AORARCHIVIA

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BAD ROMANCE

 

 

  • CODE OF HONOR (1991)

Etichetta:Polygram Reperibilità:scarsa

 

I Bad Romance sono stati il secondo ed ultimo capitolo della carriera di Joanna Dean. ‘Misbehavin’’, di cui vi ho riferito tempo fa, aveva smosso un po’ le acque, ma non fino al punto da scatenare uno tsunami. Ecco però che all’orizzonte compare Eric Brittingham, che evidentemente ha fiducia in lei e i mezzi per trovarle un bel deal tramite il management dei Cinderella. Joanna, pur tenendo sempre saldamente le redini del progetto, rinuncia a ripresentarsi al pubblico come solista e opta per un monicker, Bad Romance. Stavolta l’essenzialità viene messa al bando, forse ci sono anche più soldi da spendere. ‘Misbehavin’’ era fatto di un rock abrasivo e blueseggiante, mentre ‘Code of honor’ è un mosaico di hard melodico variopinto, con un songwriting sempre di altissimo livello che dà modo a Joanna di esprimersi su un terreno meno aspro e più raffinato rispetto al suo lavoro precedente. I riscontri di pubblico? Un bello zero tondo. La promozione stavolta c’è, niente di clamoroso ma almeno si fa sapere alla gente che i Bad Romance esistono, Joanna si esibisce anche assieme a Tom Keifer al Farm Aid, ma la scalogna (o il neonato grunge) sono imbattibili, e Joanna Dean si perde nella nebbia, svanisce, cosa faccia oggi non si sa, quella voce strepitosa è perduta per sempre, standing ovation a quanti hanno lasciato andare alla deriva una delle più belle ugole rock degli anni 80: chissà quanti fra quelli oggi s’accapigliano per potersi aggiudicare i suoi dischi sul web, ‘Misbehavin’’ è sempre un pezzo pregiato, con le aste che sforano regolarmente i cinquanta dollari, mentre invece (Dio solo sa perché) ‘Code of honor’ si può ottenere per pochi dollari, un motivo in più per segnalarvelo. Gli scettici ed i dubbiosi possono rivolgersi al sito joannadean.com, dove è possibile ascoltare gratuitamente tre canzoni di questo disco e ben sei di quelle di ‘Misbehavin’’, oltre a diversi videoclip ed a materiale che Joanna incise in precedenza e mai pubblicato.

Della band che aveva inciso ‘Misbehavin’’ resta il solo Roger Cox (batteria), i nuovi arrivati sono Steve Eriks (chitarre) e Jackie Vincent (basso), mentre le tastiere sono affidate a qualche anonimo session man. ‘Code of honor’ viene prodotto da John Jansen, anche lui raccomandato dai Cinderella (aveva lavorato con loro su ‘Heartbreak station’ ) mentre Tom Keifer in persona, oltre a collaborare al songwriting assieme a Eric Brittingham, duetta con Joanna su una canzone. “Up and coming” apre il disco con un basso sferragliante ed una chitarra sinuosa, poi entra un riff bluesy e metallico, una favolosa alternanza di carezze e schiaffi, elettricità e velluto… “The house of my father” è dura, lirica, drammatica, con un testo poetico e amarissimo ed un assolo lacerante, mentre la title track ha clima root ed una melodia squisita sul grattare delle chitarre. “The hunger” è un riff pulsante, vocals sexy e ruvide, una melodia nello stesso tempo fisica e leggiadra. “Move me” esce dalla penna di Mark Spiro, e se vi siete mai chiesti come avrebbero suonato i Bad English se a guidarli ci fosse stata una voce femminile, qui c’è la risposta: una canzone semplicemente stratosferica. “Eye of the storm” è un wah wah a manetta, un’atmosfera sospesa e inquietante, reminiscenze Cult ed un coro drammatico. Su “Bad romance” ritroviamo al songwriting Tom DeLuca (aveva firmato su ‘Misbehavin’’ la favolosa “Dirty fingers”) per un metal californiano con un refrain sculettante che ricorda vagamente gli Headpins. “Whitest lie” è una power ballad (molto power) con bellissimi archi dal suono profondo e grave, una melodia struggente, un po’ Foreigner. “Love hurts” è una ballad coverizzata da innumerevoli bands (venne incisa per la prima volta nel 1960), la versione più celebre resta quella dei Nazareth, l’hanno fatta anche gli Heart su ‘The road home’: il contrasto tra la voce ora pulita ora rauca di Joanna e quella acida e rugginosa di Tom Keifer funziona a meraviglia, l’intensità di quest’interpretazione incrociata lascia senza fiato. Tom torna come songwriter assieme a Eric Brittingham su “Love is blind”,  reminiscente dei Cinderella epoca ‘Night songs’, bluesy, con una slide tagliente, martellante e scanzonata. “Hang tough” è di nuovo un hard bluesato con un organo Hammond in sottofondo, indiavolata e divertita, e poi cala il sipario, fine del disco, fine della storia, The End… Non doveva andare così, cazzo, non è giusto. Che una interprete strepitosa come Joanna Dean Jacobs (questo è il suo nome completo) abbia dovuto gettare la spugna e tirarsi indietro è un crimine che urla vendetta, quando poi penso che di lì ad un paio d’anni quell’incrocio tra una papera ed una sirena dell’autoambulanza che porta il nome di Alanis Morrissette comincerà a vendere dischi a camionate, la tristezza lascia il posto ad un’incazzatura senza speranza. Questo porco mondo non è davvero fatto per i migliori.

 

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VELOCITY

 

 

  • IMPACT (1997)

Etichetta:MTM Reperibilità:scarsa

 

Questo primo album dei Velocity appartiene a quella schiera di lavori usciti a fine anni 90, quando la scena dell’AOR era finalmente riuscita a riorganizzarsi attorno ad alcune labels che ancora oggi mantengono vivo e vegeto (più o meno) il genere: MTM, Frontiers, Z Rock, Escape, eccetera. Dopo la tempesta che, tra il 1992 ed il ’93, spazzò via tutto quanto era rock melodico dai cataloghi delle majors e perfino da quelli della etichette indipendenti più importanti, parve davvero, per qualche tempo, che il nostro genere dovesse semplicemente morire d’inedia. Le labels attive a metà anni 90 erano poche, maldestre, disorganizzate: la svedese Empire, che aveva distribuzione solo in quattro o cinque paesi europei; la tedesca Long Island, molto scarsa di mezzi e dedita sopratutto a ristampe di dischi oscuri e spesso di dubbio valore; la britannica Now & Then, che adornava i suoi primi album di copertine che parevano fatte a mano con una fotocopiatrice a colori, li stampava in quattro copie affidate poi a misteriosi grossisti che sembrava operassero la distribuzione sempre con uno stile da caccia al tesoro: e via di questo passo. Tutte (meritatamente) defunte, prima o poi, salvo la Now & Then, che si è trasformata in una compagnia di produzione e management. C’era poi l’import giapponese, ma andava bene solo per i fortunati con il portafogli a soffietto, dato che per un CD proveniente dalla terra del Sol Levante gli importatori chiedevano cinquantacinque, sessanta, a volte ottantamila lire (quando un CD “normale” ne costava al massimo venticinque o trentamila). La qualità delle proposte, infine, spesso rispecchiava in maniera allucinante la pochezza di mezzi delle labels. I recensori che ancora prendevano in considerazione l’AOR cantavano lodi spropositate di dischi che solo pochi anni prima sarebbero stati accolti con smorfie di sconcerto e/o risatine sprezzanti, e questo per il fatto puro e semplice che non c’era altro in giro, così che venivano mandate in paradiso bands mediocri come i Takara o i Monster, e riconosciuto lo status di classici a dischi solo graziosi come quello dei Red Down o dei Project X. Si era perduto il senso della misura, ma solo per disperazione.

Ma, piano piano, qualcosa stava muovendosi, e alla fine del decennio una nuova pattuglia di etichette discografiche si affacciava alla ribalta, labels molto meglio attrezzate di quelle che le avevano precedute. La MTM (la sigla viene dalle iniziali dei nomi dei tre fondatori: Mario, Thomas e Magnus) fu per qualche tempo in pole position, con una caterva di ottime proposte: Harlan Cage, Tower City, RTZ, Jimmy Lawrence, Unruly Child, Garbo Talks e parecchi altri fra cui, appunto, i Velocity, un monicker che in effetti copriva l’opera di un solo artista,  David Victor, che era autore unico di tutte le canzoni, si esibiva al canto, alla chitarra ed al basso, l’altro chitarrista Chris Dodge si limitava a suonare la maggior parte degli assolo, mentre ai tamburi sedeva nientemeno che Pat Torpey, in prestito dai Mr. Big. Victor non era un absolute beginner, aveva già pubblicato un disco solista nel 1990, e con i Velocity metteva in mostra un notevole talento vocale, oltre a disimpegnarsi con diligenza nelle parti di chitarra. ‘Impact’, uscito nel 1997, è un disco senza emergenze, un buon trattato di hard rock melodico che si muove con disinvoltura tra il class metal e l’AOR con un bel flavour californiano. “You don’t amaze me anymore” apre l’album con un riff tostissimo, un drumming lento e monolitico, un clima drammatico a cui si contrappone efficacemente un cantato molto melodico. Quasi la stessa base ritmica la ritroviamo su “Riot goin’on”, più californiana, perfetta fusione di potenza ed easy listening. “Julia Ann” è un bell’innesto Ratt – Leppard, che coniuga mirabilmente fisicità ed atmosfera. I migliori Hurricane ispirano l’arioso class metal “Love is dangerous”, con qualche piacevole marezzatura zeppeliniana, mentreSupernatural lover” prende spunto dal miglior Bryan Adams (è quasi una versione più heavy di "Run To You"). “She’s been around” è una bella scheggia di metal da spiaggia, “Janine” una power ballad semplice e intensa, fra gli Winger e Jeff Paris. “More than tonight” un piacevole hard melodico un po’ Bon Jovi, “One minute to midnight” un rock’n’roll metallizzato, scatenato e divertente, con due assoli indiavolati. In chiusura, “Open road”, un grazioso strumentale che fa pensare tanto alle colonne sonore dei telefilm americani alla fine dei Big 80s, quando l’hard rock imperava anche alla TV ed al cinema.

Dopo ‘Impact’, i Velocity spariscono dalla circolazione fino al 2001, quando pubblicano l’EP 'Activator'. Su questo disco la band si presentava in formazione completa, a Victor e Dodge andava ad affiancarsi una sezione ritmica stabile, formata dal bassista John Anthony e dal drummer Bob Gaut, e chi interpretò questo ampliamento della line up come un segnale positivo, una indicazione della volontà di Victor di proseguire il discorso Velocity sbagliò clamorosamente dato che purtroppo di questa band, ad oggi, non s’è sentito più parlare.

 

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ELEKTRADRIVE

 

 

  • LIVING 4 (2008)

Etichetta:Valery Records Reperibilità:in commercio

 

In mezzo a quella gran carnevalata che fu il metal italiano negli anni 80 – di volta in volta ridicolo o patetico, comico o squallido – gli Elektradrive erano una cosa seria. Fu questa la loro tragedia. E “tragedia” non è una parola troppo grossa da usare in riferimento al destino di questa band, che sfornò almeno due album eccellenti, ‘Due’ e ‘Big City’, raccogliendo consensi dalla critica e recensioni entusiastiche perfino dall’acidissima stampa britannica. Il problema degli Elektradrive stava nel fatto che facevano ottima musica ma del genere sbagliato nel paese sbagliato. Se ne rendevano conto, ma sapevano anche di non poterci fare niente. Erano semplicemente nati lontano dalla loro patria ideale, gli USA. Avrebbero potuto tentare con qualche etichetta inglese, svedese o tedesca, e forse ci provarono anche, ma quante bands europee hanno fatto fortuna con il rock melodico, alla fine? Tentarono, è vero, la carta degli States: andarono a Los Angeles e riuscirono a suonare una sera al Roxy, e alla fine del concerto Billy Sheehan venne a fargli i complimenti. Non so cosa si aspettassero di ottenere in concreto da questa trasferta californiana, ma le pacche nella schiena dategli da Billy dovettero considerarle una ricompensa sufficiente, perché tutto finì lì, quella mitica sera al mitico Roxy Club di L.A., una cosa da raccontare a figli e nipoti. Erano puri e testardi, gli Elektradrive, di cantare in italiano (come facevano i non disprezzabili Sharks) non volevano saperne, tentare di far concorrenza a Vasco Rossi o alla Steve Rogers Band non era per loro, ma stupidi non lo erano per niente, sapevano di essere condannati allo status di cult heroes perché dell’AOR, in Italia, gli è sempre fregato pochissimo a tutti e le misere labels che pubblicavano i loro dischi era già tanto se riuscivano a spedirne qualche copia in Germania, i tempi dei Lacuna Coil erano ancora molto lontani. In un certo senso, non era colpa di nessuno, del pubblico nostrano che preferiva ascoltare le canzoni pop di Madonna o degli 883, di un’industria discografica indipendente timida e disorganizzata, degli Elektradrive, che avevano di se stessi e della propria musica una considerazione troppo alta per compromettersi con un mercato che pretendeva ben altra roba. L’ultima occasione venne dal Giappone, si parlò dell’interessamento di una label (la Brunette) e di un promoter nipponici a metà anni 90, ma tutto si risolse unicamente nella ristampa di ‘Due’ e ‘Big city’ per il mercato locale, poi più niente, gli Elektradrive erano svaniti, la più bella realtà dell’hard rock italiano dei Big 80s era passata nei libri di storia.

E invece, sorprendentemente, nell’Anno Domini 2008, gli Elektradrive sono di nuovo tra noi, con un bel disco che  – diciamolo subito – non ha molti punti di contatto con il vecchio materiale, ma da ‘Big City’ sono passati quindici anni, la loro non è certo una scelta modaiola, semplicemente questo è quanto la band vuole fare oggi, con quella classe, la competenza e lo stile che tanti (ma tanti davvero) non possono che invidiargli. In questo ‘Living 4’ hanno messo trent’anni di hard rock, mescolando abilmente AOR e nu metal, il prog e il modern melodic rock, detriti grunge stile Alice in Chains e melodie alla King’s X.

Evil empire” apre l’album con un intro d’atmosfera, poi esplode un riffone power metal che sfocia in un altro riff molto contemporaneo, secco, stoppato, su cui va ad adagiarsi il canto sempre classicamente melodico di Elio Maugeri, sprazzi di keys ed un assolo lento e fascinoso. “Feed the ground” è un altro riff pesantissimo, catacombale, che sfuma tra armonie acustiche, tornando nel coro per un’atmosfera arcana ed oscura. “What we still don’t know” è ancora un riff molto heavy fra tinte quasi bluesy. La title track (forse il momento più interessante del disco) ha un intro d’organo, poi si dipana su un riff geometrico, affilato, attorno a cui si avvolgono complessi impasti vocali di marca Queensryche che sfociano in un coro polifonico stagliato su un altro riff di chiara ascendenza U2, il finale è segnato dalle note cristalline della chitarra, le tastiere, vocals che si intrecciano… “Do it for everyone” è una ballad molto ben tessuta ed arrangiata, ma suona un po’ fredda, meglio va su “Pain” decisamente AOR, che ricorda le cose più soft degli Winger con un bell’assolo molto Gary Moore. “Get power from the sun” ripropone la contrapposizione tra un riff molto heavy ed un coro polifonico molto King’s X, nel finale c’è un diabolico intervento di flauto suonato nientemeno che da Mauro Pagani della PFM. “Dirty war of bloody angels” è un riff sfrigolante, un up tempo molto tradizionale e di gran classe, “W.Y.S.I.W.Y.G.” è il macigno del disco, un power metal con appena qualche accenno moderno. Ancora una suggestiva power ballad con “You are always on my mind”, su “The water diviner” spiccano particolarmente le tinte funky, più moderna “In a superficial way”, con il suo riff spezzato e le vocals intricate, mentre “Fake news” è un altro riff pachidermico, da vecchi Black Sabbath, che fa da preludio ad un’altra frase ritmica serrata e saltellante finché le due trame si uniscono come per magia nel coro, un assolo prima funky poi metal: notevole. E si chiude in bellezza con “Son of the universe” grande melodia elettroacustica, un po’ alla Unruly Child.

Forse un pizzico di tastiere in più avrebbe giovato, ma questo ‘Living 4’ non ha punti deboli: è suonato benissimo, prodotto con diligenza e gode di una qualità audio che tante bands, anche prestigiose, oggi pare non si vogliano più permettere. Forse i tempi sono maturi perché gli Elektradrive abbiano finalmente tutto quanto gli è stato sempre largamente dovuto.

 

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NICKELBACK

 

 

 

  • DARK HORSE (2008)

Etichetta:Roadrunner Reperibilità:in commercio

 

I Nickelback sono diventati, almeno per me,  un “caso”. Da una decina di anni sono la hard rock band (ma forse la rock band, in generale), che vende più di tutti negli USA. Hanno un seguito gigantesco, i loro tour sono sempre sold out… eppure, in Europa (fatte salve Regno Unito e Germania) li conoscono poco e male. ‘Dark horse’ sta inchiodato nella top ten di Billboard da quando è uscito, a novembre del  2008, non so quanti milioni di copie abbia già venduto tra Stati Uniti e Canada: da noi ha fatto una fuggevolissima comparsa nei quartieri bassi delle classifiche, poi è svanito. D’accordo, la promozione è stata sempre centrata sul Nordamerica, ma la stampa nostrana, cosa fa? È il nostro solito vizio, i giornalisti musicali guardano solo a quello che succede in Gran Bretagna, per loro il futuro del rock passa attraverso merdine come Radiohead, Coldplay, Franz Ferdinand, basta un gruppetto di inglesi o irlandesi sui vent’anni, dinoccolati e con il giusto corredo di vestiti alla moda, testa rapata e naso all’insù che intonano nenie sul filo della stonatura pestando sulle inevitabili Telecaster accordate alla buona per farli saltare dalle loro (comode) poltrone, per questa gente gli USA sono solo i videoclip di Madonna, le poppe di Mariah Carey, il gossip su Britney Spears, Rap, Black Music… Il rock americano? E che cos’è? Si, c’era un tizio con i basettoni, una volta, aspetta, come si chiamava?, Elvis qualcosa, sì, quello che faceva l’imitazione di Little Tony…

Okay, basta con i lazzi e le frecciate, passiamo alle cose serie, ovvero i Nickelback. Perché non solo per chi si occupa di rock in generale, ma anche per chi ama l’hard rock melodico i Nickelback sono ormai una cosa dannatamente seria. Li abbiamo osservati da lontano, facendo finta di niente, li abbiamo ascoltati magari pensando sempre cose del tipo: sì, sono bravi, ma… Cosa fosse quel “ma” era facile e difficile stabilirlo. Quel suono così duro eppure così accessibile nasceva da semi che non erano geneticamente imparentati con quanto noi amanti del melodic rock prediligiamo. La melodia prendeva un posto sempre più importante nel mosaico sonoro della band, ‘The long road’ è stato il primo gradino di una progressione inesorabile che ci ha portato oggi a questo stupefacente ‘Dark horse’, dove la band flirta apertamente con l’hard melodico usando come tramite uno di quei produttori che hanno aiutato a creare materialmente il genere, Robert John Mutt Lange, che a sessant’anni suonati esce dal letargo in cui da qualche tempo si era sprofondato e collabora con i Nickelback su alcune canzoni che potrebbero rappresentare un nuovo punto fermo nella storia del nostro genere. ‘Dark horse’ non sono sicuro si possa considerare un capodopera, mi pare piuttosto uno stadio, qualcosa che forse porterà ulteriori frutti nei prossimi anni, ma è un segnale importante, perché per la prima volta una band contemporanea di grande successo recupera un certo sound, riciclandolo a modo proprio, e ottenendo un risultato di enorme valore. ‘Dark horse’ è un disco di compromesso, un mosaico fatto di passato recente e novità, con i Nickelback che da un lato non rinunciano a quello che ormai possiamo definire il loro stile, dall’altro cercano una nuova dimensione, lontana da certe asprezze a cui c’avevano abituati. E a proposito dello stile dei Nickelback, per favore, finiamola di chiamarlo “post Grunge”, perché Chad Kroeger e compagni con la lamentosità di Nirvana ed Alice In Chains non hanno mai avuto niente a che vedere, il suono di questa band è sempre stato una filiazione più convulsa e melodica di quello dei Metallica del Black Album, Chad ha sempre cantato come un James Hatfield meno incazzato e più dolente, almeno fino a questo ‘Dark Horse’, dove in più di una circostanza il singer sceglie di esprimersi su linee melodiche di netta marca ottantiana. Non mancano qui schegge del loro sound più classico (“Just to get high”, arrabbiata ma meno acre e rumorosa del solito, “S.E.X.”), né quelle power ballads intense e con un fondo (talvolta ben più di un fondo, per la verità) di mestizia (“I’d come for you”, “Never gonna be alone”, con nette armonie Leppardiane, e non a caso, dato che questo è uno dei pezzi su cui ha messo mano Mutt Lange), ma il cammino verso una dimensione sempre più hard rocking la band non lo mimetizza, lo ostenta addirittura, sparando in apertura di “Dark horse” due perle, “Something in your mouth” e “Burn it to the ground”. La prima si potrebbe descrivere come i Ratt o i Def Leppard con le chitarre stoppate ed una ritmica quasi dance, la seconda procede sulla stessa falsariga, ma indicando quelli che potrebbero essere gli stilemi dell’arena rock nel prossimo futuro, da questo pezzo può ripartire la tradizione perduta dell’anthem… e occorre sottolineare che Mutt Lange firma con la band la prima canzone ma non la seconda, “Burn it to the ground” è tutta farina del sacco dei Nickelback, come quella meravigliosa ballad intitolata “If today was your last day”, semplice, lirica, intensa, che chissà per quale motivo è stata scartata all’ultimo minuto come primo singolo, preferendogli “Gotta be somebody”, che suona come un Bryan Adams più rude ed abrasivo. “Shakin’ hands” è un altro episodio che ha dello stupefacente (con lo zampino di Mutt Lange, stavolta), una formidabile scansione ritmica che porta ad un vero anthem dal flavour addirittura settantiano (vogliamo dire Kiss? Deep Purple?) ma marchiato in maniera inconfondibile dal canto cadenzato e ad un pelo dal rap di Chad Kroeger. E ancora la ritmica la fa da padrona su “Next go round”, con un riffeggiare che sembra appartenere ai Megadeth era ‘Peace sells…’ / ‘So far, so good…’ in cui si incunea un ritornello rockeggiante e leggero, mentre “This afternoon” chiude con un’atmosfera molto british, elettroacustica, scanzonata, di nuovo con qualcosa dei Def Leppard.

È troppo presto, lo ripeto, per dire a cosa porterà ‘Dark Horse’ (sempre che a qualcosa porti, naturalmente, e non si riveli solo un ramo secco), è inutile fare ipotesi e speculare. Ciò che conta è che qualcuno – finalmente! – ha gettato il sasso giusto nello stagno, recuperando certi elementi formali del genere che ci è caro e innestandoli con originalità su un telaio inedito, dandone un’interpretazione entusiasmante. È questo il futuro del rock melodico? Non ho la sfera di cristallo, ma mi sembra possibile e auspicabile che il futuro passi attraverso ‘Dark Horse’.