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  English | Backlash | 
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| Se
  c’è una band, UNA SOLA band che incarna nel modo più fulgido e completo tutto
  ciò che l’AOR ha rappresentato - e rappresenta ancora oggi, sia pure per uno
  sparuto manipolo di aficionados - questa band sono i Bad English. Non
  sono stati dei precursori e neppure i fondatori del genere, ma i suoi
  interpreti più sublimi. Se vogliamo paragonare il predominio dell’AOR nelle
  classifiche americane ad un lungo party, loro sono arrivati certo al culmine
  della festa, quando i fuochi artificiali stanno per esplodere e gli ospiti
  cominciano a scoprirsi estenuati dal troppo divertimento. Ma il parallelo mi
  suona inopportuno ed irriverente. Il grande problema di questo genere
  musicale è sempre stato solo e soltanto uno: riuscire a farsi prendere sul
  serio. In un mondo dove la musica “intelligente” per antonomasia era quella
  dei Television, dei Talking Heads o dei Sonic Youth - tanto per fare tre nomi
  - dove tutto ciò che si vendeva a milioni di copie veniva guardato subito con
  sospetto e bollato con il marchio d’infamia di “musica commerciale”, dove la
  stessa capacità tecnica era oggetto di critiche astruse, figlie della più
  volgare e grossolana mitologia punk, l’AOR si prestava magnificamente al
  gioco al massacro dell’intellighenzia critica che sulle due sponde dell’Atlantico
  pontificava dalle riviste di tendenza. Genere plastificato, calcolato a
  tavolino, vuoto di idee e contenuti, solo un gran velo iridescente che copre
  il nulla... quante volte abbiamo dovuto sopportare questo genere di critiche?
  E quanti hanno saputo rispondervi? Di difese d’ufficio dell’AOR ne ho lette
  poche, e mai realmente convinte, e comunque - a mio sommesso parere - sempre
  impostate nella maniera più sbagliata, esaltando proprio quelle
  caratteristiche che rendevano apparentemente il genere tanto odioso a chi
  sbavava sugli album di Nirvana e compagnia brutta. Non basta dire: a me le
  cose piacciono fatte così e così, amo la melodia unita alla potenza, le
  grandi voci, un clima “leggero”. Anche perché, dannazione, nell’AOR, nel
  grande AOR c’era ben altro.   * * * Nel
  1988, uscì negli Stati Uniti un film-documentario intitolato The decline of western civilization part
  II: the metal years. Il titolo già dice tutto sul contenuto. Gli anni
  ’80, gli esecrabili, volgari, superficiali, menefreghisti, rapaci, decadenti
  anni ’80 descritti attraverso la loro colonna sonora: il metal. Non credo che
  un singolo decennio del nostro secolo sia mai stato tanto aborrito,
  disprezzato, addirittura odiato. Eppure erano anni dorati, splendenti. Anni
  di prosperità economica, di relativa stabilità. A paragone dei ’90, con tutto
  il loro carico di recessioni, guerre, terrorismo, inquinamento e caos
  generalizzato, quell’epoca appare una specie ultimo Eden: forse, un giorno,
  anche agli anni ’80 verrà attribuito l’aggettivo ruggenti. Forse. A quel decennio non è toccato di venire
  circonfuso di un alone romantico, e chi lo ha vissuto da protagonista non
  sembra ancora trovarsi nella posizione di poter dettare legge, di fare la
  voce grossa: viviamo ancora l’onda lunga dei ’60, fra orde di vecchi ragazzi
  dai capelli grigi che rimpiangono tutti i miti languidi di quell’epoca,
  mentre degli anni ’70 sembra si sia più interessati a recuperare i vestiti -
  orrendi - che i valori. Dieci o vent’anni ancora, e, chissà, gli anni ’80
  diventeranno il decennio da recuperare, la materia grezza su cui modellare il
  nuovo trend. Con quali risultati, non oso immaginarlo.   Anno
  del Signore 1982. Una band di nome Journey decide di far cambiare rotta alla
  propria musica, di aggiornarne temi e stilemi per allinearsi al nuovo sound
  che Foreigner e Boston stanno portando al successo in USA. Il risultato,
  dirompente ed epocale, si chiama ‘Escape’. Un disco talmente nuovo che per descriverlo si deve
  inventare di punto in bianco una nuova etichetta: Adult Oriented Rock.  Musica tosta,
  ma non troppo, e con un target che - per l’immagine della band e i testi
  delle canzoni - non è quello classico degli adolescenti. Da
  qui comincia tutto, e tutto quello che è venuto dopo è storia. E la domanda
  da porsi è: perché è successo?
  Perché dopo la discomusic, il punk e la new wave, gli USA hanno scelto l’hard
  rock, quel genere di hard rock? Gli
  anni ’70 erano stati anni cupi, in tutti i sensi. Tra il Viet Nam e la crisi
  economica c’era ben poco da stare allegri. I giovani vagavano senza meta tra
  le rovine dei grandi miti che avevano caratterizzato il decennio precedente,
  incapaci di travalicarli e di crearsene di nuovi.  Anche il look pareva riflettere questo stato di cose: sciatto,
  trasandato, incolore. Anni grigi. Di quella messa in scena, il punk era stato
  la comica finale: uno scoppio di rabbia cieca, di furia ottusa, la rivolta
  contro non si sa chi e non si sa cosa, inevitabilmente destinato a
  concludersi in un nulla di echi e macerie. La rivolta vera, autentica, c’era
  già, ed aveva molti volti contrastanti e molti nomi: Kiss, Deep Purple,
  Aerosmith, Alice Cooper, Stooges, Black Sabbath, Queen, Bad Company e -
  sopratutto - Led Zeppelin. Quante volte avete letto questi nomi nelle tante storie
  della musica rock scritte da critici più o meno illustri e “illuminati”,
  sopratutto nostrani? Quel periodo storico viene cancellato, rimosso come un
  brutto ricordo: i ’70, gli anni della disco e del rock progressivo, e basta.
  Oppure tutto viene risolto in poche righe sprezzanti, dove un intero
  movimento musicale viene ridotto alle maschere dei Kiss, ai movimenti pelvici
  di Robert Plant o a Ozzy che squartava a morsi i pipistrelli. Non credo sia
  tanto una questione di malafede, o di pura e semplice ignoranza, quanto la
  precisa volontà di tagliare fuori dal quadro quegli elementi che non fanno
  comodo a questi signori per avallare le loro teorie. Come può reggere la
  tesi che il punk rappresentava la rivolta dei giovani contro i dinosauri del
  rock, quando in giro c’erano bands come i Led Zeppelin? Che il rock s’era
  imbalsamato quando l’America era percorsa in lungo e in largo da realtà come
  i Grand Funk o i Bad Company? Eppure, gente come Scaruffi o Castaldo da
  vent’anni ci propinano queste idiozie, e nessuno si è mai sognato di
  confutarle o almeno di metterle in dubbio. Il punk era la rivolta? No. La
  rivolta, l’ho scritto, c’era già. Una rivolta molto più profonda e viscerale
  di qualsiasi nenia punk, di cazzate come “God
  save the Queen, and her fascist regime”. Una rivolta che non si basava
  sulle parole, sulle chiacchiere, sugli scalpi alla moicana e le spille da
  balia usate come orecchini, ma solo e unicamente sulla musica, sul
  coinvolgimento fisico ed emotivo che la musica poteva scatenare. Forse nulla descrive
  meglio questo clima dei concerti dei Led Zeppelin, antitesi dei grandi raduni
  collettivi del decennio precedente, impregnati di amore, erba ed illusioni
  utopistiche e mitizzati fino all’indecenza: c’era solo la qualità essenziale della musica a stregare
  il pubblico, a tenerlo inchiodato per due o tre ore di fila. Era
  un’esperienza nient’affatto intellettuale, ma squisitamente fisica, nel senso più ampio della
  parola: qualcosa che poteva squassarti il corpo e l’anima nello stesso tempo,
  puro nutrimento per lo spirito. Perché la musica deve andare dritta al cuore,
  allo stomaco, a qualsiasi parte del corpo, basta che non sia il cervello. Non
  si ascolta musica come si legge un libro: ragionando, riflettendo. Tutto
  dev’essere abbandono, complicità, una danza dei sensi. William Burroughs
  scrisse: “Bisogna ricordare che
  all’origine di tutte le arti ci sono la magia e l’invocazione; e che la magia
  è sempre utilizzata al fine di ottenere qualche risultato magico. Nei
  concerti dei Led Zeppelin, il risultato desiderato sembrerebbe essere la
  creazione di una forma di energia per i musicisti ed il pubblico.” La
  musica intellettuale, la musica
  dove la magia è sostituita dal freddo ragionamento, è una truffa priva di
  significato, una scappatoia per i frigidi che non sanno e non vogliono
  abbandonarsi, cedere, arrendersi. L’hard
  rock, in tutte le sue forme, è forse il medium più adeguato a tessere questo
  incantesimo, grazie ai suoi volumi ed alla sua aggressività. E non per nulla
  divenne la scappatoia preferita dei giovani americani negli anni ’70. Niente
  promesse vane, niente miti, nessun uso strumentale della musica per
  propagandare messaggi più o meno politici. Solo magia. Quella magia che il
  punk più becero pretendeva di sostituire con una rozzezza programmata, con
  una grossolanità fiera di se stessa e un affastellamento di suggestioni
  extramusicali che ancora oggi tengono (in parte) banco. Che tutto ciò non
  avesse il minimo senso lo capì il pubblico prima degli stessi musicisti
  coinvolti in quella sciagurata stagione, abbandonandoli presto al loro
  destino e ricominciando ad interessarsene solo quando mutarono - parzialmente
  - rotta. Intanto,
  gli anni ’70 si erano (finalmente) conclusi. E un nuovo decennio cominciava,
  tra speranze e nuovi miti.   * * *   The
  Big Eighties. Così li chiamano a MTV, fra
  ironia e malcelato rimpianto. Tradurre quel Big è meno facile di quel che sembra. Non semplicemente “grandi”:
  forse è più adatto “imponenti”, “grandiosi”. Gli anni del lusso ostentato e
  della voglia di successo a tutti i costi, dei Soldi, con la maiuscola. In
  USA, indiscutibilmente, gli anni di Reagan. Nella successione di pupazzi che
  hanno occupato il centro del palcoscenico nel teatrino della Casa Bianca,
  Ronnie è stato quello più odiato e più rimpianto. Odiato e rimpianto per la
  medesima cosa: le sue bugie, le sue gloriose menzogne. Ha sfasciato il
  bilancio pubblico riducendo le tasse ai ricchi, ha speso cifre scandalose per
  gli armamenti, s’è schierato senza mezzi termini con il capitale al punto di
  licenziare migliaia di controllori di volo che scioperavano per i salari
  troppo bassi, ha finanziato guerre sporche... la lista dei suoi misfatti è
  praticamente senza fine. Eppure, gli americani l’avrebbero rieletto senza
  esitazioni se la legge non gli avesse precluso un terzo mandato
  presidenziale, e la voglia di perpetuare la magia dei suoi anni si spinse
  fino al punto da indurli a sostituirlo con il suo opaco vice, e padre
  dell’attuale pupazzo in carica. Perché tanto entusiasmo per un personaggio
  simile? Perché, come mai era accaduto dal dopoguerra, Reagan sapeva far
  sognare gli americani. Toccava con le sue visioni le loro corde più sensibili
  e profonde, e quelle visioni non erano frutto di un mero calcolo
  propagandistico, Reagan credeva alle sue stesse bugie: il più convinto e
  ardente interprete di quella grande truffa chiamata Sogno Americano è stato
  senza dubbio lui. Ottimismo ed entusiasmo: ciò di cui gli yankees avevano più
  che mai necessità, dopo i grigiori degli anni ’70. Una nuova voglia di luce e
  splendore sorse nella società americana. Di lasciarsi alle spalle ogni cosa e
  godersela: egoisticamente, narcisisticamente. Ognuno per sé e Dio per tutti.
  La vita è una corsa, e se resti indietro sono cavoli tuoi. Questo è il succo
  della filosofia americana, in ogni tempo ed in ogni epoca. Reagan riusciva a
  ripulirla dei suoi macabri sottintesi ed a presentarla come il non-plus-ultra
  del vivere civile. E tutti volevano, avevano uno smisurato desiderio di
  credergli. E’
  di questo clima godereccio e festaiolo che l’AOR si fa interprete. Di questa
  nuova, sfrenata gioia di vivere, di un pensare
  positivo che fa di tante canzoni inni alla fiducia in se stessi. Perfino
  le bands di heavy metal rinunciano al look tutto pelle e borchie ed all’aria
  truce per darsi un’ immagine più leggera, colorata, sofisticata, creando poi
  un suono adatto ai nuovi tempi, tanto distante dai canoni consueti da venire
  battezzato in maniera quasi antitetica: class
  metal. Sì: classe. Perfino la metallurgia
  pesante (è questa la traduzione esatta, per essere precisi...) scopre che
  non si può rimanere incazzati e immusoniti sotto il cielo cristallino (smog
  permettendo...) della California, in quella Los Angeles che dopo anni di buio
  si ritrova capitale indiscussa del nuovo fenomeno musicale, la nuova mecca
  per le bands che vogliono inserirsi e ritagliarsi un posto sotto quel sole
  splendente. New York ed i suoi locali vanno in naftalina, e i nuovi luoghi di
  culto si chiamano Roxy, Troubadour, Gazarri’s, Blue Jay, Country Club, Cathouse.
  La scena di L.A. è la scena, e
  fatto salvo il minuscolo palcoscenico aperto nel New Jersey da Bon Jovy,
  tutta la saga dell’AOR si svolgerà nella città degli angeli, la città di
  Hollywood e Disneyland, fra le sgargianti scenografie di cartone racchiuse
  tra le spiagge di Venice e le ville di Malibù: un inequivocabile segno dei
  tempi e di ciò che l’America desidera dalla sua nuova colonna sonora. E
  lo spettro di quel suono è tanto vasto da poter venire incontro ad ogni gusto
  ed esigenza. Ad un estremo stazionano la teatralità eccessiva e
  gradguignolesca dei WASP ( ossia: We Are Sexuals Perverts...), la
  pericolosità glam dei Motley Crüe, il pop metal scanzonato dei Ratt, la
  calcolata rozzezza elettrica ed anthemica dei Twisted Sister, la potenza metal/melodica
  dei Dokken; all’altro, le melodie levigate dei Journey e dei Foreigner, i
  richiami alla tradizione blues dei Great White, la rassicurante immagine da
  “bravo ragazzo” di Bon Jovy, il fascino sovrano degli Heart e della loro
  formidabile e bellissima cantante. In mezzo, una sterminata massa di bands
  che esplorano ogni possibile variante e sfumatura del connubio hard rock +
  melodia. Anche il più leggero pop-rock da classifica si ripresenta con una
  nuova tempra e lame più affilate: Bryan Adams, Aldo Nova, i Toto, Rick
  Springfield interpretano quella temperie che vuole volumi alti e chitarre a
  manetta anche nei più facili refrain da FM. E’ un’alluvione di elettricità
  che invade ogni angolino dove ci sia necessità o voglia di musica: perfino i
  jingle pubblicitari e le colonne sonore dei telefilm vengono ritmate a tempo
  di rock duro.  Se l’Europa viene
  contagiata da questa febbre tardi e in modo blando, il Giappone risponde
  entusiasticamente alle nuove sollecitazioni che arrivano dal Nord America,
  diventando a tutti gli effetti il secondo mercato per le bands di AOR.
  L’affermazione indiscutibile, anche a livello di puro trend giovanile, passa
  attraverso la neonata MTV, dove i video-clip delle AOR bands escono spesso e
  volentieri dal recinto loro assegnatogli ( il leggendario Headbangers Ball, che nel periodo di
  maggior successo del genere stabilì probabilmente il record interno di durata
  per una trasmissione della rete musicale, arrivando a tre ore tonde tonde)
  per sconfinare in heavy rotation. Il
  cambiamento di sound era stato accompagnato - inevitabilmente - da un nuovo
  look. La trasandatezza dei ’70 aveva lasciato il posto ad uno sgargiante,
  ridondante insieme fatto di chiome platinate, fluenti o permanentate con
  chili di lacca, pantaloni di pelle o spandex multicolori, stivali da cowboys,
  spolverini di seta, lustrini, il tutto più o meno caricato a seconda dei
  generi specifici in cui le bands si andavano a situare, con i vari act del
  rinato movimento  glam esplosi nella
  seconda metà del decennio che aggiungevano al tutto anche make-up e pose
  ambigue. E’ un look deliziosamente falso, studiato per catturare gli occhi e
  dare preciso il senso della distanza
  fra musicisti e pubblico, l’opposto della spartana semplicità dei vecchi act,
  che salivano sul palco vestiti come i ragazzi che stavano qualche metro sotto
  di loro a guardarli suonare. Perché questo pubblico non ricerca la
  partecipazione, ma solo l’incanto, lo shock sensorio: vuol farsi avvincere,
  non convincere; farsi prendere in un vortice, non fare due chiacchiere. Nulla
  esprime meglio tutto ciò del titolo di un album dei WASP: Inside the electric circus. Tuffiamoci
  nel Circo Elettrico.   Questa
  lunga ubriacatura collettiva non poteva protrarsi all’infinito. I segnali che
  l’etica del “me ne frego” era destinata a produrre una serie quasi
  irreparabile di disastri non erano certo mancati. E la gente, nonostante ciò
  che pensano i politici e gli intellettuali, non è poi tanto stupida. In
  musica, questi segnali portarono all’attenzione del pubblico un nuovo genere,
  lo street metal, che tenne banco per qualche anno dall’ ’87 in poi. Se i suoi
  più noti e chiassosi esponenti restano ancora oggi i Guns’n’Roses, forse i
  migliori e più sinceri alfieri del movimento furono L.A. Guns e Faster
  Pussycat. Più violenti e punkeggianti i primi, più decadenti e glam i
  secondi, agli occhi della gente rappresentavano comunque lo stesso messaggio:
  perfino sull’Hollywood Boulevard non è tutto oro quel che luce. Era la rabbia
  e la pericolosità del rock nella sua forma più tradizionale che rifaceva
  capolino dopo anni di rappresentazioni edulcorate, di concerti ridotti spesso
  a spettacoli di varietà, di provocazioni alla rovescia di bands come gli
  Styper che durante i loro shows lanciavano Bibbie al pubblico... Gli
  anni’80 tramontavano fra bagliori corruschi, e la notte incombente era più
  nera del nero. Tutti sapevano che la festa stava per concludersi, e che
  l’inevitabile doposbronza sarebbe stato durissimo. Ma l’atteggiamento di
  molti, anche in musica, era freddo, compassato. Tante bands, pur di fronte ai
  segnali allarmanti che spuntavano ormai dappertutto, continuavano
  imperterrite lungo la strada dell’hard rock sofisticato, in una progressione
  che proprio in quegli ultimi anni avrebbe prodotto i frutti più splendidi e
  luminosi: Giant, House of Lords e, naturalmente, loro, che, citando Verlaine, potevano ben dire:    Io sono l’Impero alla fine della
  Decadenza, che guarda passare i grandi barbari bianchi, componendo acrostici indolenti, d’uno stile d’oro in cui danza la
  luce del sole...   * * *   I
  frutti più interessanti vengono generati spesso da unioni contro natura, da
  combinazioni poco probabili di fattori già noti, ed hanno vita breve e
  tormentata.  I Bad English appartengono
  a questa genia: nacquero dall’incontro di tre elementi ben distinti,
  splendettero luminosi come bengala in una notte senza luna, e durarono appena
  tre anni. Le  componenti basilari
  erano due coppie di musicisti che rappresentavano schegge fondamentali di
  bands già leggendarie: Neal Schon e Jonathan Cain, chitarra e tastiere, il
  cuore pulsante dei Journey; John Waite e Ricky Phillips, voce e basso,
  l’anima vibrante dei Babys. A completare il cerchio, Dean Castronovo,
  batterista di estrazione heavy metal. Era un’equazione inedita, eppure
  singolarmente azzeccata: il nucleo della band che aveva inventato l’AOR, un drummer fragoroso, un singer dalla voce nello
  stesso tempo così rock e così fragile. Alla fine degli anni ’80 il trend per
  l’hard melodico era fatto di volumi più alti ed un’aggressività più
  metallica, ma senza intaccare l’ampiezza dello spettro melodico: più acciaio,
  insomma, ma senza rinunciare a neppure un centimetro di seta. Tutto si
  riduceva alla ricerca di un equilibrio che pareva instabile, e lo era.
  Occorreva una bravura mostruosa ed un talento sconfinati per camminare lungo
  quel filo così sottile. Loro
  l’avevano, e non si limitarono ad una semplice passeggiata, ma si esibirono
  in volteggi e acrobazie irripetibili. Il
  primo, omonimo album uscì nel 1989. Prodotto da Ritchie Zito - che si avvalse
  della collaborazione come ingegneri del suono e mixer di Phil Kaffel e Mike
  Fraser - con il robusto supporto nel songwriting di grossi calibri come Mark
  Spiro, Diane Warren, Martin Page, Bad
  English era una prova nello stesso tempo raffinata e fragorosa di
  lucidità compositiva, che riassumeva con esemplare chiarezza tutto il meglio
  che l’AOR poteva esprimere in quel particolare momento storico: “Best of what
  I got” era un titolo più che mai azzeccato per la canzone che apriva l’album,
  introdotta da una scintillante sezione fiati e da un solo spettacolare e
  vanhaleniano di Neal Schon. Parafrasando: questo è tutto il meglio che
  possiamo offrirvi. Il
  percorso disegnato dalle tredici canzoni del disco era un continuo via vai
  tra i due poli opposti attorno a cui si è dipanato il filo dell’AOR: il
  romanticismo mai edulcorato e zuccheroso, e l’assalto frontale all’insegna
  del sex & fun. C’è quasi sempre
  una lei a cui John Waite si rivolge, con toni accorati (“Tought time don’t
  last”), teneri (“When I see you smile”), tentatori (“Heaven is a four letter
  word”), suadenti (“Price of love”, “Possession”), malinconici (“Ghost in your
  heart”), sfacciati ( “Lay down”, “Rockin’horse”, “Best of what I got”), minacciosi
  ( “Forget me not”). Il sound della
  band prende le mosse da quello già ampiamente collaudato dei Journey, ma ne
  amplifica e dilata lo spettro, estendendone e irrobustendone le trame: le
  chitarre si moltiplicano, la batteria s’innalza tuonante, i tappeti di
  tastiere si sovrappongono in maniera spettacolare, e anche le ballad più
  intense vengono avvolte in arrangiamenti ricchi di forza e colore, di suoni
  brillanti ma mai pomposi o sovraccarichi. Spesso e volentieri, la band
  deborda nel puro e semplice hard rock: melodico, of course, ma sempre decisamente hard, ed è straordinario sentire
  con quale autorità la voce esile di John Waite riesce a dominare l’incalzare
  affilato e funkeggiante di “Lay down”, a cavalcare il riff simil-zeppeliniano
  di “Ready when you are”, a tenere saldamente le briglie della scatenata
  “Rockin’ horse”. E la proposta non perde un grammo della sua raffinatezza
  neppure quando i volumi aumentano e i testi si fanno impudenti e carichi di
  allusioni: mai, prima, una band aveva dimostrato una tale dose di quella
  qualità così difficile da definire che viene chiamata classe, e che qui prende la forma di una sofisticata eleganza che
  neppure i facili refrain possono camuffare. E
  Bad English non rappresentava una fonte di puro e semplice intrattenimento,
  ma un manifesto di quella dorata spensieratezza che aveva dominato l’animo
  degli yankees durante tutti i Big 80’s, un invito a chiudere tutto fuori e
  dedicarsi alle cose essenziali della vita: l’amore ed il divertimento. Non
  c’è spazio per il disagio, l’incertezza, l’indecisione, si punta dritto al
  bersaglio, lavorando attorno alla più classica iconografia rock, e John Waite
  può cantare con assoluta convinzione I
  pack a suitcase/ and move from town to town/ a little east of Eden/ too late
  to turn around oppure Desert
  highway to a memory/ I said that I’d come back for you/ by the jukebox at the
  starlight grill/ kickin’ out some Elvis tune... sono quarant’anni di
  immaginario del rock americano distillati in pochi, efficacissimi  versi. Un quadro dai colori squillanti,
  vividi, dove non può esserci posto per le ombre, e anche il malessere
  giovanile messo in musica in “The restless ones” viene esorcizzato con
  l’energia e l’entusiasmo: On the
  streets of this town there is no surrender/ They’ve got a number for every
  name/ Buildings and shopping malls seem like a stage for pretenders... They criticize the clothes you wear/ they try ad
  make you feel like stranger/ But you do things they wouldn’t dare... The wild
  heart is calling us in the night, a primitive love in your eyes/ Out on the
  wasteland of broken dreams go you and I, we’re the restless ones... Ma
  le ombre, quelle ombre che nessuno voleva vedere, erano lì, in agguato...   * * *   Nel
  1991, una band di nome Nirvana si ritrova quasi da un giorno all’altro con il
  suo secondo album, ‘Nevermind’, al numero uno di Billboard. Non si potrebbe
  immaginare qualcosa di più radicalmente diverso nella musica e nel look di
  questi tre ragazzi giunti da una delle città più deprimenti degli USA -
  Seattle, al confine col Canada, dove piove trecento giorni l’anno - da quanto
  era andato per la maggiore fino a quel momento. I REM ed i Sonic Youth, i
  primi Black Sabbath ed il punk americano vengono impastati e sbriciolati e
  trasposti in salsa guitar-pop: la perfetta traslazione del troppo
  intellettuale college-rock per i gusti più semplici degli adolescenti, il
  tutto condito di testi anarco-nichilisti che puntano a solleticare ed
  attizzare furbescamente il disagio giovanile più che a lenirlo o a dargli una
  risposta. Le nuove parole d’ordine sono rabbia e indolenza, il divertimento
  smette di essere cool, e Kurt
  Cobain diventa l’ennesima incarnazione di Werther, terminando la sua vita
  nell’unico modo ammissibile per il ruolo di eroe maledetto che la stampa, i
  discografici ed i suoi fans sparsi in giro per il mondo gli avevano cucito
  addosso: sparandosi un colpo di fucile in faccia. Bisogna
  ammettere che all’alba dei novanta non c’era poi molto da stare allegri: la
  recessione era tornata a colpire, e l’America si ritrovava piena di
  disoccupati e con un debito pubblico spaventoso; la prima guerra del golfo
  aveva fatto il resto. Ma tutto questo non può bastare a spiegare il
  cambiamento di rotta repentino e violento che quasi da un giorno all’altro
  lasciò disoccupate torme di AOR bands. Piuttosto, ci fu un deciso voltafaccia
  dei discografici, che scelsero in blocco di puntare sul nuovo trend musicale,
  pilotandolo come mai prima era avvenuto, spremendolo come un limone e
  seppellendolo in fretta e furia quando nuove sensazioni si affacciarono
  all’orizzonte. I
  pochi superstiti della stagione precedente che ancora avevano il sostegno
  delle majors non faticavano troppo a tenere il mercato: Def Leppard, Van
  Halen, Bon Jovy continuarono tranquillamente a fare dischi (e a venderli)
  alla faccia dei Pearl Jam (che rimangono 
  a tutt’oggi la più raffinata ed ipocrita macchina per fare soldi mai
  messa in piedi dallo show business, una band che ha elevato la falsità e la
  sete di guadagno ad opera d’arte, e riesce a tradurre compiutamente e fino al
  suo fondo coperto di marciume il senso 
  di quella frase sibillina che tante volte è risuonata durante questo
  mezzo secolo di musica destinata al pubblico più giovane e sprovveduto: La grande truffa del rock’n’roll...).
  Ma indubbiamente, per tutti gli altri si preparavano tempi nerissimi. Chi
  tentò la carta della conversione alle nuove sonorità generalmente non
  ricevette in cambio che pernacchie o indifferenza: il caso dei Motley Crüe
  parla per tutti. Posto che le quote di mercato si erano ridotte, ci sarebbe
  comunque stato spazio per l’AOR nei cataloghi delle case discografiche, e per
  qualche tempo - un anno, forse due - il dubbio che il neonato grunge non
  fosse altro che un fuoco di paglia tormentò i consigli d’amministrazione delle
  grandi corporations del disco al punto da indurli a sostenere ugualmente -
  pur tra mille dubbi e ambiguità - quegli artisti che portavano avanti un
  discorso musicale cominciato ormai dieci anni prima. Di album registrati ma
  mai pubblicati, oppure ritirati dal mercato dopo pochi mesi potremmo fare un
  elenco lungo mezza pagina. Forse anche i Bad English  avrebbero rischiato di vedere il loro
  secondo lavoro, Backlash,
  condannato a diventare un disco fantasma, come quelli di Unruly Child o
  Beggars & Thieves, se non si fossero sbrigati a pubblicarlo proprio in
  quel fatale 1991.   * * *   La
  fine della festa era ormai nell’aria, le ombre s’addensavano. C’era quasi un
  senso di catastrofe imminente che aleggiava su L.A.. E secondo il più
  classico dei copioni, tutti cercavano di ignorare quanto stava per capitargli
  tra capo e collo. Oppure, sovranamente sprezzanti, tiravano per la loro
  strada. E’ di questo clima che si fa interprete la canzone che apre Backlash, “So this is Eden”. Too far gone to turn around/ as I make it into
  town... Sì, troppo tardi per tornare
  indietro, e allora avanti, avanti... Il tono di quest’anthem raffinatissimo è
  solo in apparenza scanzonato: c’è una nota struggente, malinconica, quasi
  disperata e nello stesso tempo gelidamente divertita che risuona nella voce
  di John Waite. È la voce di chi sente che i bei giorni sono al capolinea, e
  quel che resta è godersela comunque finché è possibile: Hit the freeway to the skyline/ need some faster ecstasy. E così: I thought I saw Jesus in the hotel room/
  As we made love on the balcony/ with a drink in my hand/ Like they said it
  would be, yeah/ So this is Eden... Dunque,
  questo è l’Eden: breve, finto, effimero. L’Eden è Los Angeles, la
  città di cartone e celluloide, perennemente in attesa di un Big One che la
  spazzi dalla faccia della terra, la Los Angeles sarcasticamente ritratta in
  “Life at the top”, dove if you’ve got
  the  image/ And symbol of success/ You
  must me doing something right/ To keep up with the Jones’s, la città dove If you get up on the table/ You’re gonna
  lose your place e If you need a
  plastic surgeon/ I know an ace/ You can’t change your past/ But he can change
  your face. L’atmosfera
  che aleggia su Backlash è  - salvo per un paio di episodi isolati -
  solo lontana parente di quella che impregnava ogni nota di Bad English: qui c’è un feeling che
  sta al confine della malinconia, un senso di attesa, come di chi contempli un
  tramonto sfavillante e poi goda le lusinghe del crepuscolo ben sapendo che la
  notte non porterà che tenebre e gelo, ma deciso a godere ogni istante le
  dolcezze di quell’ambigua terra di confine situata tra il giorno e la notte,
  dolcezze che traggono la loro fonte proprio dalla natura ambigua, fugace ed
  illusoria di quella terra. Se ad un album si possono associare dei colori,
  questo risplende di oro rosso, azzurro cupo, quell’azzurro luminoso e tramato
  di nero che è l’essenza stessa del crepuscolo, l’azzurro che risplende e
  abbaglia ma senza dare vera luce. Sono i colori di “Savage blue”, di
  “Straight to your heart”, di “Make love last” e, sopratutto, di “Time stood
  still”, la ballad capolavoro, la ballad perfetta.
  Se le parole potessero tradurre fedelmente la magia e le emozioni, a questa
  sola canzone si dovrebbe dedicare un saggio, un libro intero. Ma dato che
  note e lettere non sono intercambiabili (e che la critica strutturalista,
  nella sua ansia di arrivare al fondo meccanico e puramente tecnico di
  qualsiasi forma d’espressione artistica, non è arrivata ancora a macellare ed
  a fare l’autopsia anche alla musica rock), un libro del genere credo non lo
  leggeremo mai... grazie a Dio.  The
  first time that I saw you, you were dancin’ on the beach/ Poetry in motion,
  but you seemed so out of reach/ And the waves were breakin’ round you, in the
  California sunset... Sono le parole
  che John Waite quasi sussurra dopo le prime note modulate dalla chitarra
  acustica di Neal Schon, per quest’unica occasione reminiscente di qualche
  lontana jam dei Santana. Magia... Per qualcun altro, solo una
  rappresentazione plastificata, edulcorata, irreale. Ma la storia che in pochi
  versi ci racconta il cantante, la ragazza bionda incontrata sulla spiaggia al
  tramonto, le mani che si toccano, la notte passata assieme, l’alba, lei che
  va via, per sempre, ma il tempo per me si è fermato, si è fermato a quella
  notte... Chi non ha mai sognato di vivere qualcosa del genere, scagli la
  prima pietra. E se pure sono centinaia le canzoni che hanno un testo
  imperniato su una vicenda di questo tipo, nessuna forse è mai riuscita a
  rappresentarla con più intensità ed oltre qualsivoglia romanticismo di
  maniera. Perché questo è Adult
  Oriented Rock, lo sguardo disincantato di chi ha vissuto qualche inverno più
  degli altri sulla terra. Disincantato, ma nient’affatto distaccato. Le
  emozioni, il richiamo dei sensi viene vissuto semplicemente in maniera meno
  tumultuosa, ma più profonda, viscerale. Quel richiamo, quella voce che è la
  nota vibrante nell’altro capolavoro assoluto del disco, “Pray for Rain”. Qui
  la passione non è dolcezza e nostalgia nel ricordo, ma un fuoco che brucia e
  ossessiona. Slave to a servant/ A prisoner to a kiss/ Addicted
  to temptation/ And we did not resist... La musica traduce con un’intensità da brividi
  quell’atmosfera sospesa, il riff avvolgente e nervoso scandito dalla
  chitarra, il pulsare del basso, i panneggi cupi e irrequieti delle tastiere e
  poi la voce di John Waite che si incunea fra quelle note sospese e
  palpitanti, una voce che vibra di attesa e di tensione, invocando la fine di
  quell’arsura eppure riconoscendone fino in fondo la natura inestinguibile:  Now
  I’m a stranger to myself/ Now my life is not my own/ She won’t leave my soul
  alone/ She’ll just lead me to the river/ As my heart goes down in flames/
  Till she comes back to me/ I’ll have to pray for rain. Il
  messaggio è chiaro: non c’è fuga, né redenzione. E per i restless ones cantati nel primo album può finire male, malissimo,
  come ai due protagonisti di “Rebel say a prayer”, a cui rimane solo il sogno come scappatoia ad un mondo
  implacabile: Rebel say a prayer/ That
  there’s a place somewhere/ Where rock and roll goes on/ And we’ll be free/
  Where Cadillacs have wings/ A place where Elvis sings/ for you and me...
  Ma i sogni non possono chiudere la porta in faccia alla realtà... And the cops are waiting down the street/ They both
  know that there’s no way out/ Johnny pulls his gun/ And all hell breaks
  loose...   * * *   Quando
  Backlash fece la sua comparsa nei
  negozi, i Bad English già non esistevano più. John Waite lo fece capire
  suggellando con un “The End” la sua lunga lista personale di Thanks To
  nelle note del booklet. Insoddisfatto di quel
  discorso troppo hardeggiante, pretese un produttore tutto per sé che
  soprintendesse esclusivamente alle sue linee vocali, mentre il resto della
  band lavorò con Ron Nevison. Ciò non bastò a dissuaderlo dal mollare e tornare
  a quella musica pop che doveva parergli terreno molto più sicuro per la sua
  voce, bellissima ma obiettivamente tutt’altro che potente. Caduta
  la chiave di volta che reggeva quell’architettura così ardita, tutto si
  sfasciò senza che nessuno degli altri tentasse di puntellarla. Neal Schon si
  aggregò temporaneamente agli esordienti Hardline, per poi riformare i Journey
  assieme a Jonathan Cain; Ricky Phillips andò in tour con David Coverdale e
  Jimmy Page, pubblicò il bellissimo disco con Fergie Fredericksen alla voce,
  passò a dedicarsi all’attività di session man e produttore, e recentemente è
  entrato a far parte degli Styx; Dean Castronovo seguì Neal Schon negli
  Hardline, poi ricominciò l’attività di
  turnista prima di unirsi ai Journey per ‘Arrival’. Nel bel mezzo della
  pseudo-rivoluzione grunge, furono pochi quelli che si accorsero che la più
  grande AOR band mai comparsa sulla faccia della terra non esisteva più.   * * *   Alla
  domanda su cosa sia l’AOR oggi, è difficile trovare una risposta. Ci sono
  meno di una decina di etichette sparse in giro per il mondo che producono e
  pubblicano dischi di questo genere, e sinceramente non ho idea dei volumi di
  vendita che totalizzano. La quantità di proposte è sicuramente imponente, tra
  novità e ristampe, ma troppo spesso la qualità è un optional e tutto si
  riduce ad uno stanco rimasticare di vecchie cose. Che l’Adult Oriented Rock
  possa tornare a dominare la scena musicale, più che un sogno mi pare una
  chimera: se neppure il ritorno dei Journey in formazione originale è riuscito
  a dare una scossa al pubblico, se i Giant hanno trovato accoglienza per il
  loro terzo album (e che album!) solo presso l’italiana Frontiers, non mi pare
  realistico sperare che qualche nuovo act conquisti la fiducia di una delle
  labels che contano per preparare un rilancio in grande stile... anche se
  quello che sta succedendo con i The Darkness parrebbe smentire queste
  pessimistiche considerazioni di natura commerciale. Il
  punto è però un altro. L’AOR ha rappresentato qualcosa di ben preciso per
  l’America degli anni ’80, rispondeva a delle esigenze, interpretava una certa
  way of life. Anche se non si può
  escludere a priori un’adesione sincera a quel gusto ed a quel modo di
  interpretare la musica rock, le tante bands svedesi, tedesche ed inglesi (per
  tacere di quelle spagnole, portoghesi, greche, eccetera) che formano oggi uno
  dei pilastri più solidi dell’hard rock melodico, non possono che limitarsi a
  proporre degli esercizi di stile, buoni finché si vuole, ma slegati
  inevitabilmente da quel clima che aveva creato e alimentato la scena. In
  quanto alle bands americane, è difficile capire fino a che punto portino
  avanti con sincerità quel discorso: la gran parte di esse, poi, è formata da
  reduci degli anni ’80, le nuove leve sono un’esigua minoranza ed è proprio
  questo particolare ad alimentare le previsioni più nere. Il cosiddetto “Nuovo
  Rock Melodico” che pretende di mescolare AOR ed hard rock moderno, e di cui
  si sono fatti portabandiera anche una “vecchia” band come gli Harem Scarem,
  personalmente mi lascia freddo e indifferente come un macigno, e mi appare
  come un ibrido senza capo né coda: considerato lo scarso entusiasmo
  dimostrato dal grande pubblico verso tale genere di esperimenti, non mi pare
  che il futuro sia destinato a passare attraverso questi sentieri. In
  definitiva, non si può rispondere alla domanda “Dove va l’AOR?”  che con un gigantesco punto interrogativo.   * * *   Uno
  dei vezzi a cui l’attuale scena AOR proprio non sembra voler rinunciare è
  quello dei ritorni di bands più o meno storiche, più o meno grandi e/o
  famose.  Negli anni, citando alla
  spicciolata, abbiamo visto ricomparire monickers come XYZ, Hurricane, Axe,
  Loverboy, Bystander... per non parlare di Journey e Giant. Recentissimo è il
  ritorno di pilastri del genere come gli House of Lords (che però, alla luce
  di quanto appena pubblicato, col genere in discorso hanno ormai ben poco a
  che fare). La domanda, inevitabile, è: rispunteranno anche i Bad English? Non
  credo sia necessario invocare la protezione e la tutela degli angeli custodi
  dell’AOR che ci scampino da questo pericolo, perché un riemergere dalle
  nebbie del passato di quel monicker è davvero improbabile. Accontentiamoci di
  sentirne gli echi nelle canzoni di tutti quelli - e non sono pochi - che li
  tengono come guida sicura per muoversi in quell’oceano sconfinato che era (e
  forse è ancora oggi) l’Adult Oriented Rock. Che è stato ben più di un po’ di
  chitarre in overdrive ed una voce che urlava “Let’s paaarty!!”.  E basta ascoltare questi due album per
  capirlo. 
 ©
  2004 AORARCHIVIA  | 
 
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