altro che facile dirlo. Parte dalle diverse tecniche di registrazione (i nastri analogici o digitali di una volta, il Pro Tools oggi), che danno un sound regolarmente più caldo e ricco all’hard rock melodico inciso fino ai primi anni 90, mentre oggi abbiamo in genere pulizia assoluta, grande nitidezza ma un suono molto più freddo. C’è poi il mastering fatto per mantenere una dinamica più ampia possibile contro il suono compresso e spaccatimpani in voga oggi (per approfondire, consultate il mio pezzo sulla Loudness War). Questo per l’aspetto più squisitamente fonico. Ma c’è ben altro sotto, sopra o attorno a questo.

Oggi viviamo una fase celebrativa. Chi prova a fare del nuovo nel nostro ambito, o disegna scenari abbastanza inediti (Nickelback e loro seguaci: Shinedown, Black Stone Cherry, Halestorm eccetera), o si muove con estrema prudenza, esplorando territori sconosciuti con notevole cautela (gli Winger o Chris Ousey, solo per fare un paio di nomi). Ma tanti, tantissimi, si limitano a riproporre senza fantasia i vecchi schemi, i soliti riff, le stesse melodie di venti o trent’anni fa. E magari lo fanno benissimo, come i Departure. Eppure… Manca sempre qualcosa, ed è un qualcosa di essenziale. Non so definirlo bene, e dargli un nome è difficile. Fluidità? Scioltezza? È come se ci fosse sempre, in questi nuovi e giovani adepti del rock melodico più classico, un qualcosa di forzato, di artefatto. Forse è quello che accade quando un genere musicale sopravvive all’epoca che lo ha generato e viene mantenuto in vita da una nuova generazione di artefici, i quali lo maneggiano con la goffa impeccabilità che può esibire lo specialista di una lingua morta.

Non riesco a trovare altra spiegazione per la differenza che sento tra questo disco di una band senza dubbio minore, minore come tante altre di cui ho già scritto, quella massa enorme di act che affollarono ben oltre i limiti di saturazione del mercato la scena hard rock tra il 1981 e il 1993, ed i prodotti analoghi offerti da band odierne. Queste band minori ci hanno dato album che ascoltiamo con piacere ancora oggi e, questo è il bello, suonano molto più freschi e vivi di tanta roba recentissimamente incisa. Forse perché tutte queste band non celebravano alcunché, non giocavano con la grammatica e la sintassi di una lingua morta. Vivevano il loro tempo, ne davano una propria interpretazione, anche se non personalissima e geniale come quella delle band maggiori. Forse il “qualcosa” è tutto qui, la differenza si riduce semplicemente a questo. È la soluzione più semplice al problema, ma anche la più inquietante: perché implica che dischi come quello dei Paradise, al giorno d’oggi, non può inciderli nessuno; che per avere musica come quella di trent’anni fa, dobbiamo rivolgerci a band di trent’anni fa (quando sono ancora attive, tipo gli House Of Lords o i King Kobra), o formate da reduci di quell’epoca, come i Tango Down. È un’ipotesi estrema che mi auguro sempre di vedere smentita dai fatti, ma che i fatti (fino ad oggi, almeno) hanno sempre convalidato, e non solo nel nostro genere specifico.

E mette sotto una nuova luce dischi come questo ‘Do or die’, che nel ’92 qualcuno catalogò frettolosamente tra i lavori minori, poco importanti, da ascoltare qualche volta e poi dimenticare. Eppure, ‘Do or die’ risplende ancora oggi: di luce riflessa, certo, ma il bagliore che emana non si è affatto attenuato. Ci dà quel sapore della grande stagione dell’hard rock melodico, diverte e non annoia mai. Chiedere altro non è lecito e, comunque, quello che i Paradise ci dettero è più che sufficiente. Come tutte le band minori, anche quella del singer Adam Gifford (immaginate un Jon Bon Jovi più rauco e sguaiato) non si allontanava dall’ortodossia rock californiana, eppure riusciva a trovare in qualche caso soluzioni che se non erano originali, riuscivano però stuzzicanti, come su “Voices”, con le sue armonie acustiche zeppeliniane che precedono un secco riff elettrico ed un refrain polifonico, lento e solare. C’erano inevitabili omaggi ai padrini Van Halen, prima con “Firin’ Line” (debitrice anche dei Led Zeppelin) poi con “Fever”, che ha il tipico riffing saltellante ed una corretta atmosfera scanzonata. Dokken e XYZ presiedevano invece al class metal insinuante, notturno e cromato di “Nightmares”, mentre “Ghost Town” e “Undercover” erano veloci, adrenaliniche, selvatiche e beffarde nello stile dei Kik Tracee. Ovviamente, per confezionare una power ballad elettroacustica si rivolgevano ai Bon Jovi, era ‘New Jersey’, e il risultato, “Need a Little Love”, centrava perfettamente il bersaglio, mentre su “I Want More” era il lato più rock e festaiolo della band di Jon e Richie Sambora ad essere chiamato in causa. Un’altra, ruvida power ballad, “When You’re Gone”, si rifaceva (benissimo) ai Tyketto e in chiusura arrivava il country blues acustico e divertito “You’re 16”.

Preferire ‘Do or die’ a tanti dischi recenti è certo un fatto di gusto, ma anche, indubbiamente, di fortuna e portafoglio. Perché quest’album edito dalla tedesca Dream Circle vent’anni giusti fa, è difficilissimo da trovare e caro come caviale del Volga. Se vi accontentate dei succedanei e/o il vostro palato non rileva alcuna differenza tra le uova di storione e quelle di lompo, potete risparmiare la spesa e pasteggiare a basso prezzo con prodotti moderni. Ma quel sapore, i surrogati non potranno mai darvelo davvero.

 

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DREAM POLICE

 

 

  • DREAM POLICE (1990)

Etichetta:CBS Reperibilità:scarsa

 

La presente recensione, ne sono sicuro, alimenterà ulteriormente la leggenda che immagino serpeggi tra i frequentatori abituali di questo sito riguardo la mia larvata antipatia per le band svedesi contrapposta alla (tutt’altro che larvata) simpatia che ho espresso più volte alle band norvegesi. Posto che ci sono band svedesi che mi piacciono moltissimo, è vero che mi è capitato più spesso di imbattermi in gruppi interessanti provenienti da Oslo e dintorni, come questi Dream Police, per esempio. Di loro non ho mai saputo molto, perciò non aspettatevi dettagli biografici, chi erano e cosa facevano questi quattro tizi dai nomi impossibili prima che debuttassero con questo monicker e cosa abbiano fatto dopo lo scioglimento della band non ne ho proprio idea. Quello che conta è ciò che ci hanno lasciato, musica così buona che vale la pena parlarne anche ventidue anni dopo la sua pubblicazione.

Registrato nella natia Norvegia in appena un mese, ‘Dream Police’ aveva un titolo che, naturalmente, poteva indurre chi non era del tutto digiuno di storia del rock a dare per scontata una particolare devozione della band verso i Cheap Trick ed il loro suono pop metal. Nelle undici canzoni dell’album, invece, non c’era assolutamente nulla che rimandasse alla band di Robin Zander; e considerato quello che veniva fuori da questi cinquantadue minuti di musica, i ragazzi si sarebbero piuttosto dovuti scegliere come monicker qualcosa come “Hot For Teacher”, “Girl Gone Bad” o magari “Running’ with the devil”: insomma, quest’album è infarcito di palesi dichiarazioni d’amore ai Van Halen era Roth, a cominciare da “Need Your Lovin’”, dove il suono dei VH viene patinato, cromato e infarcito di blues, e proseguendo con “Hot Legs” (un bel party rock agile e saltellante con intro blues di chitarra acustica e armonica), “Rock Dolls” e “Moving” (sulla stessa scia dei Bulletboys, la seconda più melodica), “Little Angel” (con qualche tratto Y&T). La band di Dave Meniketti viene presa a modello con più decisione sul bell’anthem secco e ruvido intitolato “Rock Me”, mentre “On Fire”, col suo riffing essenziale, parla la lingua dei Kiss (versante Paul Stanley) e “Hit and Run” punta sul suono degli Whitesnake americani, con una goccia di blues in più e qualche sfumatura Great White. Due le ballad ed entrambe notevoli: “When the Sun Goes Down” è elettroacustica, maschia, un po’ malinconica, tra Bon Jovi e Tesla, con un bel finale corale; “Surrender” è più morbida, impreziosita dall’organo Hammond e caratterizzata da morbidi tocchi soul. Chiude “Uncle Gus”, divertente blues acustico con abbondanza di slide e armonica. Da rimarcare la produzione, con timbriche di chitarra sempre brillanti e spettacolari e la voce del cantante, impastata, ruvida e piacevolmente sguaiata dove serve.

Purtroppo, ‘Dream Police’ non è stato ristampato ed i prezzi a cui gira variano istericamente dalla solita decina di euro per arrivare a sfiorare e talvolta superare le quarantina. Il secondo album, ‘Messin’ with the blues’, si trova invece a prezzi mediamente più bassi, forse perché c’è una maggior abbondanza di copie in giro, ma sempre con variazioni apprezzabili (qualcuno lo vende a dieci, altri a trenta euro). Mai come in questo caso, dunque, guardarsi bene in giro e attendere l’offerta più conveniente prima di procede all’acquisto di un album apprezzabile ma che, come avrete intuito, non era venuto a sconvolgere il mondo.

 

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JIMI JAMISON

 

 

  • NEVER TOO LATE (2012)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

La premiata ditta Erik Martensson / Miquael Persson non finirà mai di stupirmi, in positivo ed in negativo. Imperterriti riciclatori del proprio materiale sonoro che traslano da un disco all’altro senza vergogna né pudore, sono altresì capaci di lavorare sul sound caratteristico di una certa band con un rigore ed una fantasia strabilianti. Su quest’album si sono messi al servizio di Jimi Jamison e il risultato finale è, senza mezzi termini, straordinario. ‘Never Too Late’ è semplicemente il disco che i Survivor non hanno mai fatto dopo ‘Too hot to sleep’. Intervistato, lo stesso Jimi Jamison si è dichiarato stupito dal materiale che la premiata ditta gli ha messo a disposizione. Martensson ha inciso la musica in Svezia, cantando lui stesso le canzoni per sottoporre del materiale pronto a Jimi che nel suo studio di Memphis ha inciso e prodotto le parti vocali rimanendo sostanzialmente fedele a quelle registrate da Martensson. Solo in un paio di circostanze si sente, e molto vagamente, qualche sfumatura di AOR moderno: songwriting, produzione, timbriche degli strumenti, tutto rimanda ai Survivor ottantiani con un rigore filologico che non scade mai nella citazione. È un disco sicuramente più elettrico ed heavy di quelli che Jim Peterick e Frankie Sullivan amavano assemblare sul finire degli anni ’80, ma se tanto mi da tanto, anche loro si sarebbero dovuti adeguare al trend che in quel periodo storico voleva dall’AOR volumi più alti e meno tastiere, dunque un ipotetico successore di ‘Too hot to sleep’ inciso nel ’90 o nel ’91 avrebbe suonato esattamente come questo ‘Never Too Late’, un album robusto, gagliardo ma sempre splendidamente melodico. È inutile che passi in rassegna una per una queste undici canzoni, finirei per ripetere sempre le stesse cose, girando attorno al fatto nudo e crudo che sono tutto quanto un fan dei Survivor potrebbe desiderare: non mera celebrazione, ma uno strepitoso esercizio di stile, ed anche una delle cose più belle che l’anno appena concluso ci abbia regalato. Dulcis in fundo, Jimi Jamison è sempre in gran forma e quella sua voce rauca e pastosa, abrasiva e vellutata resta senza uguali nel panorama dell’hard rock melodico. Insomma, ‘Never Too Late’ è una priorità assoluta per qualunque appassionato di AOR anni ‘80.

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BIG HOUSE

 

 

  • BIG HOUSE (1991)

Etichetta:BMG Reperibilità:scarsa

 

Il Canada dei Big 80s non era solo AOR cristallino ai confini del pop, questa band di Edmonton riuscì con il suo primo ed unico album (preceduto di un anno da un EP a quattro pezzi) a compilare un trattato di hard rock californiano decisamente orientato sul versante glam da fare invidia a tante band del Sunset Boulevard.

Prodotto (da David Bendeth) e arrangiato con grande sapienza, ‘Big House’ dichiara subito le proprie intenzioni tramite il basso incalzante che apre “Dollar in my Pocket”, retta da un riffone glam metal con belle vocals in tema, passando poi alle atmosfere anthemiche di “All Nite” ed ai tocchi bluesy di “Refuse 2 Run”, secca e potente alla AC/DC ma con una bella vena melodica che sfocia in un refrain molto cool. “Baby Doll” è una classica ballad folk blues elettroacustica alla Black Crowes (ma la melodia è palesemente ispirata a quella di “Knocking on Heaven’s Door” di Dylan), “Can’t Cry Anymore” ci riporta dalle praterie alle strade di L.A., un bel metal notturno dove i Big House diventano dei Kik Tracee cromati o dei Bang Tango intonati (fate voi), completata da un arguto finalino funky, e sulla stessa rotta si muove “Devil’s Road”, un pelo più glam della track che la precede e con il plus di un refrain irresistibile. “Nothing Comes 4 Free”, invece, è glam fino al midollo: lenta e sinuosa, davvero eccellente. Su un altro riff di scuola AC/DC viaggia “Happiness”, completata da una scanzonata linea melodica di classico rock yankee. “L.A.” ha invece una melodia in chiaroscuro, sempre glam e di nuovo un po’ alla Bang Tango. “Angel on my Arm” chiude alla grande il disco con un’altra eccelsa scheggia di party sound californiano, stavolta di stampo Mötley Crüe, con un riffing scuotichiappe per un glam anthem pieno di finezze.

Big House’ è stato stampato anche in Europa ma, come al solito, i prezzi più convenienti si spuntano negli USA, su eBay e Amazon passa di mano per cifre tra i quattro e gli otto dollari e, se amate il metal californiano sul versante più glam, sono soldi davvero ben spesi.

 

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THE LAW

 

 

  • THE LAW (1991)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:scarsa

 

Trattando dei Bad Company e dei Firm, ho già ricordato come Paul Rodgers, dopo la chiusura della band messa su con Jimmy Page, sparì sostanzialmente dalla circolazione per diversi anni. Disceso per sua scelta dalla ribalta del rock ottantiano, Paul non sembrava molto ansioso di risalirvi, al punto che, dopo il tour seguito all’uscita di ‘Mean Business’, aveva fatto passare due anni prima di tornare su un palcoscenico (si esibì al concertone per i quarant’anni dell’Atlantic). Più meno in quel periodo, Paul decise di porre termine al suo esilio volontario mettendo su un nuovo progetto musicale con Kenney Jones, il batterista degli Small Faces che era andato poi a prendere il posto di Keith Moon buonanima negli Who per un paio di dischi. Ho parlato di “progetto” perché il monicker The Law non copriva l’operato di una vera e propria band; il disco era stato registrato con vari session men e alcuni ospiti prestigiosi (Bryan Adams, Dave Gilmour, Chris Rea), e otto delle undici canzoni registrate erano state fornite da songwriters esterni (tra loro, nomi grossi come Jim Vallance, Benny Mardones, Mark Mangold, Tamara Champlin, Phil Collen, Chris Rea). Il sospetto che The Law fosse soltanto una scusa per registrare in fretta e furia un po’ di canzoni da dare in pasto al pubblico allo scopo di cavalcare l’onda lunga dell’AOR che dominava Billboard era legittimo, ma infondato. Per incidere l’album Paul Rodgers e Kenney Jones ci misero quasi due anni, e tutto si può dire di questi undici pezzi, tranne che siano fotocopia di quanto all’epoca andava per la maggiore nelle charts americane. I riscontri, poi, furono tutt’altro che principeschi, principalmente per la scarsa promozione di cui il disco godette in un momento storico non molto felice (uscì nel ferale 1991).

Nonostante la presenza di tanti songwriters, ‘The Law’ aveva un sound bel delineato, che sposava la familiare matrice Bad Company ad un AOR patinato ma non edulcorato, molto elettrico e sapientemente prodotto e arrangiato. “For a Little Ride” già dice tutto, cromatissima ma su un ritmo boogie, un impasto di potenza e atmosfera su cui domina la voce inarrivabile di Paul. “Miss You in a Heartbeat” è invece una ballad AOR dalla raffinata tessitura elettroacustica, con appena una goccia di soul, mentre “Come Save Me (Julianne)” sembra fatta per tutti quelli che si sono sempre chiesti come sarebbero stati degli ipotetici Journey con Paul dietro il microfono al posto di Steve Perry: in questa canzone c’è la risposta (e che risposta…). “Stone Cold” e  “Laying Down the Law” sono i vecchi Bad Company versione film western placcati di mezzo metro di cromo luccicante: grandiose. Dopo il martellante rock boogie “Nature of the Beast” arriva l’atmospheric power in chiave bluesy “Stone” che porta bene impresso il marchio di Chris Rea ma nelle mani di Paul (o, meglio, sulle sue corde vocali) diventa una divina tranche di AOR. “Anything for You” si svolge su una classica trama alla Stan Bush / Tim Feehan, “Best of My Love” insegue ancora le atmosfere dei Bad Company in chiave AOR, allo stesso modo di “Tough Love”, incalzante e sinuosa pur nella sua tipica architettura di blues elettrico. “Missing You Bad Girl” chiude magistralmente con un fascinoso intreccio elettroacustico su cui si impennano rapide ondate di tastiere, chiaroscuri misteriosi, un velo di esotico, pura magia AOR.

The Law’ gira tra eBay ed Amazon a prezzo onesto, una decina di dollari o anche meno. L’ascolto è consigliato a chiunque ami l’Adult Oriented Rock in generale, ma per i fan di Paul Rodgers e di tutto l’AOR più bluesy, questo disco è una gemma assoluta e imperdibile.

 

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SNAKECHARMER

 

 

  • SNAKECHARMER (2013)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Gli ex Whitesnake ci riprovano. Nonostante il fiasco commerciale di ‘Burst the bubble’ uscito con il moniker Company Of Snakes (per saperne di più, seguite il link), Micky Moody e Neil Murray pubblicano un’altra volta del materiale originale, sempre sotto un marchio che rimandi più o meno direttamente alla loro passata militanza tra i ranghi del Serpens Albus (anche se “Snakecharmer” era il titolo di una canzone dei Rainbow). Perso per strada Bernie Marsden, i due hanno arruolato come seconda ascia Laurie Wisefield (Wishbone Ash, fra gli altri), reintegrato nel ruolo di tastierista il figlio d’arte Adam Wakeman, piazzato dietro i tamburi il collaudatissimo Harry James (Thunder) e si sono rivolti a Chris Ousey per le parti vocali. La scelta del cantante potrebbe indurre a sospettare che – nonostante il moniker – Micky e Neil vogliano rompere il cordone ombelicale col passato, dato che l’ugola di Chris non è imparentata neppure alla lontana con quella di David Coverdale. E, in effetti, rispetto a ‘Burst the bubble’, il suono risulta più cromato e AOR, ma la sostanza non cambia, le radici degli Snakecharmer restano ben piantate nella musica degli Whitesnake british era.

My Angel” si apre con schitarrate acustiche western, un hard rock dal riffing essenziale ma con una fascinosa linea melodica e bei panneggi di keys, ma “Accident Prone” apre il festival della nostalgia con un classico hard maschio ma mai troppo veemente, di pura marca Whitesnake, festival che prosegue lungo le stesse coordinate ma in un’atmosfera decisamente più bluesy con “To the Rescue”. “Falling Leaves” è una notevole power ballad, malinconica e intensa nelle strofe, si scioglie in un bel refrain soul e conclude con una citazione zeppeliniana prelevata dall’assolo di “Stairway To Heaven”. “A Little Rock and Roll” è uno stratosferico slow boogie dal riff pulsante, con un sottile, fascinoso flavour western più Bad Company che Whitesnake. “Turn of the Screw” e “Smoking Gun” ci riportano ai tempi di ‘Ready and willing’, la prima incalzante e con un grandissimo refrain, la seconda maschia, rude e vellutata nello stesso tempo (ma anche inutilmente lunga). Pausa con “Stand Up”, splendida esercitazione sul sound dei Foreigner pre '4', poi “Guilty as Charged” ritorna sulla solita rotta, un classico andamento chitarra / Hammond, potente e melodica, non avrebbe certo sfigurato su ‘Come an’ get it’ o ‘Slide it in’, come le successive “Nothing To Lose” (calda, smargiassa e bluesy) e “Cover Me in You” (con le chitarre che procedono classicamente all’unisono). Chiude “White Boy Blues”, con la slide di Micky Moody in bella evidenza, di nuovo debitrice dei Bad Company.

Rispetto a ‘Burst the bubble’, il suono è più heavy e vivace, e anche il songwriting è una punta più brillante: se questo basterà a portare la band fuori dalla dimensione di juke box vivente in cui i Company of Snakes e gli M3 erano rimasti impantanati, non sono in grado di dirlo. Anche ‘Burst…’ era un buon album, il problema stava nel fatto che il pubblico, durante gli spettacoli, non voleva sentire le canzoni prelevate da quel disco ma i classici del repertorio Whitesnake. ‘Snakecharmer’ riuscirà a far cambiare orientamento a chi compra il biglietto per i loro show? Incrociamo le dita…

 

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JESSE STRANGE

 

 

  • JESSE STRANGE (1992)

Etichetta:WTG/Epic Reperibilità:scarsa

 

Solo un’altra band della Los Angeles degli anni d’oro, questi Jesse Strange? Non del tutto. Nel 1992, mentre la scena si dissolveva e tanti colleghi cambiavano pelle, Grant Tibor (provate ad immaginare un perfetto incrocio tra Bon Jovi ed il Billy Idol più sguaiato), Scott Migone (chitarre, era passato brevemente nei Gipsy Queen), Paul Trust (batteria e tastiere) e Danny Lullie (basso), composero questo devoto omaggio alla California metallica, allupata e festaiola dei Big 80s. E lo fecero tutto da soli, con un solitario contributo nel songwriting e producendo in autonomia l’album (ma il fatto che Paul Trust avesse conseguito un major in sound engineering deve aver aiutato non poco). Album che seguì il destino comune a tanti lavori pubblicati in quegli anni bui, ovvero rimase a prendere polvere sugli scaffali dei negozi mentre imperversavano gli zozzoni di Seattle. I ragazzi fecero in tempo a incidere un secondo disco che rimase inedito fino a quando Danny Lullie non lo fece pubblicare nel 2006 con il titolo ‘Looking For Some Strange’.

Ma ‘Jesse Strange’ com’è? Produzione perfetta, arrangiamenti policromi, suoni caldi e potenti ed un songwriting sopra la media, per nulla originale ma focalizzato alla perfezione sul genere prescelto e “Raise a Little Hell” mette subito in chiaro, un super anthem festaiolo, perfetto amalgama Ratt / Crüe, caratterizzato da un incrociarsi spettacolare degli assoli. “Love on the Telephone” è un altro mezzo miracolo, eccellente esercitazione sul sound Def Leppard temprato sull’incudine del metal californiano. “Make a Wish” è la stessa che qualche anno prima avevano fatto i Beau Nasty (scritta da Jesse Harms), una bella power ballad molto Bon Jovi, “Silver Screen” è invece sleaze, ritmata e scanzonata, un po’ Kix un po’ Black ‘n Blue, con un bel bridge di basso slappato, mentre su “Weekend Tonight” ritroviamo di nuovo i Bon Jovi, ma quelli più festaioli e vivaci dei primi album. “Coyote Morning” si apre con una salva di batteria ed un riff pulsante che ci catapultano in qualche club di L.A. per un metal californiano martellante, divertente e anthemico, stessa ricetta o quasi per “Down and Dirty”, con il suo magistrale intreccio di riff, tra Keel e Quiet Riot, si tira il fiato con la power ballad “Living Without Your Love”, che non aveva bisogno di rubare a tratti l’andamento della “Ten Years Gone” zeppeliniana dato che sarebbe stata favolosa anche senza, il solo refrain è grandissimo. Si va ancora a mille con “Dancing for Strangers”, party rock da lap dance che impasta Crüe e Van Halen e chiude una gloriosa power ballad, “The Last Goodbye”, che inizia con piano, archi e chitarre acustiche e va in crescendo tra Hammond e chitarre elettriche.

Anche ‘Looking For Some Strange’ manteneva alto il nome di questa band (in un contesto un po' meno party oriented), ma essendo stato pubblicato in tiratura limitata è più difficile da reperire rispetto a ‘Jess Strange’, che passa invece di mano su eBay a cifre nell’intorno dei dieci dollari: soldi sicuramente ben spesi per una delle piccole gemme della L.A. metallica di vent’anni fa.