AORARCHIVIA

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PERFECT CRIME

 

 

  • BLONDE ON BLONDE (1990)

Etichetta:EMI Norsk Reperibilità:scarsa

 

Siete cacciatori di rarità? Andate in fregola per dischi sconosciuti ai più? La vostra attenzione si concentra inevitabilmente sulle lost gems che più lost non si può? Bene: qui c’è pane per i vostri denti, roba in cui affondare gli artigli, materiale su cui sbavare. Questo disco, infatti, fu pubblicato in appena una manciata di copie dalla EMI norvegese, l’ultima volta che mi ci sono imbattuto su eBay aveva un cartellino (virtuale) del prezzo appiccicato sopra su cui era scritto : 229 $. È tanto raro e – presumo – ricercato che è stato anche falsificato per il mercato dei dischi pirata (per i dettagli, andate alla “GUIDA AGLI ACQUISTI ON LINE” e seguite il link all’articolo pubblicato su hardnheavy.it).

Tanta attenzione al prodotto è giustificata? Direi di sì, anche se resto sempre dell’opinione che nessun disco merita esborsi del genere. ‘Blonde on blonde’ è un lavoro interessante ma non è certo un capodopera e non offre neppure particolari scampoli di originalità. Impiegando una minima frazione del capitale necessario ad entrarne in possesso potreste farvi tutta la discografia degli Headpins, ‘Bodyrock’ e ‘Some girls do’ di Lee Aaron e prendere il primo album dei Laos, ascoltando praticamente le stesse cose contenute in questo disco. È indubbiamente la sua grandissima rarità a determinare quotazioni così elevate, e qui entriamo in un ambito che ha poco a che vedere con la  natura del contenuto, ciò che conta è l’oggetto in sé, che nel compact disc ci sia AOR, rhythm and blues, reggae, arie d’opera o canti dei pastori dell’Anatolia Superiore (sempre che nell’Anatolia Superiore ci siano pastori che cantano e qualcuno si sia mai preso la briga di registrarli mentre cantavano), ha poca importanza per il collezionista fanatico che magari non si cura neanche di ascoltare quanto ha comperato, limitandosi a rimirare con sguardo lubrico l’oggetto del desiderio finalmente approdato tra le sue avide mani.

Ma la vita è fatta di stranezze e potrebbe capitare anche a voi di imbattervi in questo CD nello scaffale di un negozio di dischi usati, magari quello dove si accumulano i dischi che nessuno vuole, svenduti a prezzo da saldo estivo e talvolta acquistati soltanto per poter avere una di quelle belle custodie spesse, solide e robuste, a prova di bomba, come si facevano una volta (oggi, su eBay si vendono anche quelle!).

Dei Perfect Crime sappiamo solo che nascevano dalle ceneri dei Blonde On Blonde, autori nel 1989 del rarissimo ‘Labyrinth of love’, recentemente ristampato dalla NL Distribution (e meno male, dato che per l’edizione originale chiedono 400 dollari…), caratterizzati da una duplice conduzione vocale da parte di due gran belle vichinghe di nome Chris Candy and Bente Smaavik, ovviamente bionde, da cui il nome della band. Ribattezzatisi Perfect Crime dopo l’addio di Chris Candy , sceglievano per qualche strana ragione di intitolare il loro album proprio ‘Blonde on blonde’ (forse sarebbe stato più logico, allora, adottare come nuovo moniker Labyrinth Of Love…). Mentre come Blonde On Blonde si erano organizzati in casa, registrando in Norvegia con produzione indigena, diventati Perfect Crime si spostarono in Gran Bretagna, lavorando nientemeno che con Bernie Marsden: l’ex Whitesnake produce, collabora al songwriting, suona diverse parti di chitarra e arrangia l’album assieme alla band, mentre del mixaggio si occupò Tony Platt e le tastiere, in mancanza di un titolare in questo ruolo, vennero affidate ad un altro pezzo grosso, Don Airey. Non posso offrire raffronti con i Blonde On Blonde, dato che quel disco non ce l’ho, ma tutto questo spiegamento di forze del rock britannico a supporto dei Perfect Crime mi dà la sensazione che i punti di contatto con l’incarnazione precedente non siano moltissimi. È un fatto che i Perfect Crime si muovevano lungo uno spettro sonoro abbastanza ampio, inaugurando il disco con un intro lungo e suadente di keys che ci porta dentro “Into the Water”, hard melodico californiano secco e ritmato con qualche vaga sfumatura bluesy. Bente Smaavik  mette in mostra una voce vicina a quella di Lee Aaron, più pulita ed un po’ meno espressiva, ma molto potente e tecnicamente ineccepibile. “Shame On You” segue gli stessi sentieri della track che la precede, ma è più anthemica e sculettante alla maniera degli Headpins, con un assolo di chitarra slide: lineare ma coinvolgente. “One of These Days” è più melodica, con il pianoforte di Don Airey in evidenza ma sempre molto elettrica: i Laos erano appena dietro l’angolo. Torniamo dritti filati negli USA con la fantastica “Love Me or Leave Me”, hard bluesy impreziosito da una squillante sezione fiati (campionati, arrangiati da Don e Bernie), con un bridge molto Journey e un solo diviso in due parti: prima una slide proiettata contro uno sfondo di piano boogie, poi un fraseggio ispirato al Neal Schon epoca Bad English; finale western di chitarra acustica sempre suonata con il bottleneck. “Perfect Crime” è segnata dall’Hammond (decisamente Don Airey non è venuto a fare tappezzeria), che dà un bel calore ad una stesura hard rock che mi ricorda i Beggars & Thieves. Bernie Marsden è l’autore di “Liar”, segnata da un riff galoppante, tastiere grandiose e suggestive che tracciano un crescendo drammatico e potente su cui si staglia un ritornello semplice ed essenziale, chiusura su un lungo assolo di Bernie. È il momento della big ballad, “Am I Right”: fra piano e keys si snoda una bella melodia pomp, decisamente scandinava e ancora Laos oriented. Sempre dalle lande nordiche arriva “Lying Eyes”, un robusto hard melodico movimentato dalle tastiere e dal cantato di Bente, che diventano protagonisti nel bridge: la melodia del coro mi risulta un po’ fessa, ma è l’effetto che in genere mi fa l’AOR dei paesi scandinavi: a qualcun altro, magari, il ritornello suona leggiadro… Molto più interessante “Key In The Door”, ancora molto californiana, che ha un basso rotolante ed un riffeggiare ritmato ed ancheggiante, notturno, provocante, sexy. Bente ci mette anche del suo, e nel coro prima sale metallica poi cala suadente: la cosa migliore del disco assieme a “Love Me or Leave Me”. Finale all’insegna dell’ hard rock con “Stripped to the Bone”: Hammond incandescente, riff serrato, un mid tempo rapido, ombre bluesy, un po’ Whitesnake un po’ Rainbow, con finale strumentale.

Insomma: un gran bel disco, anche se non un capolavoro epocale: niente di imprescindibile ma neppure di superfluo. Lost gem, dunque? Direi proprio di sì, anche se, al prezzo a cui gira su eBay, dovremmo iscriverlo in una nuova categoria, quella dei lost diamonds…

 

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TRIUMPH

 

 

  • ALLIED FORCES (1981)

Etichetta:MCA / TML Reperibilità:in commercio

 

Quando ancora avevo il tempo e l’agio di gestire la posta di questo sito web e intrattenermi in scambi di mail con vari lettori, mi capitò di entrare in contatto con un giovane (molto più giovane di me) appassionato che s’era da relativamente poco accostato al genere e frequentava entusiasticamente eBay duellando a colpi di rilanci furiosi per accaparrarsi caterve di lost gem reali o presunte. Mi chiedeva consigli su quali album puntare, e regolarmente quelli preselezionati erano dischi della più grande rarità o afflitti da quotazioni esorbitanti. La cosa andò avanti per qualche mese, finché pubblicai la recensione del primo album dei Danger Danger. Lui mi scrisse che non lo aveva mai ascoltato e che lo avrebbe comprato subito. Allora, fui io a sottoporre a lui un breve elenco di band che avevano tutte due precise caratteristiche in comune: erano abbastanza importanti nella storia del rock melodico, ed i loro dischi erano tutti reperibili per pochi soldi. Fra queste c’erano anche i Triumph (oltre a Billy Squier, i Loverboy, i Survivor, i Nightranger e diverse altre). L’unica che conosceva -  superficialmente - erano i Survivor, e questo solo grazie ai film di Rocky. Gli feci presente che sarebbe stato molto più logico e opportuno comprare i dischi dei Triumph e dei Survivor (ad un prezzo regolarmente compreso fra i sei ed i dieci dollari, con il plus del remastering) piuttosto che buttare via cinquanta dollari per i Fisc di ‘Handle with care’ o quaranta e rotti per i Glory di ‘Danger in this game’. Ma lui, rapito dal fascino delle lost gem, non volle sentire ragioni. Non ci siamo più sentiti, ma immagino che sia sempre a caccia di rarità, di dischi oscuri che hanno spesso quale unico plus su quelli facilmente reperibili quell’aura di mistero un po’ esotico, di fascino segreto, che trasmettono il brivido dell’esclusività a chi ne entra in possesso, sopratutto quando l’acquisto è costato fior di quattrini. Ciascuno è padrone di gestire come crede le proprie passioni, naturalmente, ma quando quella per il nostro genere si concentra e focalizza sulle rarità o, quasi peggio, attorno ai prodotti concepiti sulla sponda sbagliata dell’Oceano Atlantico, il risultato finale sarà inevitabilmente quello di una visione parziale e limitata di un fenomeno che conobbe  in USA e Canada un vasto successo commerciale e si realizzo per la gran parte tramite la musica di band nordamericane. Se i Loverboy ed i Triumph hanno venduto qualche milione di album in patria e negli States nei Big 80s, mentre i Fisc non se li è mai filati nessuno, un qualche motivo ci sarà pure… Se gli americani preferivano comprare i loro dischi anziché quelli degli Strangeways e dei Bonfire, idem come sopra… La scena anglo / germanico / scandinava non è da buttare a mare nel suo complesso, ma resta sempre una realtà secondaria e marginale all’infuori di pochi nomi (Shy, FM, Dare, Laos, Dalton e qualcun altro). Eppure, tanti insistono a guardare nella direzione sbagliata o a inseguire piccole schegge oscure (e carissime!) di quel fenomeno. Potremmo dire anche: tanti spendono soldoni per accaparrarsi i dischi dei Fisc e dei Glory oppure venerano gli Strangeways o i Bonfire senza aver mai ascoltato una sola canzone dei Triumph. Eppure, la band di Rik Emmett (chitarra e voce), Gil Moore (batteria e voce) e Mike Levine (basso e tastiere) è stata una delle protagoniste dell’hard rock melodico fin dagli anni 70, collezionando se non proprio record di vendite, risultati in termini di popolarità spesso superiori a quelli dell’agguerritissima concorrenza: tre dischi d’oro ed uno di platino negli USA, mentre nella loro patria, il Canada, ogni loro album in studio – salvo ‘Edge of excess’, che li vedeva privi di Rik Emmett – è stato d’oro o di platino. I Triumph sono tra quelli che hanno dettato le regole, perfino in anticipo sui tempi, e anche se quasi tutta la loro discografia degli anni ’80 sarebbe da esaminare al microscopio (e quella dei ’70 non è certo da buttare via), non si può non concentrare l’attenzione su ‘Allied forces’, il primo capitolo del nuovo corso, che porta la data del 1981 e suona ancora oggi di una modernità quasi incredibile, mostrando che Rik e compagnia avevano visto chiaramente il futuro mentre bands che pure avrebbero fatto la storia del rock melodico –  come gli Heart, tanto per fare un nome – impiegheranno ancora diversi anni per liberarsi dalle scorie del suono hard settantiano, mentre altre insisteranno ancora a lungo a proporre quelle contaminazioni con il pop sintetico in voga tra molti ensemble dei primi tempi dell’AOR (Loverboy su tutti).

Non che i Triumph rinneghino su questo disco tutto quanto avevano fatto in precedenza, ma entrano nei neonati anni ’80 senza riserve, pur aprendo l’album con il riff secco e l’atmosfera un po’ bluesy di “Fool For Your Love”, decisamente zeppeliniana ma con un sottofondo melodico ben marcato. “Magic Power” ci serve un sublime intreccio di melodie dopo un intro acustico su un tappeto pulsante di chitarre elettriche e tastiere. “Allied Forces”, preceduta dall’intro d’effetto “Air raid” è il class metal quattro anni prima dei Dokken, dal coro anthemico all’assolo spettacolare di Rik Emmett al finale convulso ma controllatissimo, mentre “Hot Time (In This City Tonight)” è un divertente rock’n’roll metallizzato (i Mötley Crüe prenderanno nota…). “Fight the Good Fight” sono sei minuti e mezzo di pura magia: il contesto è di nuovo zeppeliniano (i punti di riferimento sono “Stairway…” – anche per l’assolo – e “Achille’s Last Stand”) ma con un gusto melodico personale: lirico, quasi epico e nello stesso tempo gentile, addirittura leggiadro pur nel vigore elettrico della canzone. “Ordinary Man” è un’altra track leggendaria, con il suo inizio morbido e solenne che evolve in un hard rock turbinoso e veloce spezzandosi in un assolo d’atmosfera ed un bridge dominato dalle tastiere prima che irrompa nuovamente quel refrain semplice eppure così fascinoso. “Petite Etude” è un minuto e mezzo di chitarra acustica classicheggiante prima di “Say Goodbye”, che ha ancora rifrazioni zeppeliniane ma anche un arrangiamento che guarda al futuro appena cominciato, e se nel coro di questa canzone vi sembra di sentire echi lontani di bands come Eagles o addirittura Beach Boys, non stupitevi, l’AOR non è nato per generazione spontanea e nell’alba dei Big 80s le sue radici erano ancora ben visibili tra i virgulti di quella pianta che sarebbe fiorita rigogliosa per dieci, irripetibili anni.

 

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GIANT

 

 

  • PROMISE LAND (2010)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Ed è arrivato anche un nuovo album per i Giant… più o meno. Quando ho letto la notizia, ho sentito le pulsazioni andare a mille. Ma il ritmo cardiaco si è immediatamente normalizzato, accompagnandosi ad un notevole calo dell’umore, quando ho scoperto che Dan Huff non era più della partita. David Huff e Mike Brignardello hanno assunto John Roth (Winger) come nuovo chitarrista ma la vera tegola è arrivata quando ho letto il nome del nuovo cantante: Terry Brock. Quello che penso di Brock e del suo modo di cantare lo potete leggere nella recensione che scrissi a suo tempo del suo album solo, ‘Back from Eden’ (vi basta seguire il link). Apprendere che quest’uomo dalla voce tecnicamente ineccepibile e nello stesso tempo tecnicamente morta, era diventato il frontman di una della mia bands predilette, non poteva certo predispormi favorevolmente all’ascolto di un disco che della band “vera” coinvolge solo la sezione ritmica, anche se Dan Huff (troppo preso dalla lucrosa attività di produttore per poter tornare dall’altra parte del mixer) ha suonato un paio di assolo e dato comunque una mano nel songwriting, che vede all’opera anche Mark Spiro (con due canzoni già incise però da Mark nei suoi album da solista) e Erik Martensson degli Eclipse (ormai abbiamo gli svedesi anche sotto le coperte…), oltre ovviamente ai due nuovi arrivati.

Ed è proprio una track firmata da Martensson ad aprire il disco, “Believer”, che dopo un intro morbidone e suadente ci offre una perfetta tranche di Giant-sound, tra atmosfera e grande estensione melodica, anche se il chitarrismo molto alla Neal Schon di John Roth autorizza (lusinghieri) paragoni pure con i Bad English epoca ‘Backlash’. “Promise Land” si muove sulla stessa falsariga: un po’ dimessa a tratti, ha bei chiaroscuri ed un flavour più westcoast. “Never surrender”, invece, è un hard melodico anonimo, con reminiscenze Foreigner e Bryan Adams: superfluo. Molto più in alto si va con “Our love” una notevole power ballad elettroacustica, ancora debitrice dei Foreigner. Martesson torna a stupire (a stupire me, almeno…) con “Prisoner of love”, un hard bluesy torrido e sexy, dal refrain strepitoso (qualche reminiscenza di “Chained”?), con un John Roth straripante. “Two worlds” è elettrica, tagliente, ma con imponenti muri di tastiere e refrain ultramelodico, mentre “Plenty of love” è molto californiana, basata su un riff elementare su cui vanno a ricamare keys e chitarra per un bel metal da spiaggia (o da party) con un refrain quasi glam. “Through my eyes” è una graziosa ballad che fa molto Journey e John Roth che torna a esibirsi nell’imitazione di Neal Schon: notevole il crescendo. L’ordito di “I’ll wait for you” è abbastanza ordinario, ma la melodia ed il refrain riescono molto coinvolgenti (e sono totalmente Giant, anche se questa canzone l’ha scritta John Roth). “Dying to see you” è una ballatona pomposa e manierata, ordinaria e senz’anima: il punto più basso del disco. Finale incandescente, con tre pezzi tosti sparati una dietro l’altro senza pause: “Double trouble” è un hard blues sanguigno, pesante e divertente, con dei begli impasti vocali; “Complicated man” è un altro hard bluesy da urlo, swingante e Vanhaleniano; “Save me”, un funk che riesce nello stesso tempo ad essere bollente, pesante e suadente.

Non certo un disco da buttare dalla finestra, questo ‘Promise land’, alla fine, ma che con il classico sound della band che conosciamo ha solo qualche punto di contatto. Forse sarebbe stato più corretto adottare un nuovo marchio, anche se Dan Huff non si è opposto al recupero di quel glorioso monicker per un album comunque apprezzabile e che al di là di un paio di episodi sottotono ci regala quasi un’ora di hard rock melodico ottimamente suonato, prodotto alla grande e cantato impeccabilmente.

 

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HOUSE OF LORDS

 

 

  • CARTESIAN DREAMS (2009)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Tutto possiamo dire di James Christian, salvo che non sappia fare autocritica. In mezzo a tante recensioni entusiastiche, la voce del vostro webmaster si era levata solitaria a sottolineare la natura soporifera dell’ultimo ‘Come to my kingdom’, ma il mio pensiero su quel disco deve essere stato condiviso anche da James stesso, che per il nuovo album ha deciso di rivolgersi di nuovo ad un songwriter esterno alla band per farsi dare una mano a stendere delle canzoni che fossero veramente tali e non mere scuse per strepitare a più non posso. La scelta è caduta nientemeno che su Mark Baker, collaboratore per i più bei nomi dell’AOR, che lavorò con gli House of Lords “veri” scrivendo assieme a loro gran parte di ‘Demons down’. E di quel disco il nuovo ‘Cartesian Dreams’ ha indubbiamente qualcosa, ma solo “qualcosa”: di più non si può pretendere da una raccolta di canzoni che, se ho decifrato bene le note tecniche contenute nel booklet, James si è registrato nel soggiorno di casa sua (ottenendo comunque un buon risultato in termini di qualità audio). ‘Demons down’ era un album cromato, che spesso e volentieri derivava verso atmosfere da party, il più californiano fra i tre dischi dei Lords prima fase e Mark Baker pilota di nuovo il sound della band verso le spiagge di Los Angeles, fornendo un input nel songwriting che proietta questa collection di canzoni fra le cose migliori che il 2009 ci abbia dato. La title track apre con il solito intro pomp e drammatico di tastiere ed archi, seguito da un roboante riffone zeppeliniano che ci porta in una canzone nello stesso tempo rocciosa e suadente: notevole. Ma “Born to be your baby” è addirittura entusiasmante, metallica e californiana, con un refrain irresistibile. “Desert rain” alterna un riff molto heavy a parti più pacate ed un bel refrain molto melodico, tutto accostabile allle utime cose registrate dalla band e nello stesso ambito si colloca “Sweet september”, power ballad che non dice niente di nuovo ma è tutt’altro che disprezzabile. Altra musica su “Bangin’”, di nuovo un party rock, ancora più festaiolo e sculettante di “Born to be your baby”. “A simple plan” ondeggia piacevolmente tra un riff grasso, bluesy e dondolante, e schegge di soffice melodia, con un refrain semplice ma intenso. Un altro riff zeppeliniano dà la cadenza a “Never never look back”, che ha qualche tocco moderno nelle figure ritmiche pulsanti basso/batteria: potente, ma anche elegante. “The bigger they come” è un class metal epicheggiante che fa tanto Rainbow, ma “Repo man” ci catapulta di nuovo a L.A., hard melodico scanzonato e allupato, con il ritornello cantato da James in duetto con la sua signora, Robin Beck: super. E super è anche “Saved by the rock”, un anthem da spiaggia dal riff palpitante, col suo coro sinuoso un po’ Quiet Riot e segue la stessa rotta “Joanna”, più secca e con un refrain semplice e melodico. “Train” chiude l’album con una power ballad un po’ root, dotata di un certo flavour anni ’70, ben rifinita pur senza particolari alchimie vocali ma con un’interpretazione molto ispirata.

In definitiva: un sentito grazie a Mark Baker per averci ridato, almeno a tratti, qualcosa degli House of Lords del bel tempo che fu. E un bravo a James Christian, che ha compreso in quale vicolo cieco era finito con ‘Come to my kingdom’ ed ha fatto un paio di passi indietro, in senso letterale ed in senso lato: in senso lato, perché si è di nuovo rivolto a qualcuno più dotato di lui nello scrivere canzoni; in senso letterale, perché non ha strozzato tutto questo eccellente materiale con quelle soffocanti stratificazioni di vocalizzi che rendevano così tedioso ‘Come to my kingdom’. Una band ritrovata.