AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

WILDHORSES

 

 

  • BAREBACK (1991)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:scarsa

 

Dei produttori non si parlerà mai abbastanza bene; o mai abbastanza, in generale. Il ruolo da essi giocato nella musica rock e nell’hard rock in particolare, non è mai stato tanto evidente come nella nostra epoca, con le labels che mantengono vivo l’AOR  impossibilitate a pagare i loro cachet, e costrette ad affidare la produzione dei dischi agli stessi artisti. Con risultati, a voler essere clementi a tutti i costi, sconcertanti. Troppo spesso siamo costretti ad ascoltare lavori scoordinati, arruffati, privi di un filo conduttore o piatti come una sogliola. Non parlo di qualità audio, quella può garantirla anche un bravo ingegnere del suono, ma di tutto quel lavoro che a noi profani risulta di difficile decifrazione e che viene nella sua interezza denominato “produzione”. Forse, il paragone migliore che possiamo usare per descriverlo è quello con la regia cinematografica. Il produttore dirige, incanala, dice alla band cosa è buono e cosa fa schifo, taglia o aggiunge, e infine fonde tutto in un organismo coerente. La band suona, ma è il produttore che dà forma alle canzoni, e, più spesso di quanto ci potrebbe far piacere pensare, risulta il vero artefice di un capolavoro che in altre mani poteva rivelarsi semplicemente un buon disco. Naturalmente, un produttore non fa il disco da solo. Se la band non collabora, il produttore ha ben poco di buono su cui lavorare: proseguendo nella similitudine cinematografica, con un copione ignobile recitato da attori  che sono dei cani, neppure il migliore dei registi può tirare fuori un film da premio Oscar.

Si può essere “fan” di un produttore? Di certo, si può imparare ad apprezzarne il lavoro. Se mi ritrovavo dubbioso circa l’acquisto di un disco, andavo sempre a cercare il nome di chi era stato a produrlo, e se leggevo quelli di Beau Hill, Bob Rock, Bruce Fairnbairn, Richie Zito, Ron Nevison o Andy Johns, le incertezze svanivano. Se poi il nome era quello di Keith Olsen, le aspettative salivano alle stelle. Questo  non significa che abbia comprato, sempre ed a scatola chiusa, tutti i dischi prodotti da lui: ma, nel contesto giusto, la sua sola presenza, sapere che era stato lui a dirigere ed assemblare il tutto, mi dava quasi la certezza che il disco si sarebbe rivelato – almeno... – piacevole. Il mio interesse per l’album dei Wildhorses era stato focalizzato dalla presenza di due ex Kingdome Come nella line up, Rick Steier (che nei KC faceva il chitarrista ritmico, mentre qui suonava da solo tutte le parti di chitarra) e James Kottak (il batterista, uno dei migliori drummer in assoluto della scena hard rock). La speranza di ritrovare qualcosa della magnificienza Zeppeliniana dei Kingdome Come nei Wildhorses era stata prontamente cancellata dalla recensione letta su un noto magazine nazionale, che individuava quale punto di riferimento per la nuova band piuttosto gli Whitesnake metallici di ‘1987’. Dato che il gradimento del sottoscritto per la musica del serpens albus non è certo inferiore rispetto a quello per la band di Lenny Wolf, l’acquisto si poteva prospettare comunque, ma quello che convinse lo scrivente ad aprire il portafogli fu proprio il nome del produttore.

I Wildhorses nascevano per volontà di James Kottak, che s’era associato in principio con il suo vecchio amico Johnny Edwards, appena uscito dai King Kobra. Ma Johnny venne contattato dai Foreigner per prendere il posto di Lou Gramm su quel disco magnifico e sfortunato che fu ‘Unusual heat’, e James Kottak dovette cercare un nuovo cantante per la neonata band, trovandolo in John Levesque, singer di una oscura formazione di New York, gli Shout (non la band cristiana di Ken Tamplin). La band si completava con Chris Lester al basso, anche se nei credits figura come ospite Jeff Pilson, e dunque è lecito chiedersi quante tracce di basso siano state effettivamente suonate da Lester, che potrebbe essere stato aggregato ai ranghi solo a fine registrazioni. C’è poi un minuscolo e quasi insignificante cammeo alle tastiere di Darren Wharton, di passaggio a Los Angeles a quell’epoca per incidere il secondo album dei Dare, sempre sotto la guida di Keith Olsen e negli stessi studi di registrazione, i Goodnight L.A. (dove Keith produce quasi tutti i suoi dischi perché, semplicemente, sono di sua proprietà).

Bareback’ è, innanzitutto, un disco onesto. Mi spiego: questa band non era formata da fuoriclasse (fatta eccezione per James Kottak, che oggi è il batterista degli Scorpions), e quasi tutte le canzoni se le scriveva in proprio. Eppure riuscì comunque a sfornare un prodotto di grandissimo spessore. Come? Facendosi produrre da un grande produttore. Ripeto: è qui che sta la differenza con quanto si registra ai nostri giorni, ed è una differenza capitale. ‘Bareback’ è frutto del lavoro di bravi musicisti diretti da un formidabile produttore. Oggi possiamo avere solo i musicisti, e basta. A meno che i musicisti non abbiano anche del vero talento come produttori (e accade di rado) viene a mancare una variabile fondamentale nell’equazione, ed i risultati che ci rende in questo caso sono, come minimo, sballati. In questo disco, invece, funziona tutto, e senza un grande dispendio di sovrincisioni né l’apporto delle tastiere: basta il tocco magico di Keith Olsen. Il fatto poi che Keith sia stato anche tra gli artefici dei due capolavori americani della band di David Coverdale (‘1987’ lo produsse assieme a Mike Stone, mentre su ‘Slip of the tongue’ collaborò con Mike Clink), non deve essere estraneo alla strepitosa riuscita degli episodi più marcatamente Whitesnake - oriented: “Had enough of your love”, “Cool me down” (su cui aleggiano anche i fantasmi di Winger e Skid Row), “Matter of the heart” (che parte quasi come una alternate version di “Is this love” arricchendosi di sfumature Journey nel ritornello) e “Burning up” (un mid tempo anthemico piacevolmente sporcato di blues e rifinito da una slide guitar). Ma i Wildhorses non guardano solo in una direzione, così “Your love is junk” ha la forza d’urto dei Bulletboys in un contesto più melodico, “The river song” è una perfetta fusione Bon Jovy - Tesla, “Fire and water” ha un riff portante di scuola AC/DC su cui si stende una melodia maschia ed intensa in un bel clima root. Il riffeggiare di Rick Steier su “N.Y.C. heartbreaker” mi ricorda le cose dei Kingdome Come periodo ‘In your face’, ma senza sfacciati richiami Zeppeliniani su questo massiccio hard rock tipicamente yankee che si conclude con un bel drum solo di James Kottak. L’inno alcolico “Whiskey train” rotola via a ritmo di boogie (che classe...) mentre “Thougher than love” e “Days in the sun” sono scintillanti esercitazioni in tema di metal californiano, più anthemica la prima, più scanzonata la seconda. La chiusura è affidata ad una cover sorprendente, “Tell me something good”, un vecchio brano funky di Stevie Wonder (risale al 1974) che la band reinventa in versione hard rock in maniera addirittura geniale (in quello stesso 1991 venne coverizzato anche da Lee Aaron su 'Some girls do', ma in una chiave decisamente metal). Da rimarcare i piacevoli toni a-là Coverdale di John Levesque, un cantante che avrebbe davvero meritato miglior fortuna.

Recentemente è apparso ‘Dead ahead’, pubblicato dalla Z Records, una raccolta di  undici canzoni registrate non si sa quando, probabilmente un collage di pezzi che risalgono alle sessions di ‘Bareback  e qualche demo. Il fatto che su tutte queste canzoni sia accreditato al basso esclusivamente Jeff Pilson avvalora l’ipotesi che ‘Dead Ahead’ sia composto unicamente da materiale d’epoca, anche perché l’attività della band dopo l’uscita dell’album non risulta sia stata particolarmente intensa (credo non siano neppure andati mai in tour). Perché qualcuno si sia preso il disturbo di raschiare il fondo del barile di una band così poco ricordata e celebrata, è un interrogativo legittimo, sopratutto considerato che il materiale presente su ‘Dead Ahead’ è tutt’altro che memorabile, probabilmente tutta roba scartata e/o non ritenuta all’altezza di figurare su ‘Bareback’ e che oggi, in questi nostri, calamitosi tempi, viene edita come una primizia... e in confronto a tanta immondizia di fresca registrazione spacciata per oro puro, magari lo è...

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

MSG

 

 

  • MSG (1992)

Etichetta:Electrola/EMI Reperibilità:scarsa

 

Cosa c’era che non funzionava, nel McAuley Shenker Group? La stampa nostrana non lo ha mai amato, e la gran parte degli interventi su di esso parevano costruiti per metterlo in cattiva luce: di musica si parlava poco, più che altro si facevano commenti acidi riguardo la pettinatura esotica di Michael a base di hair extensions violacee e c’era sempre spazio per ricordare che McAuley aveva prestato la voce ai Far Corporation per una delle più indegne cover di “Stairway to heaven” mai incise. Il nuovo MSG pareva essere per i critici nostrani sopratutto questo. Quando qualcuno si degnava di ascoltare anche i dischi, era tutto un girare attorno alla solita questione del genere affrontato: che c’entra Michael Shenker con l’hard melodico ed il class metal? Dov’è finito il guitar hero che ci aveva deliziato prima con gli UFO e poi con il MSG vero, quando l’acronimo significava Michael Shenker Group? Perché si è venduto anche lui agli yankees? E via sacramentando. E’ una storia che ricorda vagamente quella dei Van Halen del prima e dopo Roth, con la differenza che Robin McAuley non era neppure un Sammy Hagar col suo bel pedigree lustro e luccicante... E anche quella degli Whitesnake, dato che il Michael Shenker Group andava forte in Europa e Giappone, ma non negli USA. Così, dopo aver risolto i problemi di tossicodipendenza che l’avevano tenuto fuori dal giro per quasi tre anni e sfasciato la band, Michael – pare con l’aiuto del fratello Rudy – si riorganizza e chiama come singer il bravo Robin, ex Grand Prix, i due ex Lionheart Steve Mann (chitarra) e Rocky Newton (basso) ed il suo connazionale Bodo Schopf alla batteria. Il nuovo MSG esordisce a sorpresa al Monsters of Rock tedesco e pubblica nel 1987 il primo dei suoi tre album di studio, ‘Perfect timing’, a cui seguono nel 1989 ‘Save yourself’ e nel 1992 questo ‘MSG’ (che vedeva all’opera una nuova sezione ritmica, formata da James Kottak e Jeff Pilson) , tutti dischi registrati negli USA, prodotti da gente di grido nel campo dell’hard rock che va per la maggiore: insomma, rivolti all’audience americana piuttosto che a quella europea. E’ chiaro che in chi non gradiva il genere, la nuova avventura del più giovane dei fratelli Shenker non poteva suscitare molti entusiasmi. Bisogna però riconoscere che il nuovo MSG, al di là di un paio di singoli che fruttarono buone vendite, non riuscì a far breccia nelle classifiche USA, galleggiando nel limbo delle bands da top 100 di Billboard, una palude da cui nessuno dei tre album riuscì a sollevarsi (‘Perfect timing’ toccò il numero 95, ‘Save yourself’ il 92, mentre ‘MSG’ non riuscì ad arrivare neppure fra i primi 100), tutto sommato con qualche ragione. In linea di massima, quello che mancava era un songwriting davvero incisivo. Michael Shenker era stato il prototipo del guitar hero fino all’ arrivo di Eddie Van Halen prima e Yngwie Malmsteen dopo. Un guitar hero che però ha sempre pensato in termini di canzoni piuttosto che di assoli, che non aveva l’abitudine di indulgere in esercizi di tecnica fini a se stessi. La conversione al melodic rock non appariva improponibile, ed era propiziata anche dal fatto che Michael per la prima volta lavorava con un singer all’altezza dopo i tempi in compagnia dell’anonimo Gary Barden e poi quelli – brevi e tormentatissimi – con Mister Carta Vetrata in persona, Graham Bonnet (uno che dopo più di trent’anni di carriera deve ancora imparare a cantare dal vivo). Purtroppo, il chitarrismo di Michael Shenker si rivelava su questi nuovi lavori solo il pallido fantasma di quello che aveva incantato ed entusiasmato sui suoi primi dischi. Michael era diventato all’improvviso un chitarrista qualunque,  di quella sintesi stupefacente di hard rock e stesure classicheggianti, tanto avvincente e spettacolare (che verrà estremizzata dal buon Yngwie e compagnia a metà anni ottanta, perdendo completamente di vista il perfetto equilibrio con la dimensione rock e la struttura-canzone che Michael invece sorvegliava attentamente, generando soltanto una messe di tediose riletture metal di partiture classiche che immagino avranno suscitato sinistri scricchiolii nei sepolcri che custodiscono le spoglie mortali di Bach e Mozart) rimaneva poco o nulla. Era dunque solo nel songwriting che la band poteva trovare una qualche distinzione, ma in questo comparto l’MSG si mosse con una colpevole irresolutezza. La neonata ditta Shenker - McAuley, difatti, non volle abbandonare del tutto l’hard rock melodico di più stretta matrice europea né adottare in pieno il sound nato sulle spiagge della California. Non si inseguiva la sintesi, piuttosto si tentava di infilare entrambi i piedi nella stessa scarpa, mancava una decisa impronta personale, la vera ispirazione, era il solito colpo dato al cerchio e alla botte, facciamo contenti gli yankees ma non facciamo imbestialire troppo i tedeschi... Questo genere di compromessi raramente fa centro, e nel caso dell’MSG produsse dischi tiepidi e indecisi, mai veramente brutti ma sicuramente non memorabili, dove  più che godere l’opera dal principio alla fine si doveva andare a caccia dell’episodio felice. Quest’ultimo album del sodalizio anglo germanico (a mio opinabile giudizio il migliore dei tre) non si discosta più di tanto dai suoi predecessori nel saltabeccare da una sponda all’altra dell’Atlantico. “Eve” apre l’album con un’atmosfera di netta marca Ratt, Robin McAuley pare quasi fare il verso a Stephen Percy, la parte finale della canzone è un palese omaggio al superclassico “Johnny B. Goode”, ma con “Paradise” ci ritroviamo di botto all’Oktoberfest, il clima tronfio è ammorbidito dall’interpretazione non sfacciatamente enfatica di Robin, ma resta comunque roba difficile da inghiottire, almeno per il sottoscritto... Molto meglio va “When I’m gone”, una power ballad con qualche tratto House Of Lords, scritta da McAuley assieme a Jesse Harms (che suona anche tutte le parti di tastiere del disco), poi “This broken heart” ricomincia a parlare tedesco, ma il brano non è spiacevole, più interessante si rivela però “We believe in love”, davvero ben bilanciata fra l’atmosfera americana ed un coro smaltato del miglior lirismo teutonico. Altro cambio di rotta con “Crazy”, siamo finiti all'improvviso in California, qui l’MSG sembra diventato i Kix o i Brinty Fox, canzone bella soda e martellante, ma “Invincible” è addirittura imbarazzante, sarebbe una notevole scheggia di street metal se non fosse per metà identica alla “Welcome to the jungle” dei Guns N’ Roses... è un furto così sfacciato che, passata la sorpresa, ci si chiede che accidente sia passato per la testa di Michael e Robin (e di Kevin Beamish, che ha prodotto il disco e dunque ha dato l’OK a questa plateale operazione di ricalco). Facciamo finta di niente e passiamo a “What happens to me”: il titolo potrebbe far pensare ad una sorta di stupita giustificazione della canzone precedente, cosa mi è successo?, cosa ho fatto?, che ci fa questo disco dei Guns N’ Roses nel mio stereo?, invece (battute maligne a parte) si tratta di una bella power ballad, forse la cosa più vicina alle vecchie cose del MSG. “Lonely nights” è formidabile, un grande metal da spiaggia, mentre “This night is gonna last forever”, si rivela un incantevole hard melodico dai suadenti tocchi pomp. Conclude “Nightmare”, pregevolissima ballad acustica.

Tirando le somme: non si tratta certo di un disco da gettare dalla finestra, tutt’altro, ma la scarsa simpatia che il progetto MSG raccolse trovava sicuramente una sia pur parziale giustificazione nella realtà dei fatti, con canzoni che a volte sono bellissime, altre si rivelano solo esercizi competenti ma freddi, altre ancora discutibili tentativi di conquistare i favori di un certo tipo di pubblico. Restano comunque, questi tre album, episodi di discreta importanza storica, dato che tutto il movimento hard rock germanico si è largamente ispirato ad essi, e una buona fetta delle band tedesche di melodic rock se li tiene sempre sotto il cuscino (e i risultati li conosciamo).

Dopo essersi separato da McAuley, Michael Shenker prima mediterà il ritiro dalle scene, poi ritornerà al solito monicker che da anni è più che mai Michael Shenker Group, per una sequela di album all’insegna di uno sperimentalismo davvero poco digeribile.

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

MAGNUM

 

 

  • GOODNIGHT L.A. (1990)

Etichetta:Polydor Reperibilità:scarsa

 

Per una volta, lasciamo la parola al produttore. ‘Goodnight L.A.’ venne prodotto da Keith Olsen e quando Keith venne intervistato da Andrew McNiece di Melodicrock.com, si parlò anche di questo disco. Andrew chiese come mai su ‘Goodnight L.A.’ e ‘Blood from Stone’ dei Dare il suono della chitarra fosse così poco definito e la risposta fu questa (la traduzione è mia): “ Si trattava di progetti a budget molto basso, e con pochissimo tempo per realizzarli. E, insomma, bisognava correre. Con quei due album in particolare, ci trovammo nella classica situazione in cui non puoi perdere tempo in fronzoli, devi tirare dritto su ogni cosa. Io li chiamo marginal records deals.(...) Succede quando vuoi venire a registrare in America, e devi viaggiare per 6000 miglia, e le spese sono alte, ci sono i trasporti aerei, tutto l’equipaggiamento e la roba che devi portarti appresso e succede che ti resta pochissimo per il disco, andare in studio e cercare di incidere e concludere tutto in sei settimane. E finisce che tu fai cose che... non sono particolarmente originali, perché non c’è abbastanza tempo oppure abbastanza soldi per provare a trovarne di meno ordinarie. Quei due dischi vennero registrati più o meno nello stesso spazio di tempo: non ce n’era a sufficienza per farne qualcosa di diverso”.

Tutto ciò rende chiaro perché questo disco suoni in maniera così blanda, con i Magnum che in più di una circostanza sembrano diventati una strana mistura di Survivor ed Eddie Money all’acqua di rose. Quello che non è chiaro, è il motivo che condusse i Magnum a questo marginal record deal, ad una scelta di campo comprensibile solo in parte. E’ vero che l’AOR andava forte, ma non in Europa. E la Polydor non aveva alcuna intenzione di spingere la band sul mercato che contava per il rock melodico, ossia gli USA ed il Giappone. Tony Clarkin, all’epoca, dichiarò che registrare in America e lavorare con Keith Olsen fu una scelta fortissimamente voluta dalla band. Va bene: ma per ottenere cosa? Finito il disco se ne tornarono subito in Gran Bretagna. Volevano sfondare in UK con l’AOR? Non ha senso. E aveva ancora meno senso continuare su questa strada dopo il licenziamento da parte della Polygram. Eppure, i Magnum, fino al loro scioglimento hanno proposto AOR di discreta fattura. Basta con il pomp medievaleggiante e via con il con il rock melodico, almeno fino al recente rientro. Dato poi che nessuno voleva più filarseli, Tony Clarkin sciolse la band e assieme a Bob Catley intraprese con gli Hard Rain un discorso ancora più nettamente AOR. L’unica risposta a tutti questi interrogativi è la più semplice e – immagino – la più imbarazzante per i vecchi fans: i Magnum s’erano stufati di fare gli storyteller, il medioevo gli era venuto a nausea. E allora, via con il rock melodico... Peccato che l’ingresso ufficiale in questa arena (dopo i neanche tanto timidi segnali lanciati in questa direzione su ‘Wings of heaven’) sia avvenuto troppo tardi e maldestramente, con un disco registrato in fretta e furia che negli USA forse non è stato neppure distribuito. Non un brutto disco, ma di sicuro un prodotto non all’altezza della concorrenza yankee e canadese, nonostante il contributo al songwriting di Russ Ballard e Jim Vallance. Arrangiamenti troppo lineari: le canzoni cominciano e finiscono senza uno scossone, non c’è un bridge degno di questo nome, e gli assoli sono sempre brevi e poco efficaci. La grande voce di Bob Catley tiene a galla tutto, alcune canzoni spiccano, ma resta comunque una sensazione come di incompletezza che trova ampia giustificazione nelle parole di Keith Olsen: si doveva correre, non c’era tempo da perdere, un mese e mezzo per fare il disco e poi i soldi sarebbero finiti. Tra i momenti più riusciti, l’iniziale “Rocking chair”, che si divide tra un basso dal pulsare danzereccio ed un riff funkeggiante, ricordando le cose migliori di Eddy Money; “Mama”, che dopo un intro acustico si risolve in un piacevole hard rock dai toni zeppeliniani e molto anni 70; “What kind of love is this”, dominata dal synth-bass, un pezzo d’atmosfera ma robusto e con un bel feeling anthemico; la molto Survivor inspiredShoot”; “Heartbroke and busted”, in bilico tra passato e presente (un presente molto Bryan Adams) con un refrain fresco e anthemico; la conclusiva “Born to be king”, solenne ed epica nelle migliori tradizioni della band, con un arrangiamento movimentato ed un finale veloce e Purpleiano. Il resto non è da buttare via, ma soffre dei difetti già osservati. “Only a memory” sono i vecchi Magnum, pomp e grandiosi, bella la linea melodica, ma la canzone va avanti come una marcia, cadenzata e regolare, aspetti che succeda qualcosa ma non succede praticamente niente, “Reckless man” sembra prelevata dal songbook dei Survivor ma è interpretata in una chiave seriosa e greve, “Matter of survival” vira negli spazi aerei del più puro AOR, c’è anche un bell’assolo di sax ma finisce per sembrare fredda come un ghiacciolo. La drammatica “No way out” e la power ballad “Cry for you” completano un disco nient’affatto malvagio ma che ha il sapore sciapo di un’occasione sprecata.