E’ cominciato tutto a metà anni ’80. Ad aprire la strada sono stati i Great White e gli ZZ Top, a spianarla i Tesla, a trasformarla in un’autostrada a sei corsie gli Aerosmith. L’hard rock ritrovava il suo padre spirituale, il blues. E da questo ritorno a casa traeva linfa vitale, forza ed un fascino sconfinati. I nomi che si fecero devoti di questa causa quasi non si contano: Kingdome Come, Cinderella, Badlands, Dirty White Boy, Salty Dog, Lynch Mob, Delta Rebels, Tora Tora, Little Caesar, Katmandu, Black Crowes... un fiume che pareva inarrestabile, ma è finito invece inghiottito anche lui dal terremoto che il grunge provocò sulla scena musicale americana nei primi anni 90. Nell’ HARD BLUES DEPARTMENT di AORARCHIVIA, tutte le recensioni dei dischi delle bands che furono protagoniste di questa magica stagione.

 

 

 

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THE SCREAM

 

 

  • LET IT SCREAM (1991)

Etichetta:Hollywood Reperibilità:scarsa

 

Per questa band si potrebbe fare un cappello introduttivo nello stesso stile di quello dedicato ai Tall Stories. The Scream sono stati la band di John Corabi, il povero cristo che si sobbarcò il compito ingrato di prendere il posto di Vince Neil nei Mötley Crüe in quel disco autointitolato, bello e incompreso che uscì nel 1994. Come sia andata poi, lo sappiamo tutti, e chi non ne sapesse abbastanza può leggere il pezzo che ho dedicato ai Crüe. Dopo essere stato emarginato e costretto al ruolo di chitarrista ritmico, John fece le valige e si unì in successione agli Union (gran bel disco), ai Ratt (dove però si limitava a suonare la chitarra, al posto del povero Robbin Crosby), agli Zen Guerrilla. Doveva partecipare anche al progetto Brides Of Destruction ma lasciò la band prima del debutto discografico: quando c’era Nikki Sixx di mezzo, le cose evidentemente non volevano proprio saperne di girare per il verso giusto...

Ma, prima di tutto questo, erano venuti gli Scream. Che nacquero dalle ceneri dei Racer X, la band losangelena divenuta l’ufficio di collocamento per i quartieri alti dell’hard rock, lanciando Paul Gilbert, il chitarrista diventato poi celebre con i Mr. Big,  Jeff Martin, nato cantante e passato dietro i tamburi con i Badlands, e Scott Travis, il batterista che prese il posto di Dave Holland nei Judas Priest. I due superstiti, il chitarrista Bruce Bouillet ed il bassista John Aldrete, forse piccati dall’aver fatto la figura delle scartine che nessuno vuole, decisero di coalizzarsi per lanciare una nuova band che doveva chiamarsi prima Saints And Sinners, poi mutò il monicker in The Scream. Come batterista venne arruolato Walt Woodward III, già con Americade e Shark Island, mentre come singer venne pescato proprio il nostro John, prelevato dagli Angora (che avevano fatto da supporto ai Racer X) e passato brevemente tra le fila di Britny Fox e Skid Row.

Non so se il cambio di monicker fu una scelta obbligata, ovvero se il marchio “Racer X” fosse di proprietà di qualcuno dei fuoriusciti, ma considerato che la musica proposta dai The Scream era abbastanza distante dal power metal che aveva reso più o meno celebre la band californiana, si può comprendere il desiderio di Bouillet e Aldrete di fare piazza pulita del passato. La Hollywood Records oltretutto non lesinò mezzi per la promozione e gli Scream per qualche tempo divennero la next big thing, con i soliti maligni che si affrettarono a catalogare la band tra quelle raccomandate senza neppure prendersi la briga di ascoltare il disco.

Escludendo la conclusiva “Catch me if you can”, un fast metallico, probabile fondo di magazzino rimasto a prendere polvere dopo la chiusura dell’emporio Racer X e riciclato per l’occasione (buona, comunque), le coordinate dell’album lo situano in territori spiccatamente blues e root, e difatti i primi nomi che vengono in mente da associare agli Scream sono Cinderella e sopratutto Dirty White Boy. L’iniziale “Outlaw”, “Give it up” e “Every inch a woman” parlano la stessa lingua della sfortunata band di Earl Slick, quella del blues metallizzato, di un hard rock deciso ma con forti basi root: “Outlaw” è serrata e priva di fronzoli, “Give it up” viene aperta da un intro di slide guitar ed ha un assolo rock’n’roll su un riff martellante, “Every inch a woman” è più scanzonata, con qualcosa dei Little Caesar. Su “Believe in me”, “Loves got a hold on me” e “You are all I need” spuntano i Cinderella di ‘Heartbreak station’ in una versione più rude e metallica, con un sax che apre l’assolo della prima e le altre due con cori quasi soul, tanto Hammond e cori femminili. Il sax torna a squillare anche nell’assolo di “Tell me why”, un funk incandescente che pure deve molto alla band di Tom Keifer, “Father, mother, son” è una power ballad elettroacustica con un discreto flavour root, mentre “Never loved anyway” è un meraviglioso country blues acustico spezzato da un assolo (ovviamente) di lap steel. “Man in the moon” e “I don’t care” mi sembrano il top assoluto, la prima un hard blues strepitoso, la seconda un incalzante rock metallico, sono caratterizzate entrambe da una fortissima ascendenza Zeppeliniana: più diretta e spettacolare la prima, più notturna e suadente e con un coro vagamente funky la seconda. La produzione di Eddie Kramer è (come sempre) impeccabile, Bruce Bouillet si rivela chitarrista completo, perfettamente bilanciato tra feeling e maestria esecutiva e John Corabi illumina letteralmente il disco con la sua voce fascinosa e impossibile: chiara, rauca ed acida nello stesso tempo.

Le vendite non andarono male, e per la band avrebbe potuto esserci futuro se non fosse arrivato il grunge e Corabi non avesse ceduto alla tentazione (sicuramente malsana, anche senza il proverbiale senno di poi) di diventare il nuovo front man dei Mötley Crüe. Dopo la sua uscita, la band inserì come singer Billy Scott e si ribattezzò prima DC10 poi Stash, prima di sciogliersi per manifesto disinteresse dei discografici.

La reperibilità di ‘Let it scream’ sul mercato dell’usato è ottima e i prezzi richiesti generalmente più che abbordabili. Da recuperare senza incertezze.

 

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TANGIER

 

 

 

  • FOUR WINDS (1989)

  • STRANDED (1991)

 

Etichetta:ATCO

Ristampe: Wounded Bird

Reperibilità:in commercio

 

Chi, al giorno d’oggi, vuol dedicarsi a generi musicali più o meno lontani dal gusto medio del grande pubblico non trova nessun serio ostacolo di natura tecnica a sbarrargli la strada: bastano un computer ed una carta di credito per trovare qualsiasi cosa, vecchia o nuova che sia (e se si è di pochi scrupoli, basta il computer, e a buon intenditor...). Una volta era diverso. Molto, molto diverso. Quando, nel 1989, lessi su una rivista la recensione del secondo album dei Tangier, corsi nel solito, sempre ben fornito negozio di dischi per comprarlo, e mi venne comunicata la ferale notizia: non era importato. Nonostante fosse pubblicato dalla ATCO, la sottoetichetta rock dell’Atlantic, che da poco era stata acquistata dalla Warner (una major label, dunque), quell’album non veniva distribuito in Europa. Punto. Fine della conversazione. Per ottenerlo avrei dovuto cercare un negozio specializzato in import o rivolgermi ad un mail order, ma a quell’epoca i pochi che si occupavano di quell’attività in campo hard rock / metal, privilegiavano l’underground più underground, così che era più facile ordinare via posta il thrash polacco o brasiliano, il grind norvegese o l’hardcore punk giapponese che un disco di AOR, e comunque il prezzo sarebbe stato circa il doppio rispetto ad un album regolarmente distribuito in Italia. Per fortuna, dopo due o tre anni, anche ai Tangier toccò l’onta dei forati, quelle copie in sovrappiù che il mercato americano smaltiva sottocosto all’estero, e ‘Four winds’ entrò in mio possesso in versione CD per la miserabile somma di lire 3.900.

Four winds’ era dunque il secondo album dei Tangier. Il primo, uscito nel 1986, fu poco più di un demo di lusso, finanziato dal manager dell’epoca della band e pubblicato dalla sua etichetta personale (la Wolfe) solo su cassetta (così esordirono altri due act della stessa agenzia, i Britny Fox e gli Ivory Tower, rispettivamente nel 1987 e nell’’88). Quasi superfluo specificare che a quest’album si può ben associare l’aggettivo “fantomatico”, nel senso che praticamente nessuno l’ha mai visto, non solo in Europa ma pure negli Stati Uniti, e magari neanche i Tangier stessi. Archiviata questa bizzarria, i Tangier misero a frutto l’amicizia con Tom Keifer (venivano dall’area di Philadephia, come i Cinderella) e dopo essere entrati nella scuderia di Larry Mazer (il manager di Tom Keifer & compagni) spuntarono un contratto per la ATCO, che li mandò in studio con Andy Jones, all’epoca produttore dei Cinderella.

Gli stretti legami con la band di ‘Long cold winter’ potevano far sospettare una certa unità d’intenti, e in effetti così era, anche se l’approccio dei Tangier alla materia si rivelava molto diverso rispetto a quello adottato dai Cinderella, ed anzi, il cammino delle due band si sarebbe rivelato poi diametralmente opposto, con Tom Keifer che guardava con sempre più interesse al passato mentre i Tangier attualizzavano la loro proposta con ‘Stranded’ rispetto a quanto avevano fatto in ‘Four winds’. Il loro secondo album era, difatti, uno straordinario trattato di rock blues, decisamente retró nelle fonti di ispirazione ma con arrangiamenti e suoni brillanti e moderni. Queste fonti avevano sopratutto i nomi degli Whitesnake (ante ‘1987’, of course), dei Bad Company, e in generale del miglior southern rock: sul disco spirava spesso un’atmosfera da film western (la copertina, da sola, già diceva tutto) sostenuta da testi pertinenti. La grande forza di ‘Four winds’ veniva proprio da questa mediazione tra vecchio e nuovo: anziché perdersi lungo le lande polverose del suono più vintage, i Tangier ne trapiantavano lo spirito nel fertile terreno dell’hard rock ottantiano, sopratutto nel senso di timbriche e arrangiamenti, costantemente rifiniti da tastiere e cori femminili. Era, insomma, non una semplice spolverata di vecchi cimeli, ma la reinterpretazione di un certo suono alla luce dei nuovi tempi.

Bill Mattson (voce, come un David Coverdale più acuto e nasale), Doug Gordon (chitarra solista ed unico songwriter), Gari Saint (chitarra ritmica), Garry Nutt (basso), Bobby Bender (batteria, ma gran parte delle percussioni vennero incise all’ex-Company Of Wolves Frankie LaRocka) chiarivano subito i loro intenti aprendo “Ripcord” con un synth-bass pulsante alla maniera degli ZZ Top era ‘Eliminator’, mentre “On the line”, “Mississippi”, “Southbound train” “Fever for gold”, “In time” ci trasportano su uno showboat del Grande Fiume o fra le pareti di un saloon, attraversando praterie dagli orizzonti senza fine. “Sweet surrender”, “Bad girl” e “Good loving” ripropongono con gusto l’estetica del Southern rock, all’epoca genere dato per morto e che di lì a poco sarebbe stato protagonista di una clamorosa resurrezione. Il capolavoro è la title track, una cowboy ballad da infarto, epica e struggente.

Four winds’ non andò male nelle classifiche per essere  l’esordio poco allineato alla mode vigenti di una band che non contava su un supporto promozionale fatto su vasta scala. Il numero 91 di Billboard raggiunto dall’album, visto da questa angolazione, poteva addirittura considerarsi un successo. Ma è chiaro che la band non giudicò il risultato in questo modo. Doug Gordon dovette credere che la formula adottata non avrebbe portato la band da nessuna parte e la mutò in maniera abbastanza radicale. Bill Mattson non gradì il cambiamento di sound e andò via o venne licenziato, e al suo posto arrivò Michael LeCompte, anzi ritornò, dato che LeCompte fu il primo singer della band, quando i Tangier erano ancora senza contratto. Pure Gari Saint lasciò il gruppo, e Doug Gordon si incaricò di tutte le parti di chitarra, mentre la produzione passò nelle mani di John Purdell e Duane Baron.

Anche ‘Stranded’ si presentava con una copertina eloquente, che lasciava presagire quanto le cose fossero cambiate rispetto a ‘Four winds’. Niente più scenario da Far West, niente look da cowboy, niente viraggio delle immagini in sepia tone. Un macchinone col cofano sollevato contro il cielo al tramonto e i ragazzi vestiti di jeans e pelle con le chiome platinate annunciavano lo sbarco della band in territori meno selvaggi e root, ma sopratutto la ricerca di un suono che – pur risolutamente blues – fosse più pesante, sporco e ruvido rispetto al passato. Il songwriting restava scintillante, ma quegli elementi caratterizzanti che avevano tirato la band fuori dal mucchio mancavano del tutto, e ormai i Tangier suonavano come gli altri gruppi di hard rock blues americano: Cinderella, Blackeyed Susan, Tattoo Rodeo, Dirty White Boy eccetera. Non che l’album non sia buono, tutt’altro, ma resta il rammarico per un discorso musicale abbandonato troppo presto, e di cui su ‘Stranded’ sopravvive molto poco, al punto che si potrebbe tranquillamente prendere il nuovo album per il parto di un’altra band. Che poi il pensiero di Doug Gordon fosse giustificato in quel particolare momento storico, quando Black Crowes e Lynyrd Skynyrd cominciavano a vendere dischi a carrettate...

Considerato per se stesso, senza ricordare ciò che i Tangier avevano fatto prima ed evitando confronti forse inopportuni con ‘Four winds’, anche ‘Stranded’ risulta un magnifico disco. “Down the line” è l’atto d’apertura, veemente, infuocata, tutta armonica e slide guitar, forse la cosa più vicina a quanto fatto sul primo album ma con un sound molto più sporco ed elettrico, e la voce di Michael LeCompte non risulta tanto lontana da quella di Bill Mattson solo molto più rauca e impastata. “Caution to the wind” è un mid tempo blues spezzato da un refrain arioso e dovete credermi sulla parola quando vi dico che pensai ai Survivor prima di aver letto il nome di Jim Peterick come co-autore della canzone assieme a Doug Gordon... Anche “You’re not the lovin’ kind” porta la firma di un ospite prestigioso, Eric Brittingham, ma più che ai Cinderella, qui i Tangier somigliano tantissimo ai Dirty White Boy: slide a manetta, riff martellante ed un clima rude. I Cinderella saltano fuori, invece, su “Since you been gone”, una bella power ballad che ricorda anche i Tattoo Rodeo (o viceversa? ‘Rode hard - put away wet’ uscì quasi in contemporanea con ‘Stranded’), come pure la successiva “Takes just a little time”, tra la cowboy song ed i blues Aerosmithiani periodo ‘Permanent vacation’. “Excited” è un boogie che rimanda ancora agli Aerosmith più scanzonati, e la band di Joe Perry viene omaggiata anche su “It’s hard” e “If you can’t find love” con ampio contorno di pianoforte e ottoni. Il top (almeno per me) sono “Back in the limelight”, che pur richiamando certe atmosfere di ‘Four winds’ risulta dinamica e cromata, con un refrain divertente, e la title track,  una power ballad con un coro arioso e suggestivo che spicca su un telaio vagamente Zeppeliniano.

La svolta hardeggiante non portò però fortuna alla band, ‘Stranded’ non entrò neppure nei top 200 e i Tangier svanirono come nebbia al sole. Doug Gordon e Tom Keifer misero in cantiere un progetto che però si fermò allo stadio dei demo, mentre Michael LeCompte uscì con una band a proprio nome assieme ad ex-Blackeyed Susan e Britny Fox, che proseguiva più o meno il discorso di ‘Stranded’, ma con molta più attenzione verso il suono dei vecchi Aerosmith.

 

 

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GUNS N' ROSES

 

 

  • APPETITE FOR DESTRUCTION (1987)

Etichetta:Geffen Reperibilità:in commercio

 

Nell’immaginario rock, la musica, a volte, conta veramente poco. C’è un disperato, urgente, categorico bisogno di personaggi. Non di personalità, ma proprio di personaggi, ossia: individui di buona volontà che si adattino a sostenere una certa parte. C’è il ruolo del Poeta Pensoso, quello dell’Eterno Ragazzino, quello dello Sciupafemmine, quello del Depresso a prova di Prozac eccetera eccetera. Ma la parte più difficile e ambita, resta quella del Ragazzo Cattivo. Il Ragazzo Cattivo è tutto quello che  l’adolescente medio (e anche qualche adulto più o meno maturo) vorrebbe disperatamente essere: duro come l’acciaio, virile senza inibizioni o incertezze, violento se occorre, tenero quando è il caso, consapevole senza essere saggio: uno che il mondo lo guarda dritto negli occhi, con un ghigno di disprezzo sardonico, pronto a ridere, urlare o sputare in faccia. Sopratutto, uno che non ha paura.

Per diversi anni, Axl Rose, il cantante dei GNR, è stato il Ragazzo Cattivo della musica rock. Quando si è eclissato, travolto dal proprio stesso personaggio, il ruolo non è stato preso da nessun altro, è rimasto vacante, e mi pare che lo sia ancora oggi. In fondo, se il ritorno discografico dei Guns N’ Roses è atteso con tanta aspettativa da una stampa musicale solitamente poco incline a vezzeggiare le stelle del rock ottantiano, ciò è dovuto più che altro alla speranza che Axl sia sempre il Ragazzo Cattivo che tutti abbiamo conosciuto, amato e odiato. E allora, tutti continuano a guardarsi in giro, cercando il successore di Elvis, di Mick Jagger, di Axl Rose, sperando e temendo l’arrivo del nuovo Ragazzo Cattivo, l’anima nera del rock’n’roll. Che poi questa figura abbia ancora un senso nel ventunesimo secolo, assieme a tutti gli altri miti del rock, è un altro paio di maniche. Da qualunque angolazione vogliamo guardare a quel fenomeno nato in USA negli anni 50 del secolo scorso, qualunque ragionamento vogliamo imbastirci sopra o intorno, le cose del mondo sono cambiate così tanto, e così tante volte, che pare fuori da qualunque logica tentare di descriverle e spiegarle usando sempre gli stessi modelli, i soliti stereotipi. Eppure – strano ma vero – quegli stereotipi continuano a funzionare benissimo, e non solo negli USA, ed è su di essi che il rock si regge per la gran parte: incisi profondamente nella nostra cultura, inossidabili, inattaccabili...

Il successo planetario dei Guns N’ Roses si dovette innanzitutto al fatto che ebbero come frontman la nuova incarnazione del Ragazzo Cattivo. La musica è stata importante, la promozione è stata importante, ma senza la spinta propulsiva di questa figura al limite del mitologico che occupava il centro del palcoscenico, i Guns forse sarebbero stati ricordati solo come una buona band di hard rock americano, e nient’altro. E magari erano davvero soltanto questo, al di là di tutto il resto? Quando, nel 1987, si cominciò a parlare di un nuovo genere etichettato street rock, focalizzato su tre bands che si chiamavano Guns N’ Roses, L.A.Guns e Faster Pussycat, il webmaster si ritrovò interessato sopratutto alle ultime due e la sua attenzione si centrò in particolare sulla seconda. Un fatto personale, immagino, ma i miei precordi sono sempre rimasti leggermente freddini davanti ai Guns N’ Roses. Li ascolto, magari mi piacciono, certi episodi della loro discografia mi entusiasmano, ma nel loro complesso non mi attizzano al massimo. Credo che il problema stia tutto nella voce del Ragazzo Cattivo, tanto stridula, acuta e isterica, sgradevole e irritante in maniera ben calcolata. Sia come sia, ai Guns mi sono sempre accostato con un certo distacco, cosa tutto sommato desiderabile quando si cerca una valutazione quanto più è possibile oggettiva (sempre che qualcuno senta il bisogno di valutazioni oggettive: in campo musicale sembra che siano dannatamente pochi; nel nostro genere, poi...).

Dato che della vita pubblica e privata di questa band prima, durante e dopo gli anni d’oro si conosce ogni dettaglio, da quelli più comici a quelli più squallidi, non ritengo di dover sprecare spazio per riassumerla qui. Veniamo piuttosto ad ‘Appetite for destruction’, l’esordio sulla lunga distanza dopo l’EP live autofinanziato ‘Live like a suicide’, un disco rimasto nella top 100 di Billboard per vari anni, e che ad oggi ha venduto non so quanti milioni di copie nel mondo.

Appetite...’ non fu un successo istantaneo, tutt’altro. Ci vollero anni di tour, videoclip e storielle sordide per arrivare al successo internazionale, per uscire dal recinto dei fans dell’hard rock ed entrare nell’arena gigantesca della musica da top ten e conquistare quel pubblico “generico” composto da gente che compra tre o quattro dischi l’anno tra quelli più pubblicizzati ed alla moda, e che solo può far volare nelle classifiche un album e ti permette di organizzare i concerti negli stadi anziché nei teatri o nei club. ‘Appetite for destruction’ era un disco troppo violento, ispido, per potersi fare strada da solo fuori da quel recinto. Quando il riff di “Welcome to the jungle” irrompeva dagli speakers i muri tremavano e le urla isteriche di Axl avranno spaccato più di un cristallo negligentemente lasciato nei pressi dello stereo... Quest’album così brutale, selvaggio, davvero lontano da qualsiasi compromesso con la musica rock che all’epoca faceva furore nelle top ten americane diventò un multiplatino nonostante la propria scarsa accessibilità, trascinato verso l’alto dalle prodezze extramusicali di coloro che lo avevano inciso, grazie a quella patina di luce ambigua di cui i Guns N’Roses si ammantavano e giungeva di riflesso anche su ‘Appetite...’ che, in un perfetto gioco di specchi, rimandava sui propri esecutori quel feeling brado, selvaggio e stizzoso che – nel bene come nel male – rappresenta ancora nell’immaginario comune la vera anima del rock puro & duro. Ed era un’anima autentica. Ai Guns si poteva imputare tutto, salvo che essere dei posers, e difatti nulla poterono contro di loro quei miserabili morti di sonno venuti da Seattle, Axl e soci continuarono a vendere dischi a secchiate ed a riempire gli stadi anche all’apice della marea grunge, solo i Pearl Jam riuscirono per un po’ a fargli concorrenza, ma Eddie Vedder in versione Ragazzo Cattivo era più che patetico, era comico; e poi, quel suo modo di cantare, come se ogni volta che si metteva davanti ad un microfono si trovasse alle prese con un attacco di emorroidi particolarmente violento... Dei Nirvana non varrebbe neppure la pena parlare, il loro target erano i preadolescenti e Kurt Cobain soltanto un povero tossico in piena sindrome maniaco depressiva che colleghi, discografici e dolce mogliettina badarono solo a spremere come un limone per ricavarne quanti più dollari possibile, lasciandolo poi al suo destino quando furono certi che non potesse più servirgli a niente perché completamente e definitivamente “andato”.

Tornando a “Welcome to the jungle”... è impossibile non sentirci dentro la passione principale di Slash, i vecchi Aerosmith, che si riaffacciano con prepotenza anche fra le note di “Nightrain”. Tra le due, “It’s so easy” è ipnotica, minimale, eppure sempre violenta, con un Axl che anziché al falsetto ricorre qui ad un cantato nasale ed in chiave di basso.“Out ta get me” sa di blues e di southern rock metallizzato, “Mr. Brownstone”è un funk stralunato, ma “Paradise city” è uno dei tasselli della leggenda: l’arpeggio, il drumming di Steven Adler, quel coro anthemico senza essere tronfio o epico, il riff come una sega elettrica...Take me down/ To the paradise city/ where the grass is green/ and the girls are pretty/ Take me home... (quante volte l’ho mormorato tra me nei primi anni 90, quando mi ritrovavo davanti su MTV o sulle pagine delle riviste le facce di quei tristi figuri che avevano spazzato via tutta la musica che amavamo...). “My Michelle” è un altro heavy rock selvatico che ruota attorno ad un giro  di chitarra funky, “Think about you” è più classicamente rock’n’roll, fa venire in mente addirittura i Rolling Stones. “Sweet child o’ mine” è un altro frammento entrato di schianto nella storia del rock, l’arpeggio di Slash meriterebbe di essere inciso nel bronzo, ed il suo assolo è semplicemente strepitoso, prima pulito e luminoso, poi emozionale ed intenso alla maniera di Jimmy Page. Su “You’re crazy” ed “Anything goes” Slash e Izzy spargono riff e arpeggi in quantità industriale, in queste sole due canzoni c’è abbastanza materiale per farci un album intero. “Rocket queen” conclude alla maniera del Joe Perry Project e degli Aerosmith nei loro momenti più neri e funk, con una parte finale forse un pelo troppo heavy metal ed un altro grande assolo di Slash.

Quando Axl giustificò quella mastodontica operazione discografica che furono i due ‘Use your illusion’ dichiarando che i Guns avevano deciso di registrare quanto più materiale possibile perché non sapevano quanto sarebbero potuti durare come band, non venne preso abbastanza sul serio. Pareva inconcepibile che una band dalle prospettive artistiche e sopratutto economiche tanto grandiose avesse il tempo contato. Ma quella dichiarazione doveva essere interpretata più che presa alla lettera. Il Ragazzo Cattivo non dava voce ai propri timori, ma ai propri demoni. Invasato da una megalomania senza speranza, da un egocentrismo incurabile, Axl Rose sfracellò la propria band nel giro di qualche anno, rimanendo solo al centro di un palcoscenico irrimediabilmente deserto. I Guns N’Roses sono tecnicamente defunti all’indomani di quel disco  inutile che fu ‘The spaghetti incident’, ammazzati dal loro leader che è riuscito a incanalare la propria tendenza all’autodistruzione fuori di sé, verso quella che era divenuta l’estensione più importante della sua personalità. Non potendo o volendo rivolgere la canna della pistola contro se stesso, Axl la puntò sui Guns N’Roses, massacrandoli con un tiro a segno lento e implacabile. Se questo sia bastato a farne una leggenda, non saprei dirlo. In genere le rock bands ascendono ad una dimensione mitica quando uno dei loro membri – e non necessariamente uno dei più importanti – muore, e non solo tutti i membri originali dei Guns sono vivi e vegeti, ma la fine della band non è stata dovuta al precoce trapasso di uno di essi. La lenta opera di distruzione portata avanti da Axl è abbastanza singolare da meritare una menzione d’onore nella storia del rock, e non sempre la via della gloria è lastricata di cadaveri, ma solo il tempo potrà dirci se i Guns N’Roses sono destinati ad occupare stabilmente il palco dei VIP o a ritirarsi in seconda fila.

 

 

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WHITESNAKE

 

 

  • LIVE... IN THE HEART OF THE CITY (1980)

Etichetta:EMI Reperibilità:in commercio

 

La poca simpatia che il webmaster nutre per i dischi dal vivo dovrebbe essere cosa nota tra i frequentatori abituali di questo sito. Ma ci sono delle eccezioni...

Per parlare dei vecchi Whitesnake, quelli che avevano come base d’operazioni Londra, prima che David Coverdale partisse per Los Angeles e si tingesse i capelli di biondo, avrei potuto scegliere uno qualsiasi dei dischi di studio, magari ‘Ready an’ willing’. Però, dopo che il suo tentativo di carriera solista è naufragato nell’indifferenza generale, David Coverdale ha recuperato il vecchio moniker e si è rimesso a suonare le vecchie canzoni. Dopo diversi anni passati più o meno ininterrottamente in tour, da poco è uscito un live completato con quattro canzoni registrate di fresco, forse il preludio ad un nuovo lavoro di studio. Non l’ho ascoltato. Non voglio. La decisione è maturata l’estate scorsa, quando nello special che MTV ha dedicato al Gods Of Metal italiano ho sentito cos’è oggi la voce di David Coverdale. Capisco che ci possano essere delle solide ragioni economiche per salire su un palcoscenico, ma sentire quest’uomo che è stato il mio idolo assoluto tra i cantanti, il mio punto di riferimento, scatarrare, abbaiare, latrare... Su quel palco, David Coverdale ha fatto tutto, salvo che cantare. Quando è partita “Love ain’t no strangers” ha cercato disperatamente di entrare nel coro, prima affannando come un asmatico, poi emettendo una serie di ringhi striduli e rugginosi: infine si è dovuto arrendere per pura mancanza di fiato, supplendo all’improvviso mutismo con un frenetico sventolare dell’asta del microfono... Il Crepuscolo degli Dei, davvero. David Coverdale sul palco del Gods, è stato purtroppo la perfetta esemplificazione del luogo comune “diventare la caricatura di se stessi”. Non è stata una serata storta. Le sue corde vocali sono a pezzi e lui, semplicemente, dovrebbe ritirarsi dalle scene, punto e basta. Invece, tira avanti, dandosi in pasto ad una folla che lo applaude comunque, anche se non si capisce proprio cosa ci sia da applaudire. Ma forse, quei ragazzi venuti per assistere al concerto di una leggenda dell’hard rock non avevano mai sentito questo disco...

Tra la fine degli anni 70 ed i primi 80, gli Whitesnake sono stati la più bella realtà dell’hard rock blues assieme ai Bad Company. L’avventura conclusa con ‘Slide it in’ nel 1983 ha segnato indelebilmente la storia del rock inglese. Dopo sono venute altre cose, diverse ma ugualmente belle, di cui potete leggere cliccando qui.

In questo disco dal vivo, il classico “doppio live”, come usava all’epoca degli LP, David Coverdale e la sua band (che allora era composta da Mick Moody e Bernie Mardsen alle chitarre, Neil Murray al basso e i vecchi compagni dei Deep Purple Jon Lord e Ian Paice) si autocelebravano senza retorica e con il giusto orgoglio di fronte ad una folla adorante. Niente lunghe divagazioni strumentali alla maniera dei Purple, solo le canzoni, in versioni abbastanza fedeli a quelle già note, riproposte con impeccabile grazia e potenza. E su tutto, imperava lui, l’uomo che forse solo avrebbe avuto diritto ad essere investito del titolo di The Voice, la Voce. Perché da quella laringe che oggi possiamo paragonare ad un pezzo di metallo arrugginito e contorto ma venticinque anni fa era puro argento, usciva qualcosa di unico, miracoloso. Le grandi voci hanno questo di particolare: non si riesce mai a definirle con precisione. Una voce strepitosa non è mai soltanto acuta o profonda, ma queste cose assieme ed altre. Ha caratteri sfuggenti, forse inafferrabili. Si prova a circoscriverla, si danno magari punti di riferimento, ma non serve a far capire davvero. E’ come una magia, e David Coverdale era un mago, un incantatore. Se la musica degli Whitesnake ha mai avuto un punto debole è stato nei refrain, che a volte, non si può negarlo, erano abbastanza fessi... cioè: sarebbero stati fessi se a cantarli ci fosse stato qualcun altro. La voce di David li innervava di una forza stupefacente, di sfumature insospettabili. Quella voce era calore ed un’irruenza maschia, virile, sovrapposta ad un trepidare quasi da adolescente. Un incrociarsi di armoniche al limite dell’incredibile. La forza bruta ma mai senza controllo e la raffinatezza. Insomma: opposti che si coniugano invece di fare a pugni. E se questo incessante miracolo rifulgeva meglio quando poteva realizzarsi fra le pareti di uno studio di registrazione non smetteva certo di risplendere nel momento in cui andava a rinnovarsi sulle assi di un palcoscenico.

Questo live – l’unico che fino a ieri avessero registrato gli Whitesnake, fatta eccezione per ‘Starkers in Tokio’, che però era un unplunged – mette assieme la creme di tre concerti registrati il 23 e 24 giugno del 1980 ed il 23 novembre del 1978 all’Hammersmith Odeon di Londra, almeno nella versione europea e giapponese, mentre in USA mi pare che fu pubblicato in versione singola, con il solo concerto del 1980 (ma anche in Europa, in un primo tempo, uscì come singolo, la versione estesa era riservata al solo Giappone: da pochissimo ne è poi uscita una versione rimasterizzata su due CD, completata da bonus tracks). Quanto sia stato ritoccato in studio non sono in grado di dirlo. Che qualcosa sia stata sistemata, qua e là, mi pare almeno realistico, dato che l’ultimo live totalmente e genuinamente live probabilmente è stato registrato ai tempi di Elvis... Nella prima versione CD era stata esclusa la seconda esecuzione di “Come on”, per far entrare tutto su un solo disco. Per quanto mi riguarda, avrebbero anche potuto lasciarcela e tagliare “Might just take your life”, l’unica scheggia recuperata dai tempi dei Purple assieme all’inevitabile “Mistreated”: con tante cose tra cui scegliere, perché proprio quella, mi sono sempre chiesto? Perché non suonare “Burn” o “Lady double dealer”? Bah...

Dunque, questi sono i vecchi Whitesnake, quelli che David Coverdale mandò in soffitta  quando decise di traslocare a Los Angeles, quelli che agli yankees non erano mai andati abbastanza a genio. Erano la voce di David, la chitarra slide di Mick Moody e la double neck di Bernie Marsden, l’Hammond di Jon Lord, il basso e la batteria di illustri gregari come Neil Murray e Ian Paice. Erano il rock blues: robusto, massiccio, ma sempre melodico. Erano, sopratutto, essenziali. Pur avendo due chitarre e le tastiere, il sound degli Whitesnake di rado si faceva ridondante, forse era anche la produzione di Martin Birch, uno che di fronzoli e infiocchettature non è mai stato campione, che puntava al sodo (e la ricetta funzionava quando lavorava con grandissime band, come Deep Purple, Black Sabbath, Rainbow e, appunto, Whitesnake: con gli Iron Maiden è stata tutta un’altra storia).

Se conoscete solo la versione americana di questa band, e volete capire in un colpo solo cos’erano gli Whitesnake prima di emigrare, cominciate subito con “Fool for your loving”. Qui non c’è la chitarra stratosferica di Steve Vai, la produzione lussuosa di Keith Olsen e Mike Clink, le sfumature e gli arrangiamenti sofisticati. E’ tutto molto più diretto, spontaneo, blues; in un certo senso, tutto molto più Coverdale-dipendente, nel senso che è l’interpretazione di David a fare – come più sopra ho già sottolineato – la differenza. “Aint gonna cry no more” è introdotta da una dodici corde leggiadra (la suonava Bernie Marsden) e ci ricorda che David non aveva scoperto i dischi dei Led Zeppelin solo all’epoca di ‘1987’. E poi il blues, caldo, pesante, fascinoso con “Love hunter”, “Walking in the shadows of blues”, il classico di Bobby Bland “Ain’t no love in the heart of the city” e l’interminabile, meravigliosa “Mistreated”, blues che diventa hard rock, scivolando sui riff di “Ready ‘an willing”, “Come on”, “Sweet talker”: quell’hard rock britannico, di grana grossa, impostato sull’accoppiata “energia & attributi maschili da cavallo” per cui non c’erano vie di mezzo: o era irresistibile oppure ridicolo e pacchiano come un orango in tutù ( nota bene: il webmaster non si ritiene responsabile di eventuali associazioni mentali che i suoi lettori possano aver fatto del succitato primate in costume da ballerina con i Saxon).

Dopo questo live, gli Whitesnake ci dettero altri tre bellissimi dischi,  'Come an' get it', ‘Saints and sinners’ (da cui David recupererà “Here I go again” per farne il singolo di maggior successo estratto da ‘1987’, con il suo numero uno su Billboard) e ‘Slide it in’ (che contiene il più travolgente anthem scritto dalla band, quella “Slow and easy” su cui David dà il suo più bel saggio di vocalità Plant - ispired). ‘Slide it in’ rappresenta il momento di passaggio, con le sue due versioni, quella originale pubblicata in Europa e quella riveduta e corretta per il mercato USA, rimixata da Keith Olsen e con nuovi assoli di chitarra incisi da John Sykes. Dopo verranno gli splendori metallici di ‘1987’ e ‘Slip of the tongue’, una nuova immagine che si è impressa incancellabilmente nella memoria, quasi assurgendo a simbolo di quell’epoca, sopratutto tramite i videoclip di “Still of the night” e “Is this love”: non per caso gli SR 71, nella loro divertente e nostalgica “1985”, cantavano: “Lei voleva diventare un’attrice / voleva diventare una stella / voleva agitare il culo / sul cofano della macchina degli Whitesnake”...