AORARCHIVIA

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JOURNEY

 

 

  • ESCAPE (1981)

  • FRONTIERS (1983)

  • RAISED ON RADIO (1986)

Etichetta:CBS

Ristampe:Legacy/Sony

Reperibilità:in commercio

 

Stavolta cominciamo dal principio.

Nella Bibbia dell’AOR, i Journey sono il Libro della Genesi. Fiat Lux... Il 1981 è il nostro momento zero, ‘Escape’ l’attimo in cui esplose la luce fatale. Per un po’ ci godemmo le delizie del Giardino dell’Eden, e poi su un certo albero si arrampicò un serpente giunto da Seattle, cantando di un illusorio Nirvana... tanto illusorio, falso e ridicolo che il serpente finì intossicato dal proprio stesso veleno. Ma era troppo tardi, il Giardino era già stato spogliato e devastato, e noi lontani, e la luce ridotta solo ad un barlume fioco.

C’è chi si contenta di questo lucore malaticcio, di questo brancolare fra le ombre. Di razzolare tra replicanti mangiacrauti che vent’anni fa venivano correttamente considerati rincalzi di seconda o terza linea ed oggi fanno i galletti soltanto perché non c’è nessun altro a cantare nel pollaio, ed operine balbettanti registrate tra il soggiorno e la cucina da reduci pesti ed ammaccati di quegli anni gloriosi che s’affannano ad ammucchiare dischi su dischi per pagarsi almeno l’affitto e tre pasti al giorno con la misera percentuale che gli spetta sul migliaio di copie che poche etichette volenterose riescono a piazzare su un mercato incerto e rachitico.

Io non posso. Io ricordo.

 

Da dove cominciamo? Dai Santana? Lì si incontrarono Neal Schon e Gregg Rolie (anzi, fu Gregg a portare Neal nei Santana, dopo averlo visto suonare in un club, e si mormora che Eric Clapton si dannò l’anima per tentare di strapparlo - senza riuscirci, ovviamente - alla neonata band del chitarrista messicano). I Santana collassarono per gli eccessi del loro leader e Neal e Gregg si ritrovarono a piedi, e il loro manager Herbie Herbert pensò che il tempo fosse maturo per organizzare una band nuova di zecca, mettendo i due in contatto con Ross Valory, bassista della Steve Miller Band. La line up che entrò in studio per registrare quello che avrebbe dovuto essere il primo disco era completata da un altro chitarrista, George Tickner, e dal drummer Prairie Prince, ma quanto inciso da questa formazione non è mai stato pubblicato (perché? Quien sabe?). Prince se ne andò e al suo posto venne arruolato Aynsley Dumbar, ex Mother Of Invention (la backing band del genio Frank Zappa) e poi titolare di una propria band gli Aynsley Dumbar’s Retaliation (i loro due album sono stati ristampati diversi anni fa). E finalmente, nel 1975, i Journey (scartato - fortunatamente... - il primitivo monicker  di The Golden Gate Rhythm Section) esordiscono con l’album omonimo, un lavoro quasi tutto strumentale, tra westcoast, folk e prog, molto lontano da quanto sarebbe venuto dopo. Le cose non cambiarono né su ‘Look into the future’ (1976) né su ‘Next’(1977), anche se su quest’ultimo album il sound della band cominciava ad irrobustirsi. Tickner salutò, lasciando Neal padrone assoluto delle chitarre, e dopo la breve parentesi del tour con Robert Fleishman (che a tutt’oggi vivacchia su quella temporanea collaborazione, e dovunque appaia ci tiene sempre a qualificarsi come “ex-Journey vocalist”: probabilmente se l’è fatto anche tatuare sulla fronte), entrò nella band Steve Perry per occuparsi di quelle parti vocali che erano gestite (molto bene, per la verità) da Gregg Rolie. Steve Perry aveva cominciato come batterista, girovagando con poca fortuna tra band minori, l’ultima erano stati gli sfortunati Alien Project, sciolta anche questa aveva meditato addirittura di ritirarsi dal music business e meno male che era arrivata l’offerta dei Journey, con il suo ingresso formalizzato dopo un giro di concerti come supporto per gli EL&P.

Infinity’ è il primo giro di boa, un milione di copie vendute, da quel momento è un’ascesa inarrestabile, prima ‘Evolution’ (1979) poi ‘Departure’ (1980) e il doppio live ‘Captured’. Frattanto, Dumbar aveva lasciato il posto all’ex-Montrose Steve Smith (ritroveremo Aynsley prima nei Jefferson Starship e poi negli Whitesnake), e anche Gregg Rolie se n’era andato via, amichevolmente, suggerendo lui stesso a Neal il nome del possibile successore: il tastierista di una band che aveva riscosso notevole successo con un paio di singoli, i Babys, un certo Jonathan Cain...

 

E arriviamo infine al 1981, ad ‘Escape’. La Fuga. Verso un futuro che la band forgia con le proprie mani, aiutata dal solito Kevin Elson e da un nome nuovo tra i produttori, un tale Mike Stone...

Lo scarabeo (o quello che cavolo è) che la band ha scelto come proprio leitmotif iconografico diventa un’astronave che spacca una sfera mandandola in frantumi. Quella sfera sono gli anni ’70, e il balzo in avanti è talmente poderoso che per il nuovo materiale si deve trovare un’altrettanto nuova etichetta. E’ nato l’AOR, il rock per gli over 18. Nel giro di un anno il nuovo genere si definisce attraverso le opere di artisti vecchi e nuovi, i Foreigner e i Toto di ‘IV’, il Bryan Adams di ‘Reckless’, i Survivor di ‘Eye of the tiger’, gli esordi di Aldo Nova e Loverboy... Ma la caratura di ‘Escape’ è tale da situare l’opera su un piedistallo che sovrasta largamente le prove di tutti i colleghi. Mike Stone e Kevin Elson fanno piazza pulita del vecchio suono della band, dando alle nuove canzoni un impatto tecnologico che all’epoca dovette sembrare strabiliante e ancora oggi, dopo la bellezza di un quarto di secolo (!!!) si mantiene di una freschezza ed un’attualità forse senza pari.  Le idiote teorie punk sull’immediatezza ed il low-fi (che, a pensarci bene, non sono poi tanto distanti dal pestifero agire del cantautorato nostrano, ben esemplificato da Teddy Reno il quale, in una canzone sussurrata nel film “Totò, Peppino e la malafemmina”, sosteneva che tutto quello che occorre per fare grande musica sono na voce, na chitarra e o ppoc’ e luna...) venivano spazzate via da un sofisticato melange di sonorità ricche e potenti, mai fini a se stesse ma calibrate ad arte per illuminare i nuovi spazi sonori in cui la band si avventurava con talentuosa sicurezza. Il confronto con quanto inciso su ‘Departure’ appena un anno prima non può che stupire, il modo in cui la band si reinventa ha del miracoloso, dieci canzoni che diventano istantaneamente altrettanti standard, libri di testo da consultare, da cui (sopratutto) copiare e ricalcare. Con ‘Escape’, l’hard rock diventa una volta per tutte melodico, ma rimanendo sempre hard rock. Perché questo non è affatto un disco moscio, pop, di ballad ce ne sono soltanto due, “Still they ride”, che ha qualche accento power, e “Who’s crying now”: preferire l’una all’altra è come sostenere che Nicole Kidman è più sexy di Charlize Theron o viceversa, eppure sembra che i fans si scannino volentieri su queste due canzoni, dividendosi in maniera abbastanza netta tra chi preferisce l’una all’altra. Io pendo per “Who’s crying now”, la frase melodica del piano di Jonathan Cain contrappuntata dal basso è pura magia, la misura di questo pezzo è così esemplare e straordinaria che a tutt’oggi nessuno ha osato confrontarcisi tentando di rubare quelle poche note così sapientemente modulate (ma debbo attenuare la perentorietà di quel nessuno, dato che ricordo almeno due furti: uno da parte dei Ten - chi altri? - su "Someday", l'altro fatto dai Marillion, per "Kayleigh"). “Still they ride” è più sognante e nel contempo ha qualcosa di epico, solenne, glorioso. Preferire l’una o l’altra è questione solo di gusti personali, tutto il resto sono scemenze (e comunque, io, tra Nicole e Charlize, non sceglierei: le arrafferei al volo entrambe). Delle altre nove canzoni c’è poco da dire salvo per il fatto che, come già detto, sono nove standard, e se nel rock vigesse lo stesso modus operandi del jazz, non ci sarebbe disco di AOR senza una versione di qualcuna di esse. Naturalmente, questi undici pezzi li abbiamo riascoltati tante e tante volte sotto falso nome, in tutto o in parte, al punto che un novello adepto della fede che, dopo aver frequentato lungamente le opere di epigoni vecchi e nuovi, si ponesse (finalmente) all’ascolto della band originale, potrebbe quasi restare deluso, chiedersi se i Journey sono tutto qui... almeno fino al momento in cui non ricordasse che la data sul disco è “1981”... e poi, focalizzasse la propria attenzione su quello che resta un particolare unico e - ad oggi - inimitabile di questa band: la voce del suo cantante. Definire unica la vocalità di Steve Perry (lo Steve Perry degli anni ’80, non la sua versione rauca dei nostri poveri giorni) è assolutamente corretto: quello che più gli era vicino per qualità è stato Michael Matjievic degli Steelheart, ma solo sul piano squisitamente tecnico: la stupefacente estensione (che Matjievic forzava nella dimensione più metallica ed aggressiva della propria band), la padronanza, l’espressività. Ma le similitudini si fermano lì. Steve Perry era capace di impeccabili acuti violinacei eppure la sua voce aveva una pastosità ed una morbidezza da cantante jazz, una confidenzialità da piano bar senza mai cadere nello stucchevole (nello stucchevole ci finirà però quindici anni dopo, quando, a corto di fiato, trasformerà tutte le ballad di ‘Trial by fire’ in roba degna del nostro - simpatico, comunque - Fred Bongusto), e questo persino nei pezzi più tosti e veloci: sul blues di “Lay it down”, sul rhythm and blues di “Dead or alive”, sui tempi serrati di “Keep on runnin’ ”, nella cavalcata dal retrogusto prog di “Escape”. E’ la sua voce che dà il pathos e sottolinea la grandiosità di “Mother, father”, che rende “Stone in love” una perfetta scheggia di hard rock melodico, eccetera eccetera. (Con questa band si rischia sempre di ridurre ogni discorso ad una sfilza di superlativi, ma è veramente difficile rimanere sobri e distaccati quando si discetta degli déi dell’AOR...). Consumati gli elogi di Mr. Perry, non si può non fare quelli di Jonathan Cain. Il nuovo arrivato è subito diventato protagonista nel songwriting, tutte le canzoni portano la sua firma, ed anche il suo modo di suonare stacca una volta per tutte la band dall’atmosfera seventies, i vecchi sintetizzatori analogici spariscono, niente organo Hammond e Moog, col loro suono fascinoso ma datato, soltanto pianoforte e Wurlitzer, e archi per la conclusiva “Open arms”.

Per quanto riguarda Neal Schon... Di lui si può dire solo che è un mostro ed un enigma. Un mostro di bravura, e camaleontico come pochi o forse nessuno. Riesce quasi difficile credere che è lo stesso uomo quello che sfiora la chitarra su ‘Late nite’ (forse il migliore dei suoi album solisti) tratteggiando quadri languidi e notturni, e poi su ‘Through the fire’ massacra le corde del suo strumento esplodendo come un vulcano. Pensi di aver individuato il suo modo di suonare, credi di riconoscere la sua identità quanto meno nelle timbriche cristalline o affilate della sua Paul Reed Smith... e lui se ne esce con un lavoro come ‘Piranha blues’: rauco, abrasivo, fumoso, sporco in una maniera deliziosamente indecente, roba che sembra registrata su un quattro piste con le testine consumate nel retro di un fetido bar in Louisiana (ne riparleremo nella sede più adeguata dell’Hard Blues Department). Ascoltate l’assolo di “Who’s crying now”: timbrica chiara, non una nota più del dovuto; poi saltate a “Lay it down”, quegli accordi blueseggianti che aprono sfrigolando la canzone. E’ lo stesso uomo a suonarli? Sì! E la qualità veramente miracolosa di Neal è la assoluta convinzione che mette in ogni singola nota: nulla è mai forzato. Come un grande attore, Neal Schon muta pelle con grazia e bravura sublimi, passando da un ruolo all’altro senza imbarazzo, con semplicità ed una spontaneità assolute. Chiedersi qual’è il Neal Schon “vero” probabilmente è come interrogarsi sul sesso degli angeli.

Escape’ album lavorato allo spasimo, iperprodotto, ogni nota suonata e risuonata fino alla nausea, ogni ritmo controllato col metronomo? Macché! Venne registrato in appena sei settimane. Jonathan Cain ha dichiarato poco tempo fa che Steve Perry  incise le parti vocali di “Mother, father” in appena due riprese, e in studio tutto fluiva liscio, senza intoppi. “Open arms”, Jonathan l’aveva scritta ai tempi dei Babys, andò a casa di Steve Perry e gliela suonò sul piano Wurlitzer, Steve se ne innamorò subito e quel pomeriggio stesso scrissero assieme il testo, e la canzone era pronta, bella che finita. Ognuna delle undici tessere che compongono il mosaico di ‘Escape’ è la testimonianza di uno stato di grazia, che travalica il mestiere, la tecnica e la malizia. E non si può che credergli, quando Jonathan Cain dichiarava: “ Tante volte, mentre suonavo assieme agli altri, mi sentivo come se fossimo da qualche altra parte, nel cielo di Berkley, volando...”.

 

Con ‘Escape’, i Journey raggiunsero per la prima volta il numero uno della classifica di Billboard, e tra un tour assieme ai Rolling Stones (venivano presentati non come supporter ma nel ruolo di “special guest”), spettacoli da headliners (furono i primi in assoluto ad usare degli schermi giganti durante gli shows), progetti paralleli, ci vollero due anni per sfornare un nuovo LP. ‘Frontiers’ si fermò al numero 2 di Billboard, ma lo tenne per la bellezza di nove settimane mentre la vetta era presidiata saldamente da Michael Jackson con ‘Thriller’, l’album più venduto della storia della musica pop.

Frontiers’ ebbe una gestazione travagliata dal nuovo fronte su cui i Journey lavoravano, quello delle colonne sonore. Già “Open arms” era finita nella soudtrack del cartoon “Heavy Metal”, poi altri due pezzi vennero destinati a quella di “Tron”. Hollywood chiedeva di continuo canzoni ai Journey, e così due brani destinati a ‘Frontiers’ vennero prelevati per le soundtracks dei film “Visionquest” e “Two of a kind”, “Only the young” e “Ask the lonely”. E dato che Hollywood paga salato ogni canzone e vuole rientrare delle spese vendendo su disco le colonne sonore dei suoi film, questi due pezzi dovettero venir esclusi dalla scaletta, e si potevano ascoltare solo acquistando le soundtracks dei film citati. Ma dopo tredici anni, “Only the young” e “Ask the lonely”, tornano - diciamo così - nella loro legittima casa, dato che nella recentissima ristampa del disco vengono proposte  (assieme a “Liberty” e “Only solution”) come bonus tracks. E la ristampa è anche il casus belli di questa recensione, dato che il webmaster si è deciso a mandare in pensione la sua copia in vinile di ‘Frontiers’ - che ormai è un graffio unico - cogliendo la scusa dell’inclusione di quelle due canzoni nella nuova edizione rimasterizzata. La qualità audio di questo CD è davvero fenomenale: già avevo sperimentato con le riedizioni di ‘Slippery when wet’ e ‘New Jersey’ dei Bon Jovy gli effetti quasi miracolosi che può avere un remastering fatto come si deve, ma la pulizia  e la  ricchezza del suono di questo CD lasciano quasi sbalorditi.

Some day / Love will find you... Qualcuno si ricorda del videoclip di “Separate ways”? Facevano finta di suonare muovendo le mani nell’aria, ed era veramente strano vedere Neal alle prese anche lui con l’air guitar... Dopo “Who’s crying now”, “Separate ways” è la mia canzone di sempre dei Journey, la canzone che vorrei avere con me, a portata di mano, per farla ascoltare a chi mi chiede che cavolo è questo AOR e sopratutto cos’ha di tanto speciale. Show, don’t tell! cantavano i Rush, ed eccovi una canzone che può racchiudere in sé meglio di ogni altra il senso dell’Adult (non “album”, Cristo!) Oriented Rock, inutile perdere tempo in chiacchiere, ascoltate e basta.

Send her my love” è un altro punto di riferimento assoluto tra le ballad, sognante, quasi eterea, attraversata dalla chitarra di Neal come una trama dorata. E via di questo passo... Altri dieci standard, stracopiati in tutto o in parte da un paio di generazioni di seguaci di un suono che in questo disco la band mette definitivamente a fuoco, con timbriche ancora più luccicanti e cromate, una produzione più raffinata e multilayered, che non si nega la fisicità nel funk addirittura abrasivo di “Back talk”, e le reminiscenze prog (“Troubled child”, con un ritornello molto Yes e Steve che pare quasi fare il verso a Jon Anderson, e la title track).

Tra un lunghissimo tour (otto mesi tra USA e Giappone, nel booklet del CD sono riportate le date una per una) e i progetti individuali, per avere un nuovo album ci vollero tre anni, stavolta. E ‘Raised on radio’ non ripagò certamente la lunga attesa. Nel 1984, Steve Perry aveva pubblicato il suo primo disco solista, ‘Street talk’, e l’album era andato così bene che la CBS mise praticamente i Journey nelle sue mani, esautorando gli altri. Steve prese tutta la responsabilità della produzione, emarginò Neal Schon, fece licenziare Ross Valory e Steve Smith (e l’influenza di Perry sulla label era diventata tale che neppure Herbie Herbert poté opporsi) e riuscì persino ad inimicarsi il fedelissimo Jonathan Cain. Le parti di basso e batteria furono affidate a vari session men, tra cui spiccavano Randy Jackson al basso e Larry Lodin alla batteria (Steve Smith riuscì a suonare su due canzoni prima di venire buttato fuori). Perfino sul titolo dell’album, Steve trovò da ridire, cambiandolo contro il parere degli altri dall’originale ‘Freedom’ in ‘Raised on radio’.

Il peggio che si può dire di ‘Raised...’, comunque, è che rappresenta soltanto una continuazione di ‘Street talk’. Questi, insomma, non sono più i Journey, ma Steve Perry con i Journey (o quel che ne resta) che suonano dietro di lui. Almeno quando Steve gli permette di suonare. Dov’è finito Neal Schon? Lo sentiamo distintamente sulla title track, su “Be good to yourself”, su “I’ll be allright without you” e poi? In “Positive touch” l’assolo è delegato ad un sassofonista... Hai in studio Neal Schon e chiami un sassofonista per fare un assolo?! ‘Raised on radio’ è un disco che può interessare davvero solo chi apprezza le frange più soft dell’AOR, quelle che sconfinano nel pop. Il songwriting è buono, ma, ripeto, questi non sono più i Journey, ma la Steve Perry Band. Steve - come era successo o succederà a Freddy Mercury, Michael Bolton, Jimmy Barnes - cade vittima della Sindrome della Grande Voce: non vuole più essere parte di qualcosa, un elemento (sia pur importante) di una certa alchimia sonora, desidera solo un minimo tappeto strumentale, uno sfondo discreto e poco appariscente contro cui la propria vocalità possa spiccare in tutta la sua magnificenza. E, naturalmente, questo gioco poco doveva piacere a Neal Schon e Jonathan Cain; così, nonostante le vendite tutto sommato buone (‘Raised on radio’ arrivò al numero 4 della classifica di Billboard), la svolta pop finì per ammazzare i Journey; e proprio, ironia della sorte, nell’anno in cui l’hard rock melodico più metallico conquistava grazie ai Bon Jovy i favori del grande pubblico.

 

Le strade degli ex compagni si sono incrociate spesso e volentieri, tra band parallele e carriere soliste più o meno luminose. Tra le cose più belle, ricordiamo, ovviamente, i supremi Bad English, dove Neal e Jonathan si alleavano ad un altro singer straordinario, John Waite; e poi il progetto H.S.A.S., con Neal Schon che assieme al vecchio compagno dei Santana Michael Shrieve, il grande Sammy Hagar e Kenny Aaronson dava un saggio esemplare di infuocato hard rock americano (un solo album, ‘Through the fire’, registrato dal vivo ma ampiamente ritoccato in studio); gli Storm, che vedevano Ross Valory e Steve Smith riunirsi a Gregg Rolie ed al Perry-clone Kevin Chalfant.

A metà anni 90, proprio Steve Perry (il quale onestamente ammise di essere stato causa e motivo della fine della band) ricontattò tramite John Kalodner (definito con grande acutezza da Steve “l’Henry Kissinger del rock”) Jonathan Cain prima e Neal poi per rimettere assieme i Journey. La reunion del ’96 produsse un disco che personalmente ho trovato deprimente, e tutto ciò che penso di ‘Trial by fire’ lo potete leggere seguendo il link. Dopo è subentrato Steve Augeri, e sono venuti due buoni album, che in Europa sono pubblicati dalla Frontiers. E se qualcuno avesse detto a Neal e soci che venticinque anni dopo ‘Escape’, i Journey avrebbero raccolto la fiducia solo di una minuscola e coraggiosa label italiana per proseguire il proprio, quasi sempre impeccabile cammino... C’è sicuramente molto di paradossale, di strampalato nelle vicende discografiche odierne dell’AOR, genere americano per antonomasia che le labels americane non vogliono più pubblicare nel proprio paese, lasciando il testimone a etichette tedesche, svedesi, italiane, giapponesi. Sarebbe - fatte le debite proporzioni - come se le case discografiche italiane, di colpo, decidessero che il cantautorato, dopo i fasti degli anni ’70 e ’80, non rende più a sufficienza, e lasciasse a terra Baglioni, De Gregori, Dalla, eccetera, e questi trovassero asilo presso qualche label americana, ma senza distribuzione in Italia, che si adattasse a vendere qualche copia dei loro album solo in Nebraska o nel New Mexico a pochi consumatori originali. Immaginate un cowboy texano che sorveglia le sue mandrie in groppa ad un cavallo ascoltando “Questo piccolo grande amore”. Oppure una Cadillac anni ’50 lanciata su una di quelle highway che corrono dritte come raggi di luce fino ad un orizzonte lontanissimo tra praterie che sembrano oceani d’erba mentre dalle casse dell’autoradio esce la voce di Paolo Conte che brontola “Genova per noi”. Fa ridere, vero? Come i Journey ascoltati ormai solo a Berlino o a Stoccolma, magari...

Perché accade tutto questo? Perché il nostro genere manca di prestigio. Perché la critica ufficiale ci snobba. Sull’ultima guida alla musica rock di Rolling Stones, i dischi dei Journey hanno una media voto di due punti e mezzo su un massimo di cinque. E poco importa che ormai il totale delle vendite globali della band abbia superato i cento milioni (!!) di dischi in tutto il mondo e che Hollywood gli abbia regalato una stella sulla Walk of Fame di Los Angeles. Eppure, queste ristampe non vengono proposte da una piccola etichetta specializzata come la Rock Candy o la Cherry Red, ma dalla Sony, che ha ripubblicato rimasterizzandolo tutto il catalogo dei Journey e c’ha aggiunto due DVD: un live del 1981 ed una raccolta di 18 videoclip. Insomma: i dischi vecchi (e neanche poi tanto, dato che ‘Trial by fire’ è del 1996) sì, ed il materiale recente no. Perché? Forse che tutti quelli che compreranno queste ristampe sono vecchi nostalgici? E’ questo che la Sony pensa? E valeva poi la pena di darsi tanto da fare per un pugno di quarantenni sconsolati: il remastering, le bonus tracks, la nuova grafica dei booklet... ? C’è una sfasatura, in tutto questo, così evidente e plateale da rasentare il grottesco. Dov’è il maledetto senso? Perché l’industria musicale si fa in quattro per vendere i Coldplay o i Muse e non dà neppure un misero contratto di distribuzione ai Journey? Ai posteri...

 

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ALEXA

 

 

  • ALEXA (1989)

Etichetta:Savage

Ristampa:MTM Classix

Reperibilità:in commercio

 

La versione femminile di Joe Cocker... è così che Paul Sabu definisce nel booklet di questa ristampa la sua protetta Alexa Anastasia. E’ la verità?  Assolutamente sì. Potremmo anche paragonare la voce di Alexa a quella di Tina Turner, una Tina Turner meno acuta e molto più rasposa. O una Lee Aaron al testosterone. Fate voi. Se amate le voci femminili flautate ed acute, se per voi esiste solo l’ugola da usignolo d’acciaio di Ann Wilson, statene lontani. Vi dico solo che nella track d’apertura, “I can’t shake you”, è facile prendere questa voce per quella di un formidabile cantante di sesso maschile. A chi scrive, da sempre innamorato delle voci rauche ed impastate, va benissimo così.

Alexa Anastasia... L’aveva scoperta proprio lui, il grande Paul Sabu. Il suo unico album era praticamente un’estensione del progetto Only Child, con Paul a produrre e suonare la chitarra, ed il key player degli OC Tommy Rude alle tastiere. Tutte le canzoni salvo una portavano la firma di Paul Sabu ed altri songwriters (fra cui Joe Lyn Turner). Fin qui, tutto bene. Ma, come ho già sottolineato nella recensione del primo Only Child, gli agganci di Paul Sabu non arrivavano fino alle majors. Questo disco uscì per la piccola indipendente Savage, e si candidava autorevolmente alla partecipazione come ospite d’onore ad un’ipotetica puntata speciale di “Chi l’ha visto?” dedicata alla produzioni musicali. Lode alla MTM che è andata a ripescarlo e l’ha rimasterizzato (molto bene, oltretutto).

Se amate gli Only Child, questo disco sarà una festa per le vostre orecchie, anche se bisogna rimarcare certe differenze dalla navicella madre, in particolare l’approccio più keys-oriented che però non si traduce in tentazione pop, dato che Tommy Rude era un tastierista dal tocco pesante e capace di timbriche e arrangiamenti poco convenzionali ma sempre assolutamente rock: direi addirittura che la vera rivelazione di quest’album era proprio lui, che fin dall’iniziale “I can’t shake you” dimostrava di non volersi piegare a fare tappezzeria, come spesso e volentieri accade a chi suona le tastiere in una hard rock band. La canzone è un tipico anthem alla Sabu, con un gran chitarrone in evidenza, mentre la successiva “We don’t remember why” è più ritmata e fa meno  arena rock. “Dance the night away” ricorda molto le cose più AOR di Lee Aaron, “Wanderlust” innesta sul tipico Sabu sound un refrain alla Scorpions, notevole l’alternanza tra il coro imponente e le strofe suadenti. Tastiere particolarmente “pesanti” caratterizzano “Let it rock”, bella serrata, “A cry away” è il piccolo masterpiece dell’album, una power ballad dal refrain sinuoso, l’assolo è tutto demandato alle keys, come degli Hurricane in versione AOR? Grande atmosfera su “Cool wind”, lenta e maestosa, poi c’è il bel crescendo di “Heart to heart”, ancora con una parte solista di keys impostata - mi sembra - sul Moog e sul Mellotron, e le tastiere sono protagoniste anche sul classico “Spooky”, smaltata (ovviamente) di rhythm and blues. Chiude “From now on”, col suo clima drammatico, quasi una power ballad.

Alexa meritava certo più attenzione di quanta ne abbia avuta, provò anche a fare l’attrice, il fisico non le mancava, eppure la copertina di questo disco non puntava sul suo notevole personale, un semplice disegno stilizzato, bastava quella voce fenomenale, pensarono forse quelli della Savage, invece...

 

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CHRISSY STEELE

 

 

  • MAGNET TO STEELE (1991)

Etichetta:Chrysalis Reperibilità:scarsa

 

Belle, sexy, con voci favolose... ma quante erano, nei Big 80s? E che fine hanno fatto? Ci si sarebbe potuto fare un numero speciale di Playboy, tante erano... Brian MacLeod buonanima doveva essere uno di quelli che in mezzo alle belle figliole ci sguazzava con sommo gaudio. Prima aveva messo su gli Headpins, con Darby Mills alla voce (una che prima di mettersi a cantare, faceva la modella), poi - forse assodato il fatto che gli Headpins non stavano andando da nessuna parte - mollò Darby (che si rifece viva poi nel 1992 con una propria band, gli Unsung Heroes, per un bel disco, ‘Never look back’) e si concentrò su Chrissy. Il vecchio moniker venne messo da parte, e anche se Chrissy Steele si limitava su questo disco unicamente a cantare, Brian il volpone credé  opportuno ripresentarsi al pubblico schiaffando il nome della sua nuova singer in copertina, offrendo anche agli occhi avidi dei possibili acquirenti una foto della stessa tutt’altro che castigata. Bene, perché no? Perché invocare modestia e pudore quando madre natura ha operato con tale e tanta grazia? E se qualcuno poteva malignamente obiettare che si trattava della solita strategia delle band di rock duro, riempire gli occhi per coprire il vuoto, si poteva sempre rammentare allo scettico di turno che una delle più apprezzate band underground, i Boss Hog di Jon Spencer, piazzarono sulla copertina di un EP la loro cantante (e moglie di Jon, fra l’altro...) completamente nuda (per soprasomma, la suddetta cantante, Cristina Martinez, spesso e volentieri si esibiva anche dal vivo senza uno straccio addosso, ed era pure un gran bello spettacolo, dato che la ragazza possedeva un notevole personale). E perché non ricordare anche le performances di Inger Lorre, la sconvolta singer dei Nymphs, che una volta, sempre su un palcoscenico, davanti a qualche centinaio di spettatori allibiti, si produsse in un lavoretto di bocca al suo ragazzo perché  – sono parole sue – aveva bisogno di mandare giù qualcosa per schiarirsi la gola? E i dischi dei Genitortures, ed il loro live show a base di giochini sado-maso in diretta orchestrati dalla leader Gen? Le ragazze dell’ AOR e dell’hard rock, di fronte a queste assatanate,  facevano la figura di suore canossiane... Ultimissima, lussuosa nota di colore: ‘Magnet to Steele’ venne registrato (è scritto nel booklet del CD) sullo yacht di MacLeod, mentre navigava lungo la costa del Pacifico, e doveva essere un gran bel navigare...

Prima di associarsi a MacLeod, Chrissy aveva fatto parte dei Reform School, in cui militava anche il chitarrista Joe Wowk, poi nei Paradise di Doug Johnson. Del songwriting di ‘Magnet to Steele' si incaricarono MacLeod (che suonava anche tutte le parti di chitarra) e Tim Feehan (di cui voglio ricordare gli splendidi ‘Full contact’ e ‘Pray for rain’, eccelsi trattati di AOR canadese), con qualche contributo anche da parte di Jeff Paris, Mike Reno e Scott Smith, mentre la sola “Cry myself to sleep” portava in esclusiva la firma di songwriters esterni (era stata scritta da Mutt Lange per i Romeo’s Daughter).

Magnet to Steele’ è un album bello tosto, dove la melodia viaggia sempre su affilate trame chitarristiche: molto più hard melodico che AOR, insomma; Chrissy aveva polmoni da vendere ma nello stesso tempo sapeva ben prodursi sulle ballad, anzi, sulla ballad, l’unica del disco, la già citata “Cry myself to sleep”, che ha un coro (ovviamente) Leppardeggiante, una canzone graziosa e niente più ma nobilitata da un buon arrangiamento. Tutt’altra musica (in senso letterale ed in quello lato) sulle canzoni scritte da MacLeod e Feehan. “Love you till it hurts” è sostenuta da un tostissimo riff di scuola AC/DC su cui va ad adagiarsi un coro suadente, “Armed and dangerous” attacca con un altro riff crudo poi si apre alla melodia, il contributo di Jeff Paris è palese nel refrain. “Move over” è un po’ Ratteggiante, il tempo del coro è quasi boogie, Chrissy urla come una pazza ma riuscendo a controllare sempre mirabilmente la voce. “Love don’t last forever” è una power ballad con qualche ombra Bon Jovi mentre “Try me” è quasi anthemica, un po’ alla Autograph, magari. “Two bodies” è più d’atmosfera ma sempre bella soda, molto Lee Aaron, con una piacevole alternanza tra parti più melodiche di chiaro stampo Def Leppard ed altre anthemiche. “Murder in the first degree”: dopo l’intro d’atmosfera di basso e keys entra un gigantesco riff Zeppeliniano, la scansione ritmica del coro è di nuovo boogie, formidabile. Tinte blues caratterizzano “King of hearts” e “Magnet to steel”, mentre “Two lips (don’t make a kiss)” punta sull’atmospheric power, un po’ alla Michael Thompson Band, ma molto più dura, ha solo il difetto di essere un pelo troppo lunga. Nel complesso, il songwriting scintilla, il livello di tutte le composizioni è elevatissimo, Chrissy aveva una voce fantastica, come una Lee Aaron dai toni più alti e cristallini, ma  i riscontri furono modesti: questo disco uscì nel terrificante 1991, proprio in contemporanea con il secondo album di certi zozzoni di Seattle. Peccato non ci sia stato tempo per un’altra crociera...

 

P.S.

Non sia mai detto che il webmaster lasci i suoi fedeli lettori brucianti di curiosità inappagata: se volete dare un’occhiata a quella copertina dei Boss Hog  – e avete compiuto diciotto anni – cliccate qui.