AORARCHIVIA

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BAD MOON RISING

 

 

  • FULL MOON COLLECTION (2005)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Fossero tutte le ristampe come questa, quanti dolori in meno ai nostri poveri (e sottolineo poveri) portafogli. Tre album ed un EP a poco più del prezzo di uno. Fenomenale! Questa riproposta non spicca ovviamente solo per quantità ma sopratutto per la qualità del materiale, dandoci la possibilità di gustare in tutto il suo splendore l’opera omnia dei Bad Moon Rising, creatura del duo Doug Aldritch/Kal Swann.

Chiariamo subito che i BMR sono stati un nome minore, bravi ma non stratosferici, ottimi interpreti ma non capiscuola. Imprescindibili per chiunque ami l’hard rock melodico ottantiano più hard edged, al confine col metal, ma non indispensabili come potrebbero esserlo gli House of Lords (con cui Doug Aldritch collaborò ai tempi di ‘Sahara’).

La storia di questa band comincia in effetti con quella di un’altra band, i Lion, dove Kal e Doug suonavano assieme al batterista Mark Edwards. I Lion pubblicarono due dischi nel 1987 e nel 1989... e facevano la stessa, identica musica dei Bad Moon Rising. Ripeto: assolutamente la stessa. Ma i Lion non vendevano abbastanza in USA, anche se si erano conquistati un following notevole in Giappone. Si sciolsero per questioni di soldi e contrasti con la label, la piccola Grand Slamm. Doug si unì agli Hurricane e poi agli House of Lords, Kal cominciò a lavorare ad un album solista. Ma ecco che salta fuori un’offerta della giapponese Pony Canyon, così Kal ricontatta Doug e il disco solo diventa il parto di una nuova band. La scelta di un nuovo monicker forse fu strategica, i Lion s’erano ormai bruciati in america, dov’erano passati più o meno inosservati (anche se poi il secondo album ‘Trouble in angel city’, fu ristampato addirittura nel 1992 dalla MFN), e fare tabula rasa ricominciando da zero era idea non tanto peregrina. La Pony Canyon poi non lesinò yen per la band, mettendogli a disposizione un produttore di vaglia come Mack (Rainbow, Queen, Black Sabbath) e quattro studi di registrazione per incidere il primo album. Come sezione ritmica venne arruolata pro tempore quella degli House of Lords del periodo, ovvero Ken Mary ai tamburi e Chuck Wright al basso, le keys furono affidate ad un paio di session men e non mancarono ospiti prestigiosi (Michael Shencker, James Christian, Kelly Hansen, Robin McAuley) ad aggiungere pepe ad una pietanza che già si preannunciava particolarmente infuocata. Peccato solo che tutto questo bel piatto fosse riservato in esclusiva alle tavole giapponesi. ‘Bad moon rising’ (preceduto di qualche settimana dall’EP a cinque pezzi ‘Full moon fever’) arrivò in Europa solo come prodotto d’import, con un prezzo di conseguenza... Essendo Ken Mary e Chuck Wright sempre impegnati con gli House of Lords (anche se non per molto ancora, comunque), Kal e Doug reclutarono per i concerti quella che diventerà brevemente la sezione ritmica fantasma dei Bangalore Choir, Ian Mayo e Jackie Ramos (“fantasma” nel senso che i due suddetti, sull’unico disco dei Bangalore Choir non suonavano una nota, ma si limitavano a posare nelle fotografie: le tracce di basso e batteria erano state incise da altri musicisti; per i dettagli, seguite questo link). Nel 1993 andò in porto il secondo album, ‘Blood’, sempre prodotto da Mack, che vedeva ancora la coppia Mary/Wright come sezione ritmica mentre quella Mayo/Ramos continuava a venir riservata al palcoscenico. Anche in questa occasione venne pubblicato un EP, ‘Blood on the streets’, stavolta di soli tre pezzi. La nota lieta veniva dall’accordo per la pubblicazione in europa che la Pony Canyon aveva fatto con la Under One Flag (distribuita dalla MFN). La label britannica, molto opportunamente ristampò anche il primo album. Il terzo disco, ‘Opium for the masses’ uscì nel 1995. Prodotto stavolta da Noel Golden, con Mayo e Ramos finalmente ad incidere assieme a Doug e Kal, ‘Opium...’ fu pubblicato dalla bellezza di quattro etichette diverse, in versioni differenti per numero di pezzi e scaletta: una giapponese e francese, una coreana, una europea, ed una americana (ma stampata poi anche in giappone). Aggiungiamo a questo l’EP a sei pezzi ‘Junkyard haze’, stampato esclusivamente in Francia, e il caos è completo. L’annuncio ufficiale dello scioglimento della band viene nel 1998 e l’anno seguente la solita Pony Canyon dà alle stampe una compilation di quindici canzoni, ‘Flames on the moon’.

Dalla presente ristampa mancano in effetti solo quattro pezzi: “Message”, presente sull’EP ‘Full moon fever’, “Union” dall’EP francese, “Millwall brick” e “Free” dalla versione francese di ‘Opium...’  e "Father's son" da quella coreana. Di quest’ultimo album è stata scelta proprio la versione  francese, orbata però delle due canzoni già nominate.

E dopo tante chiacchiere, veniamo (finalmente) alla musica.

Bad moon rising’ era un’autentica festa per chi amava un hard rock melodico e metallizzato, fatto di melodie muscolari e chitarre ruggenti cavalcate da una voce simil-Coverdale. Tutto chiaro fin dall’iniziale “Hands on heaven”, in bilico tra gli Whitesnake periodo ‘1987’ e gli XYZ, ricetta replicata anche su “If it ain’t dirty” (che ha un flavour più sleaze, con un bel bridge funkeggiante ed un assolo dal tempo velocissimo) e “Lie down” (sinuosa, con qualche ombra Motley Crüe). Se “Without your love” è una ballad elettroacustica poco ispirata, vicina a ciò che faranno poi (meglio) i Bangalore Choir, “Old flames” è l’inevitabile ma riuscito omaggio a “Is this love”, riletta su una trama meno vellutata, arricchita da un refrain molto heavy. “Full moon fever” è l’anthem del disco, clima spettacolare con un gran spiegamento di tastiere, come dei Baton Rouge più grezzi e diretti o degli House of Lords ripresi in chiave minore. Il fast d’obbligo si intitola “Built for speed” (notevole per il bell’intreccio di melodia e chitarre velocissime), “Sunset after midnight” ricalca felicemente le orme dei Dokken mentre “Wayward song” mi ricorda i Fifth Angel del secondo album ‘Time will tell’, heavy ma melodici, con un occhio agli House of Lords nella parte finale.  Ed è proprio la band di Greg Giuffria ad ispirare il top del disco, “Dark side of Babylon”: il clima rudemente solenne, l’alternanza tra i morbidi fraseggi acustici ed i riff elettrici zeppeliniani, gli intarsi di keys... Nel coro si vira nuovamente verso il più classico heavy americano e l’assolo di Doug si tinge di sfumature Lynchiane. Le due bonus tracks sono “One night in Tokyo” e “Alter ego” (riprese dall’EP ‘Full moon fever'): la prima è un live che urla “Dokken!” a più non posso, la seconda uno strumentale per sola chitarra, uno sfogo solista di Doug afflitto da un pan pot (l’oscillazione del suono tra i due canali stereo) pazzesco e quasi insopportabile e tanti rumoracci in sottofondo: trascurabile.

Blood’ è un passo avanti come songwriting, sia in qualità che per la varietà dei temi. Non manca il solito class metal californiano, sempre autorevole e sempre impostato sulla rotta Whitesnake/Dokken/Crüe (“Dangerous game”, suadente, elettrica, insinuante, davvero grande; “Blood on the streets”, più sbilanciata verso l’universo sonoro del serpente bianco; “Time will tell”, con un riff portante di netta marca zeppeliniana, semplice, efficace, potente; “Heart of darkness”, il peso massimo del disco, marezzata di piacevoli echi arabeggianti), ma Kal e Doug si concedono diverse puntate (felicissime) in altre direzioni. Se “Servants of the sun  replica le atmosfere di “Dark side of babylon”, “Devil’s song (While our children cry)” riprende gli House of Lords di “Demon’s down” (la canzone) ed i Blue Murder di “Jelly roll”, snodandosi magicamente tra fraseggi acustici western doppiati dalle chitarre elettriche, riff zeppeliniani e bei panneggi di keys. Superbe anche “Chains”, che si sviluppa su un rude telaio country & western, ma tramato di blues notturno, risolvendosi poi in un coro alla Dokken, mentre “Till the morning comes” è un hard rock polveroso, vigorosamente bluesato, elettroacustico, tra i Badlands ed i Riverdogs. Le ballads sono “Tears in the dark” e “Remember me”: la prima è morbida ed elettrica, sempre su base Whitesnake; la seconda, tutta acustiche e tastiere, è forse un po’ anonima, comunque poco incisiva. Le bonus tracks di questo secondo disco sono prelevate dall’EP ‘Blood on the streets’: “Sweet satisfaction” è un gustoso class metal che - pur senza esibire ricalchi clamorosi - potrebbe passare per una outtake di ‘1987’; tutt’altra musica, invece, su “Can’t wait until tomorrow”, fotocopia senza pudore della “Hole hearted” degli Extreme (da ‘Pornograffitti’)...

Opium for the masses’ è del 1995, e la data già può dirci tanto sui contenuti di questo disco, molto, molto più heavy dei due precedenti. L’hard melodico viene messo quasi del tutto da parte, ma non a favore del grunge, come qualche recensore abituato ad operare secondo il metodo C (vedi recensione di  Oliver Hartmann) scrisse all’epoca, piuttosto per un hard rock ispido, a tratti debitore verso i Metallica di ‘Load’, sporcato qua e là di umori settantiani. L’apertura dell’album è affidata a quelli che mi sembrano i pezzi più interessanti, “Belligerant stance” e “Monkey”, dove i BMR diventano una versione cupa e incazzatissima dei Ratt. Convulsa e adrenalinica la prima, con un solo che si attorce su un wah wah impazzito, funk e cadenzata la seconda (pare quasi una versione ultra heavy di “Back for more”), rappresentano il top dell’album assieme a “Moonchild”, aperta da armonie indiane, sinuosa, ancora sulla direttrice Badlands/Riverdogs con un pizzico di Cult era ‘Sonic temple’: grande! Sempre i Cult, ma piuttosto quelli di certi episodi di ‘Ceremony’, occhieggiano su “Into the pit”, quasi una ballad, ipnotica e suadente, con un bel refrain anni ’70 che contagia anche “Free”, tutta acustiche zeppeliniane, chitarre elettriche ed hammond, quasi soul in certi momenti: entrambe notevoli. “Believe” è un hard funkeggiante ed abrasivo, “Holy war” praticamente un classico heavy metal americano, con un cantato furibondo e quasi street, atmosfera replicata poi su “T.B.O.M.D.” con qualche sprazzo più class (forse grazie alle parti di tastiere: sono identiche a quelle dalla “Sex child” dei Blue Murder) sfregiato però dai bridge dove Kal Swann si mette a fare l’imitazione di Phil Anselmo... Su “Godforsaken”  e “Underground” la bussola punta verso i Metallica di ‘Load’, con Kal che forza il suo bel vocione blueseggiante su toni più abrasivi per un cantato alla James Hatfield, “Rivers run red” ha acide sfumature Trouble, mentre “Summer rain” parte più morbida (Metallica meets AOR? Uhm...) fino a che irrompono dei chitarroni giganteschi che sanno parecchio di Soundgarden: efficace! Conclude “Crown of roses”, un notevole hard rock, tostissimo ma dal coro melodico, semplice ma coinvolgente.

Che poi la band si sentisse realmente coinvolta da questa musica è un dubbio legittimo, se pensiamo che con i suoi Burning Rain, Doug Aldritch tornerà a fare praticamente le stesse cose che faceva nei primi due album dei BMR, con una dose massicia di blues in più. ‘Opium for tha masses’ resta comunque un album godibile, in qualche episodio perfino entusiasmante: se ogni tanto vi viene voglia di mettere nel lettore qualcosa dove si pesta sodo, questo terzo disco sarà manna dal cielo.

Non so se sia stato fatto un remastering, l’ascolto denuncia un’ottima qualità audio ma con un volume di uscita basso per ‘Bad moon rising’ e ‘Blood’, tipico dei CD fine anni ’80: probabilmente sono stati usati i masters originali, senza trattamenti aggiuntivi di cui - in ogni caso - non si sente il bisogno. Peccato solo che non siano state inserite anche le lyrics, ma per ospitare i testi di trentasei canzoni il booklet avrebbe dovuto avere lo spessore di un volume dell’elenco telefonico.

Comunque, standing ovation alla Frontiers per questo preziosissimo recupero che vede la label finalmente attiva anche sul fronte ristampe, un settore che negli ultimi tempi mostra una notevole vivacità, con riproposte di qualità sempre più alta e il ritorno alla luce di perle che temevo destinate all’oblio.

 

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DANGER DANGER

 

 

  • DANGER DANGER (1989)

Etichetta:Imagine/CBS Reperibilità:in commercio

 

Dovevamo capirlo subito che in questa band covava qualcosa di curioso, caotico, balzano. Bastava soltanto leggere le note stampate sulla busta del vinile o nel booklet del CD per rendersi conto che c’era una vena di follia pura che pulsava nel cuore dei Danger Danger. Perché cosa si può pensare di una band in cui i songwiters sono il bassista ed il batterista (Bruno Ravel e Steve West), che perde il suo chitarrista ancora prima dell’uscita dell’album ed ha un cantante (Ted Poley) che prima faceva esclusivamente il batterista? Folli! Sul loro futuro non avrei puntato un centesimo, ed in un certo senso ho vinto la scommessa, perché anche se i Danger Danger sono ancora oggi tra noi, della band di questo primo album autointitolato non è rimasto proprio niente. Peccato. ‘Danger Danger’ fu, per citare i Pink Floyd, un momentary laps of reason davvero straordinario, un piccolo (ma neanche tanto piccolo, poi) capolavoro di ispiratissimo songwriting che la band non seppe o non volle replicare, mettendosi prima alle calcagna del pubblico di Poison e Warrant con il più metallico  ‘Screw it!’ e poi aggiornando il proprio sound con innesti moderni. E tutto ciò, nonostante questo album di esordio sia uno di quei dischi degni di figurare in quelle (stupidissime, comunque) classifiche del genere “i migliori cinquanta AOR album di tutti i tempi” o roba simile, con un risultato in termini di vendite stimato sulle quattrocentomila copie nei soli Stati Uniti. Un autentico masterpiece che trae la propria forza quasi esclusivamente dalla straordinaria efficacia del songwriting e dalla raffinatezza degli arrangiamenti, non proponendo soluzioni tanto distanti da quelle già sperimentate da altri in campo rock melodico. Undici canzoni da antologia, insomma, senza filler o pause.

Da dove cominciamo? Dal principio, da “Naughty naughty”, straordinario impasto di (prendete fiato) Loverboy/Aldo Nova/Jeff Paris/Legs Diamond, con quel suo ritmo nello stesso tempo così anthemico e così indolente, magnificamente cool, il basso che rotola lento e sinuoso... super! “Under the gun” offre sprazzi di pomp robusto, un piano martellante, l’atmosfera viene dai pianeti (un altro respiro profondo, please) Journey/Survivor/Bon Jovy/Surgin. Ancora Jeff Paris ed i Loverboy (quando mi deciderò a scrivere di questa band sarà sempre troppo tardi) vengono chiamati in causa nello sfrenato rock’n’roll anthemico di “Saturday night”. Fantastica “Don’t walk away”, una ballad che fa tanto canuck aor, con un pizzico di Def Leppard ad insaporire la pietanza. Sempre il desaparecido Aldo Nova ed ancora i primi Bon Jovy ispirano il ritmo di “Bang bang”, notevole anche per l’intreccio dei cori. Su “Rock America”, solenne e ariosa, i Danger Danger diventano dei Journey o dei Survivor simultaneamente più duri e più pomp, “Boys will be boys” impasta alla grande Loverboy e Kiss, con keys heavy e spettacolari su un coro agile e stuzzicante (i Baton Rouge prenderanno nota...). “One step from paradise”: la ballad, classica, ispiratissima, un crescendo ed un refrain di perfezione assoluta. Poi c’è la mia track preferita, “Feels like love”: la melodia sublime, quel coro struggente, gli squisiti tocchi pomp... Chi è riuscito a fare di meglio? Pochi, pochi... “Turn it on” parla di nuovo la lingua del miglior melodic rock californiano e chiude alla grande “Live it up”, party rock tostissimo, alla Black’n’Blue, ma più colorato, tutte quelle tastiere e chitarre che si intrecciano, l’orchestrazione dei cori ed il suggello finale, la voce super sexy di Monica (il cognome della ragazza, i Danger Danger se lo sono tenuto per loro) che chiude l’album carezzandoti i timpani con un “thanks for coming at the party...” che ti fa subito premere di nuovo il tasto play perché la festa ricominci immediatamente...

Se avete commesso il peccato mortale di ignorarli, correte a redimervi; se li avete (colpevolmente) dimenticati, recuperateli. Fin dalla splendida copertina, quest’album può far capire in un colpo solo ai profani perché quello straordinario decennio della storia dell’ hard rock viene chiamato The Big ‘80s...

 

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FOREIGNER

 

 

  • INSIDE INFORMATION (1987)

  • UNUSUAL HEAT (1991)

  • Mr. MOONLIGHT (1994)

Etichette:'Inside information' e 'Unusual heat' Atlantic; 'Mr. Moonlight' Arista/BMG Reperibilità:in commercio

 

La storia di questa band è troppo lunga per riassumerla interamente in questa sede. Comincia nel 1977 e - pare - non si è ancora conclusa. Attualmente i Foreigner dovrebbero essere in  giro per gli states con una nuova line up che vede il solo Mick Jones superstite degli anni d’oro, ed alla voce il bravo Kelly Hansen, mentre la sezione ritmica è oggi formata da Jason Bonham e Jeff Pilson. Solo dettagli, almeno finché non ci sarà del nuovo materiale da ascoltare. L’ultimo disco  in studio della band è uscito addirittura nel 1994. Undici, lunghi anni...

I Foreigner sono stati una delle colonne portanti del nostro genere, non si discute. Con ‘4’ hanno firmato un capolavoro assoluto, l’album che ancora oggi è il più venduto di tutti i tempi della Atlantic. Ma dopo quel masterpiece ci fu uno scivolone sul versante pop che fece inorridire tutti coloro che vedevano nella band di Mick Jones e Lou Gramm l’unica possibile antagonista dei Journey. ‘Agent provocateur’ gli regalò quello che è stato forse il loro più grande hit, la canzone che li fece (finalmente) conoscere fuori dagli USA, “I want to know what love is”: una ballad favolosa, ma non certo una ballad rock. Pareva insomma che i Foreigner fossero più interessati ad abbordare il pubblico di Whitney Huston e Michael Jackson che proseguire sulla strada dell’AOR. Le smanie soliste di Lou Gramm avvelenarono lentamente il suo rapporto con Jones e gli altri, e già durante le registrazioni di ‘Inside Information’ Lou meditava di mollare la barca e prendere il largo da solo, con il risultato di dare a quest’album un input davvero minimo e fornendo una performance che talvolta risulta piatta e plastificata: proprio lui, il prototipo del cantante intenso... Globalmente, ‘Inside information’ è un disco a corrente alternata: fra ottime pieces spuntano momenti di routine (sia pur competente) e almeno una irredimibile ciofeca, proprio il singolo prescelto per lanciare l’album, “I don’t want to live without you”, pop smorto ed evanescente, senza una sola nota di chitarra, una vera e propria fiera della banalità cantata da Lou con una voce mai tanto spenta e distante. Ma anche sulla splendida “Say you will”, un pop rock che veleggia sul limite della perfezione, il cantante non spinge, limitandosi a fare il suo compitino con la testa Dio solo sa dove. La title track è tutta keys e percussioni sintetiche quasi dance (la dance dell’epoca, naturalmente), con la chitarra che si limita a rifinire e rilegare: simpatica, dinamica, ma uno non compra un disco dei Foreigner per ascoltare questa roba... Per fortuna, il discorso pop si conclude praticamente qui. “Heart turn to stone”, il brano che apre l’album, è un up tempo vivace con un refrain notevole, fascinoso, ma forse troppo lineare nell’arrangiamento, procedendo dritta, senza scossoni né sorprese fino alla fine. “Can’t wait” propone una bella alternanza di parti atmosferiche e quasi ipnotiche con un refrain urlato e molto blues, mentre “Counting every minute” è il peso massimo dell’album, un boogie anthemico alla Bad Company/ZZ Top con tante chitarrone ruggenti, la cassa di Dennis Elliot in grande evidenza ed un Lou Gramm finalmente coinvolgente ed aggressivo. Anche “The beat of my heart” non lesina elettricità, e dopo un bell’intro di chitarra acustica e spagnoleggiante spunta rombando un gran ziff zeppeliniano su cui Lou ricama con autorevolezza mentre Mick Jones ci regala finalmente un assolo degno di questo nome. “Face to face” è di nuovo pop rock di gran classe smaltato di pregevoli e lucenti tocchi pomp, “Out of the blue” è una mirabile ballad AOR dalle sfumature crepuscolari e umbratili e si chiude alla grande con “A night to remember”, un hard melodico spettacolare, diretto ma nello stesso tempo pieno di invenzioni e finezze.

Dopo ‘Inside...’, entrambi i leader si concedevano al disco solo, e se su quello di Mick Jones si può tranquillamente stendere il proverbiale velo pietoso (‘Mick Jones’ si risolveva sopratutto in una raccolta soporifera di ballad alla saccarina), con ‘Long hard look’ (1989), Lou Gramm riusciva quantomeno a presentare del materiale dignitoso, anche se sempre troppo sbilanciato in direzione pop. E nonostante i riscontri a livello di vendite non fossero poi tanto entusiasmanti, il cantante decise di lasciare in via definitiva i Foreigner per continuare la sua carriera da solista, anche se la prova successiva fu con una band nuova di zecca, gli Shadow King, di cui potete trovare ampia trattazione seguendo questo link.

Per Mick Jones e compagni la situazione era, ovviamente, nero seppia. Trovare un rimpiazzo all’altezza non era difficile, impresa ardua era piuttosto far accettare al pubblico dei Foreigner senza Lou Gramm dietro il microfono. La scelta cadde su Johnny Edwards, giovane e validissimo singer che si era fatto positivamente notare sull’ultimo album dei King Kobra. Dato che tono e stile di nuovo e vecchio cantante non erano poi lontanissimi, questa scelta poteva suggerire che Mick Jones volesse dare una sostanziale continuità al discorso già sviluppato con gli album precedenti. Invece, il parto di questa line up, ‘Unusual heat’ (1991), risultò piuttosto distante dalle atmosfere degli ultimi due dischi. Non era tanto un recupero delle atmosfere di ‘Double vision’ o ‘Head games’, come qualcuno scrisse all’epoca, ma semmai il risultato di quella che non si può definire diversamente da una crisi di personalità di Mick Jones, che per la produzione di ‘Unusual heat’ si fece affiancare (e poi schiacciare) da Terry Thomas, il quale applicò ai Foreigner la stessa, identica ricetta con cui aveva rivitalizzato i Bad Company, sia a livello di suono che di songwriting. Il risultato di questa strategia fu, ovviamente, di trasformare i Foreigner in qualcosa di estremamente somigliante ai nuovi Bad Company... e c’era una strana, forse crudele ironia in tutto ciò, dato che proprio Mick Jones aveva fallito come produttore sul primo album della riformata band di Mick Ralphs, quel ’Fame and fortune’ che nel 1986 per poco non aveva affossato nuovamente la Cattiva Compagnia. Eppure, da questa sorta di contrappasso dantesco, i Foreigner uscirono magnificamente. Mick Jones lasciava perdere le tastiere e ritornava a far ruggire la sua chitarra ed a farle cantare il blues, la coppia Elliot/Willis pestava sodo come non mai e Johnny Edwards si esprimeva come un Lou Gramm meno raffinato e singhiozzante, venato di un’asprezza genuinamente rock.

Unusual heat’ è fatto di chitarre taglienti e cromate, di keys brillanti, di melodia e rock blues. Quella patina asettica che avvolgeva troppi episodi di ‘Agent provocateur’ e ‘Inside...’ viene spazzata via da un suono caldissimo e scintillante, letteralmente dominato dalla splendida voce di Johnny, mixata ad un volume insolitamente alto per una produzione rock. “Only heaven knows” apre le danze a tempo di boogie con una miscela perfettamente bilanciata del più classico suono Foreigner con quella dei nuovi Bad Company, ricetta riproposta anche su “Lowdown and dirty”, più sfacciata e aggressiva, su “Moment of truth” e “Mountain of love” (schegge di impeccabile rock blues interpretato in chiave AOR), su “When the night comes down” (un po’ Bryan Adams), su “Flesh wounds”, ancora cadenzata sul 2/4. La sola “No hiding place” (irresistibile, peraltro) potrebbe essere scambiata per una outtake di ‘Holy water’ o ‘Nothin’ but trouble’, mentre nel comparto ballate, Mick Jones la pianta (ed era ora) di travasare miele ad ettolitri, offrendoci grandi spaccati di melodia muscolare. “I’ll fight for you” e “Ready for the rain” sono power ballads gigantesche: la prima, un trionfo di atmospheric power (il piano ed il basso che marciano assieme, il refrain al limite del pomp, il clima drammatico...); la seconda più AOR, più rockeggiante. “Safe in my heart” sembra prendere le mosse da “I don’t want to live without you”, ma è infinitamente più energica ed ispirata (e Johnny, qui, sembra davvero un clone più giovane e ruvido di Lou). Conclude la title track, più sul techno AOR, c’è anche un synth bass che dà un ritmo quasi danzabile, ma con le chitarre a dominare sempre la scena.

Non ho idea se ed in quale misura questo disco sia stato apprezzato dai fans sfegatati della band, ma così, a naso, temo che la pregiudiziale sul singer abbia di fatto bloccato qualsiasi ipotesi di gradimento: la solita questione dei monickers. Per me, ‘Unusual heat’ è un grandissimo album, sicuramente da recuperare per chi lo aveva snobbato (ingiustamente) all’epoca della pubblicazione.

La band finì comunque in naftalina per tre anni, ricomparendo un po’ a sorpresa nel 1994 con una line up nuovamente rivoluzionata. C’era il ritorno di Lou Gramm, ma una nuova sezione ritmica che vedeva il fido scudiero di Lou, Bruce Turgon, al basso e Mark Shulman alla batteria, ed un tastierista titolare (dopo che negli ultimi album le keys erano state affidate a dei sessionmen), Jeff Jacobs.

Mr. Moonlight’ venne prodotto dal grande Mike Stone ed è sicuramente l’album più maturo e completo che la coppia Gramm/Jones abbia mai partorito. L’amalgama perfetta tra chitarre e tastiere, le mille suggestioni che si inseguono da una canzone all’altra compongono un quadro fatto di chiaroscuri che possono essere scabri o suadenti, gentili o brutali. I Foreigner non sono mai stati una party band, nel loro DNA la malinconia prevale da sempre sulla gaiezza e ‘Mr. Moonlight’ rappresenta il top di quella poetica, uno sguardo più che mai adulto nelle terre crepuscolari in cui Mick e Lou avevano sempre vagato, ma forse mai con tanta classe e sicurezza. L’ hard più roccioso ( “Under the gun”, arrabbiata e melodica,  Big Dog”, scanzonata e blueseggiante), la ballad (“I keep hoping”, morbidamente - anche troppo, magari... - soul; il capolavoro “Until the end of time”, dove Lou dimostra una volta ancora quale sia il senso vero di quell’acronimo, Adult Oriented Rock...) il rock quasi mainstream, un po’ westcoast (“White lie”, “Rain”, “All I need to know”, con quelle chitarre dal suono limpido e fragile, le carezze dell’hammond...), il pomp muscolare e drammatico (“Real world”, solenne, dal testo spietato), l’hard melodico (“Running the risk”, “Hole in my soul”, “Hand on my heart”, sublimi esercizi di rock adulto, intense, ispiratissime), l’intera costellazione del suono AOR, insomma, risplende attraverso ‘Mr. Moonlight’ con un fulgore che - ripeto - mai prima era stato così intenso in un disco della band. Per il sottoscritto, il miglior disco in assoluto dei Foreigner.

Dopo ‘Mr Moonlight’, ci sono state solo compilations, guai fisici per Lou Gramm, tour saltuari. Di nuovi album di studio, per il momento, non si parla, e non mi sembra che in questo atteggiamento della band ci sia nulla di strano od originale. E’ solo una delle conseguenze più nefaste del peer-to-peer e della duplicazione illegale dei CD: le bands che hanno già un seguito consistente di fans ed una storia alle spalle non si sentono più stimolate a registrare, ma puntano solo sui concerti. Fino alla metà degli anni ’90 nessuno si azzardava a partire in tour se prima non aveva pubblicato un nuovo disco. Oggi si va in tour e basta, perché i soldi degli show sono soldi sicuri, per entrare devi pagare il biglietto e non ci sono scorciatoie che tengano, mentre per ogni CD venduto (su cui le bands guadagnano poi una percentuale spesso infima) devi metterne in conto almeno tre copiati. Gli Whitesnake, tanto per fare un esempio, sono in giro  a suonare da almeno un paio d’anni, ma David Coverdale ha più volte dichiarato di non avere interesse a registrare nuove canzoni: perché spendere tempo e soldi per poi farsi derubare? Meditate, gente...

 

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DOKKEN

 

 

  • UNDER LOCK AND KEY (1985)

Etichetta:Elektra/Asylum Reperibilità:in commercio

 

Back to basic, come dicono gli yankees...

Era l’anno di non molta grazia 1985, e l’estensore di queste note un tenero (si fa per dire) diciottenne che solo da poco si trovava alle prese con quel fenomeno che ancora non era conosciuto dalle nostre parti come Adult Oriented Rock. Un amico devoto alle asprezze sonore di Venom, Saxon e Motorhead, che da poco era andato fuori di testa per una band dal nome tutto sommato abbastanza fesso (Metallica o una cosa del genere...) la quale era usa adornare le copertine dei propri dischi con martelli sanguinolenti e sedie elettriche, mi chiese se conoscevo questi Dokken ed io ammisi la mia ignoranza riguardo i soggetti in questione. «Guarda, è proprio il genere di roba che dovrebbe piacere a te », mi fece, memore probabilmente delle mie chiacchiere riguardo Heart e Ratt. «Fanno metal, ma non proprio, cioè, non come i Maiden o i Judas o i Riot, forse più una cosa alla Kiss, ma neppure, forse più alla Scorpions, diciamo, ma più cantato (?!)... insomma, la vuoi la cassetta? ».

Ah, quella mitica cassetta... Il nastro divenne trasparente a forza di passare e ripassare sotto le testine. Poi ne venne un’altra ed un’altra ancora, e infine il CD.

Era il 1985 e i Dokken avevano inventato il Class Metal. Il percorso non era stato breve né semplice. Se già ‘Breaking the chains’ mostrava una notevole propensione alla melodia, fu con ‘Tooth and nail’ che un certo teorema prese chiaramente forma, arrivando alla formulazione definitiva con ‘Under lock and key’ (merito dei produttori, Neil Kernon e Michael Wagener?). ‘Back for the attack’ segnò la fine temporanea della band, avvelenata dai violenti contrasti tra Don e George Lynch, ricomposti poi per una reunion che ha prodotto fino ad oggi solo album indigesti e modaioli, “moderni” nell’accezione peggiore della parola. C’è sicuramente qualcosa di paradossale e grottesco nel fatto che coloro che hanno inventato - più o meno - un certo genere lo rinneghino preferendo seguire le rotte tracciate da altri act più giovani: è una mancanza di personalità o di dignità? Forse solo paura: paura di rimanere indietro, di sembrare - orrore! - vecchi. Non tutti hanno la coerenza e la forza interiore dei Legs Diamond, che tirano avanti da trent’anni e non hanno neppure goduto di quel successo e di quegli introiti che permisero a Don di comprarsi una Ferrari. Oggi, i Dokken vivacchiano in un limbo grigio, sfornando anche loro dischi a ripetizione per raggranellare un po’ di valsente da qualche fan alla disperata ricerca di echi che rimandino a quegli anni ‘80 di cui la band proprio non vuol più sentir parlare.

Del class metal, dunque, i Dokken sono stati gli “inventori”, ma che tra l’heavy metal e la pura e semplice melodia non vi fosse alcun conflitto l’avevano già scoperto gli Scorpions in Germania ed i grandi Starz negli USA. Don e George Lynch partirono da questi due fondamentali capisaldi per spiegare il loro teorema sonoro, ma accentuando l’aspetto melodico di certe composizioni in chiave - all’epoca, naturalmente... - contemporanea. Se nei pezzi più heavy Don si esibiva con uno stile quasi epico in bilico tra Klaus Meine e Bruce Dickinson, sapeva poi ammorbidire i toni senza risultare falso nelle canzoni dove al riff assassino si sostituiva la melodia suadente, come in quel capolavoro ancora oggi ineguagliato che s’intitola “Jaded heart”, in cui gli allievi dimostravano di aver superato e travalicato la lezione dei maestri Scorpions. Anche i testi - mai da sottovalutare - si allontanavano con decisione da quell’immaginario orroroso/sanguinolento che caratterizzava e caratterizza ancora oggi (purtroppo) l’heavy metal: non le solite lyrics  a base di squartamenti, mostri, battaglie campali, satanismi pecorecci, stasera-ho-voglia-di-rompere-un-po’-di-teste, sono-un-selvaggio-figlio-del-rocchenrol-ma-ho-il-cuore-buono, eccetera eccetera, ma versi ispirati al pensiero fisso di qualunque individuo di sesso maschile ed in buona salute (e se non avete afferrato di cosa si tratta, consultate subito un medico).

Nel nostro paese, i Dokken e più in generale tutta l’estetica del class non hanno comunque mai attecchito. Quando vennero a suonare da noi a supporto degli Accept, i metallari assatanati delle prime file non si fecero scrupolo di prenderli a sputi e lattine in faccia per fargli capire quale era il gradimento che mostravano verso quella proposta che aveva il fondamentale difetto di essere troppo intelligente e raffinata per le loro orecchie abituate ai grugniti da cinghiale in calore di Udo o a quel cantato stile sirena dell’autoambulanza di tanti heavy metal singer che ancora oggi va per la maggiore. Non parliamo poi del chitarrismo di George Lynch, che mai si è prestato al pogo o all’headbanging... Per converso, quel pubblico che a fine anni ‘80, scopriva la musica dura, trovava troppo aspra una dimensione musicale che non si concedeva alla melodia con la facilità degli Europe o di Bon Jovi, mediata poi da un frontman che non possedeva certo le qualità estetiche di Joey Tempest o del bel Jon del New Jersey. Anche nel resto d’Europa, non mi risulta che i Dokken abbiano mai avuto riscontri stratosferici, restando praticamente confinati alla classica audience nippo-americana (il live ‘Beast from the east’ non fu registrato in Giappone per caso), che ancora oggi resta il principale mercato di una band che è solo l’ombra sbiadita del colosso del (bel) tempo che fu.

 

AORARCHIVIA

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WITNESS

 

 

  • WITNESS (1988)

Etichetta:Arista Reperibilità:scarsa

 

Certe volte è veramente difficile capire cosa passi per la testa dei discografici. Comprendere cosa ci sia alla base di certe scelte, intuire lo schema logico di strategie produttive e di marketing che paiono dettate piuttosto da schizofrenia o pura demenza. Quello dei Witness potrebbe essere un caso emblematico di strategie incoerenti e/o autodistruttive, che portarono come risultato ultimo alla fine prematura di una band che avrebbe potuto recitare un ruolo da protagonista e invece è sparita nel nulla ed è stata (ingiustamente) dimenticata.

Vennero scoperti mentre suonavano nei club della natia Georgia, il nome era in origine Native, poi mutato (perché poi?) in Witness. L’Arista li mise sotto contratto trattandoli da classica next big thing, e spedendoli a San Francisco per registrare subito un disco. L’attenzione della major s’era concentrata, immagino, sopratutto sulla bella e bravissima frontgirl, Debbie Davis,  un’ugola fantastica che poteva essere considerata quasi come una sorta di versione femminile di David Coverdale. Purtroppo, il trasferimento sulla West Coast non dovette fare bene alla band, che cominciò a sfasciarsi finché dei Native originali non rimasero che Debbie ed il tastierista Joey Huffmann. A questo punto, anziché dargli tempo di ricostruire con calma la line up, scrivere un po’ di canzoni - crescere come una vera band, insomma - l’Arista, sempre più in fregola, li spedì ugualmente in studio, mobilitando dei session men di prima grandezza (Neal Schon, Tim Pierce, Brad Gillis, Steve Smith, Danny Chauncey) e comprando canzoni da fargli interpretare (scritte, fra gli altri, da Neal Schon, Michael Bolton, Desmond Child, la coppia Bon Jovy / Sambora). E’ chiaro che ormai una band non esisteva più, ed i costi del progetto erano lievitati in maniera pazzesca: non si trattava di prendere cinque ragazzi che suonano assieme e chiuderli in uno studio con un produttore e poi vedere cosa succede, ma di staccare assegni uno dopo l’altro a favore di autentici protagonisti della scena AOR che non prestavano certo la propria opera  per qualche spicciolo. Insomma, l’album dovette venire a costare una somma non indifferente, e l’arruolamento in pianta stabile di Damon Johnson alla chitarra e Eddie Usher al basso arrivò troppo tardi perché i due potessero contribuire in qualche modo al disco. A questo punto, logica (o, quanto meno, buon senso) avrebbe voluto che l’Arista facesse il diavolo a quattro per promozionare i Witness, per attirare l’attenzione su di loro. Invece, l’album fu scaricato nei negozi e la faccenda finì lì. Forse non venne girato neppure un videoclip e sì che Debbie Davis aveva tutti i numeri per farsi notare. E i Witness si sciolsero, in senso letterale ed in senso lato. Già dopo qualche mese di loro non si parlava più, Damon Johnson aveva formato i suoi Chinatown (dopo sarebbero venuti i grandi Delta Rebels e poi i Brother Cane), Joey Huffman passò anche lui nei Brother Cane e poi lavorò con Soul Asylum e Matchbox 20, e Debbie Davis finì a fare la corista per i Lynyrd Skynyrd...

In tutta questa storia assurda, l’unica certezza è la magnificenza di un disco che avrebbe meritato ben altra attenzione di quella che poi ebbe da un publico frastornato da un flusso continuo di album più o meno buoni. Benedetto da una qualità audio fenomenale (i produttori erano Kevin Elson e Bill Dresher), ‘Witness’ era un ruggito elegante di hard rock melodico suonato (ovviamente) alla grande su cui la voce stupefacente di Debbie imponeva con autorevolezza il proprio marchio. “Show me what you got” apriva l’album in un clima caldissimo, bollente, tra un riff serrato, un coro sinuoso e anthemico vagamente Scorpions, ed una fase solista divisa tra hammond e chitarra. “Do it till we drop”è un grande anthem sorretto da un riff geometrico ed un basso pulsante tagliati dalle sciabolate di keys su cui si innesta un superbo coro a due voci. Michael Bolton firma il robusto AOR da spiaggia “Am I wrong”, poi c’è il refrain favoloso di “Desperate lover”; “Let me be the one” è come acciaio avvolto nella seta, l’alternanza chitarre/tastiere è esemplare, il refrain da infarto. Echi root e suggestioni Heart animano “You’re not my lover”, sempre tostissima, poi irrompe “Jump into the fire”, AOR corposo, galoppante, ritmato dal sinth bass, un assolo ancora diviso tra chitarra e keys, un andamento quasi danzabile eppure sempre all’insegna dell’aggressività sofisticata. “When it comes from the heart” e “Borrowed time” sono l’apoteosi: un po’ alla Jeff Paris, refrain che stendono secchi, la prima ha un bridge divino, una vera lezione di atmospheric power, la seconda è illuminata da un assolo - mi ci potrei giocare la testa che è suo - di sua altezza Neal Schon. “Back to you” conclude in gloria con una melodia colossale, tra Journey e Bon Jovy.

Mi ero ripromesso di parlare di certi dischi solo quando sarebbero stati ristampati, per non alimentare il gioco al massacro che e-bay ed i rivenditori specializzati in rarità fanno sui nostri portafogli, ma pare che tanti, troppi album non siano destinati a ritrovare a breve (e magari a ritrovare e basta) la strada della riedizione; ed allora, criminale sarebbe lasciarli nell’oblio, non far venire l’acquolina in bocca a chi, smesso di leggere queste note e preso atto della parola “scarsa” che nel box di apertura ne qualifica la reperibilità, comincerà a mandare bestemmie all’autore, colpevole di avergli segnalato un altro masterpiece che potrà ottenere solo a fatica e pagando quello che pudicamente viene definito “prezzo d’affezione”...