recensione

HARD BLUES DEPARTMENT

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TONY SPINNER

 

 

  • DOWN HOME MOJO (2011)

Etichetta:Grooveryard Records Reperibilità:in commercio

I più lo conoscono solo grazie alla sua decennale militanza nei Toto, ma fuori dal campo dell’AOR, Tony Spinner è noto per una discografia che ormai ammonta ad otto album di robusto blues elettrico. L’esordio solista ci fu nel ’93 con ‘Saturn blues’, l’ultimo lavoro è uscito da qualche mese, ma per parlarvi della musica di Tony Spinner scelgo il precedente album ‘Down home mojo’ del 2011. Il songwriting è sicuramente buono ma Tony è uno di quei chitarristi che si esaltano nel solismo, pur senza rendere le proprie canzoni dei semplici contenitori per gli assoli. La qualità del suono è assolutamente eccezionale: sempre ricco, pieno, rotondo, un vero piacere per le orecchie in questi tempi dominati da un lato dalle alchimie glaciali dell’AOR scandinavo, dall’altro dai suono volutamente rugginosi e/o melmosi del retro rock. Apre il classico rock’n’roll di “All Mine”, vivace, divertente, percorsa da assoli acrobatici di slide che si fanno via via più spericolati e selvatici, ed una slide sgomitante è pure protagonista sui riff secchi e pigri di “Let Me In”. Dopo gli umori southern di “World Full of Women” c’è l’atmosfera anni ’70 di “Knucklehead”, fatta di pedale wah wah e riff funky, e sulla stessa falsariga procede anche “Sweet Thang”, con una punta di soul in più e chitarre tinnanti e gentili. “How Long”, incantata e fisica nello stesso tempo, è fatta di sinuose spirali zeppeliniane attorno a cui si avvolgono ancora suggestioni southern rock ed un altro assolo di slide infuocata. Notturna, insinuante, ma anche serrata e metallica si rivela “Getcha Back”, poi arriva il classico blues in 12 battute “She Gave Me Back My Mojo”, indiavolato e diviso tra acustico ed elettrico. Pausa strumentale con lo strepitoso cool funky “Josie”, mentre su “State Line” il blues si tinge di boogie, con una slide come velluto elettrico. “Tommy Two Guns” è un mid tempo lento, luminoso, implacabile, pesante e caldissimo, “Don’t Go” è una chitarra che brontola ed una che tesse ragnatele luminose sul pulsare di basso e batteria; in chiusura un altro strumentale, “Dirty Little Mynx”, un bel divagare elettrico sulle eleganti evoluzioni della sezione ritmica. Il fatto che tutto quanto Tony Spinner suoni sui propri album sia lontanissimo dall’universo AOR/prog/fusion dei Toto è una innegabile dimostrazione di versatilità da parte di un chitarrista che ha il dono di sapersi esprimere su una varietà di toni che ha pochi riscontri nel panorama attuale e merita tutta l’attenzione non soltanto di chi ama l’hard blues.

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DIRTY DAVE OSTI

 

 

 

  • SHAKEDOWN ON SALVATION STREET (2013)

Etichetta:Grooveryard Records Reperibilità:in commercio

 

I frequentatori assidui (ma esistono…?) di questo sito, avranno ormai compreso che il suo webmaster non nutre una soverchia simpatia per tutti quegli act dediti al cosiddetto “retro rock”.  Questo scarso feeling verso una scena popolarissima ha senza dubbio una componente che potrei definire “di principio”, e parte dall’idea che tutte le energie impiegate per riprodurre il rock – più o meno duro – degli anni ’70 potrebbero essere impiegate con miglior profitto per darci qualcosa di nuovo o almeno di diverso. Ma è anche il risultato della prova dell’ascolto, perché di band impegnate in questa crociata mi capita di sentirne davvero tante, e mi venisse un accidente se si riesce a distinguerle l’una dall’altra… Il livello generale è talmente uniforme che non si può parlare di band buone o schifose, sublimi o infime in base a quello che suonano, dato che tutte, senza esclusione, sono impegnate unicamente a ricalcare il materiale sonoro di quaranta e passa anni fa. Quelle che la critica insiste a mettere su un piedistallo, cosa hanno, davvero, in più rispetto alla concorrenza? Che sanno scopiazzare meglio (come i Rival Sons e i Black Country Communion)? Che sanno infarcire meglio degli altri le loro registrazioni di fruscii analogici, distorsioni e rumoracci (come i Graveyard)? O forse è solo la loro adesione incondizionata, testarda e leggermente ottusa a canoni musicali stravecchi che paiono sfoggiare con un orgoglio fanatico (come i The Answer) a farli salire su un gradino più alto?

E allora: assodato che questi cazzo di dischi sono praticamente TUTTI UGUALI, perché non fare un po’ di beneficenza (se così possiamo chiamarla) e dare una parte dei vostri soldini ad uno come Dirty Dave Osti, che è in giro da anni a suonare questo genere di roba, anziché rimpinguare i già pingui portafogli di noti personaggi (Black Country Communion, Chickenfoot, The Winery Dogs e qualcuno me lo sarò certo dimenticato) che nella mischia si sono buttati senza dubbio per calcolo e convenienza? È inutile che vi racconti ‘Shakedown On Salvation Street’ canzone per canzone perché è fatto di tutto quanto il retro rock dovrebbe essere fatto, ma (ed è un “ma” importante) ha una buona qualità audio, un mixaggio che non fracassa i timpani e le trombe di Eustachio, ed è corretto da una robusta e tonificante dose di blues. E poi, Dave non gioca a fare il Robert Plant o il Paul Rodgers, canta con un bel vocione rauco, senza enfasi grottesche, le sue composizioni spesso procedono su ritmi lenti, suadenti, pur rimanendo risolutamente hard rock e svariando su più di un registro, qua e là spuntano gustose marezzature funky e ci sono anche due splendidi hard bluesy da Far West (“Pale Rider” e “Old Man Blue”) avvincenti, divertiti e fascinosi, non le svenevolezze messicaneggianti in stile spaghetti western che trovate negli album di quei morti di sonno degli Helldorado, e mi stavo dimenticando anche le cover di ZZ Top (“Certified Blues”) e Black Sabbath (“Fairies Wears Boots”), e gli assoli sempre centrati e fantasiosi. Insomma, ‘Shakedown On Salvation Street’ ha tutto per piacere ai retro rockers ed ai patiti dell’hard blues, ed il conto bancario di Dirty Dave Osti ha certo più bisogno di sostegno rispetto a quelli intestati agli act citati sopra che, lo ripeto, non vi daranno NIENTE più di quanto il nostro Dave offre sul suo ultimo album. Quindi, anziché contribuire indirettamente al saldo del conto di un’altra Corvette per Sammy Hagar o Billy Sheehan, aiutiamo Dirty Dave a pagarsi un tetto sulla testa e tre pasti al giorno…

 

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MICHAEL LEE FIRKINS

 

 

  • YEP (2013)

Etichetta:Magna Carta Records Reperibilità:in commercio

 

Se avete letto la scheda su Michael Lee Firkins che ho scritto per lo speciale “Metal guitar hero ‘80” pubblicata sul numero 19 di Classix Metal, già sapete quanto stimi e rispetti questo chitarrista, uno dei pochi in grado di dire davvero qualcosa di nuovo nel sempre più sterile mondo del rock, un artista immenso che rifugge da sperimentalismi astrusi e con questo suo nuovo album (a ben sei anni dall’ultimo, divino ‘Blacklight Sonatas’) si getta a capofitto nel blues (quasi vent’anni dopo l’esperienza degli Howling Iguanas) forgiando un capolavoro assoluto. Dischi del valore e della qualità di ‘Yep’ escono forse ogni dieci anni, nel genere specifico era molto di più che non si sentiva qualcosa di così ispirato, vitale e potente. Chi accusa il blues di essere fermo al palo, sempre, irrimediabilmente uguale a se stesso al di là della classe e dell’intensità dei suoi interpreti, ha per gran parte ragione, ma ‘Yep’ ci dice che questo genere apparentemente sclerotizzato e mummificato attorno a tre accordi ha invece una inesauribile vitalità quando ci mette le mani sopra un artista del calibro di Michael Lee Firkins. Che ha registrato ‘Yep’ su macchine analogiche (il fruscio che si sente alla fine di ogni canzone è “vero”, non un effetto aggiunto per dare un idiota look vintage al prodotto) per ritrovare le dinamiche del blues e del southern rock più tradizionale, ma filtrandole attraverso il proprio strepitoso chitarrismo ed una sensibilità melodica mai banale, rileggendo senza stravolgere, guardando indietro e nello stesso tempo spingendosi avanti, rifuggendo dalle atmosfere stantie del retro rock regalandoci un suono splendente, dove le timbriche delle chitarre sono sempre policrome e luminose. La backing band che lo accompagna in questa occasione è senza dubbio prestigiosa (Andy Hess al basso, Matt Abts alla batteria e addirittura Chuck Leavell ai tasti d’avorio), ma è sempre e comunque quella chitarra a fare la differenza, fin dall’iniziale “Golden Oldie Jam”, solare, pigra, molto southern, con prolungate parti strumentali (ma le parti vocali sono ridotte all’osso in quasi tutti i brani) in cui risalta il dialogo tra la slide e l’organo Hammond. “Cajun Boogie” ha un titolo che dice tutto: anche se il ritmo propriamente boogie non è, qui c’è tutto il calore delle paludi della Louisiana, in un incedere lento ed elettrico. “No More Angry Man” si sviluppa lungo le linee di un fascinoso hard bluesy da film western, diviso tra parti luminose e pacate ed altre abrasive ed insinuanti, mentre “Standing Ovation” è un delizioso country blues, robusto ed elettrico e nello stesso tempo carezzevole e quasi danzabile. “Long Day” potremmo definirla una power ballad, ed ha un’intensità ed un ardore per cui i Black Crowes avrebbero ucciso, ma è di nuovo il country blues a tornare in pista per la divina “Wearin' Black”, su cui aleggia il fantasma del mai abbastanza compianto Willy Deville. Incursione negli anni ’70 con la strepitosa “Out Of Season”, fra scoppi di luce e teneri chiaroscuri e assoli dal sapore Hendrixiano, poi i Lynyrd Skynyrd vengono chiamati in causa sulla morbidamente southern “Take Me Back”, mentre “Last Call” è fatta di un riffing secco ed un po’ funky su cui si adagia una meravigliosa melodia tramata da innumerevoli ricami di chitarra con il plus di una lunga incursione dell’organo Hammond. “No More Angry Man (Part 2)” è l’ennesima dimostrazione di come si possa cambiare completamente volto ad una canzone variandone l’arrangiamento e scegliendo timbriche diverse per gli strumenti (posto che, naturalmente, il cambiamento sia pilotato da una mano magistrale come quella di Michael): rispetto a “No More Angry Man”, qui è tutto più ruvido e piccante, si fa più ricorso alla slide e la voce è un pelo filtrata. “The Cane” sono quasi cinque minuti di una slide rugginosa e tagliente, la cassa e la voce filtrata fin quasi a risultare inintelligibile: una sorta di ricapitolazione elettrica e infuocata e allucinata di tutto ciò che siamo abituati a chiamare “blues”.

La grandezza di Michael Lee Firkins non la scopriamo certo con questo ‘Yep’, che ci dà “solo” una conferma ulteriore della statura di un artista straordinario, e costituisce in sé un episodio da registrare senza esitazioni fra i capolavori del rock blues.

 

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BERNIE MARSDEN

 

 

  • SHINE (2014)

Etichetta:Mascott Reperibilità:in commercio

 

Tanto per cominciare da qualche parte a parlarvi di questo nuovo album di Bernie Marsden, parto da quello che non mi è piaciuto, qualcosa che non ha a che fare con la musica ma piuttosto con il flavour che il vecchio Bernie (sessantatre anni o giù di lì) ha cercato di appiccicare a ‘Shine’ tramite le dichiarazioni che ne hanno preceduto l’uscita: un flavour nostalgico/celebrativo, che ruota principalmente attorno ai suoi rapporti con David Coverdale. A sentire quello che Bernie racconta, pare che lui e David, dal 1983 non facciano altro che telefonarsi e incontrarsi al pub per bere una pinta di birra assieme un giorno sì ed uno no, due amiconi che alla fine si sono ritrovati di nuovo in sala d’incisione a festeggiare la terza età (anche mister Coverdale appartiene ormai alla categoria degli ultrasessantenni) come fratelli di sangue, compagni d’avventure o quello che preferite. Bernie avrebbe dovuto tener presente un vecchio detto latino, quello che sottolinea la persistenza della parola scritta in opposizione alla volatilità di quella solo pronunciata, e ricordarsi in quante interviste vecchie e nuove (io ne ho una del 1997) ha detto peste e corna del suo ritrovato fratello di sangue, definendolo un egocentrico, un pavone avido di soldi e successo ammalato di superbia terminale oltre che un ingrato bugiardo che ha provato a minimizzare o cancellare del tutto il ruolo avuto da lui e Mickey Moody negli Whitesnake, come se la musica pre ‘1987’ di quella band fosse una cosa soltanto sua. Ora: io in genere evito accuratamente di prendere nota delle dichiarazioni dei musicisti riguardo i loro album in uscita (e spesso anche di quelle che riguardano i lavori più datati), e non mi aspetto certo che i suddetti si comportino in maniera meno falsa e/o ipocrita di qualunque altro essere umano medio, ma tutte queste sviolinate di Bernie, questi sdilinquimenti, questo clima zuccheroso in cui sta provando ad avvolgere ‘Shine’, scusate, mi hanno dato un leggero voltastomaco. Anche perché ‘Shine’ tutto questo non se lo merita, può camminare benissimo con le sue gambe e piacere anche senza i litri di miele che il suo autore gli sta colando addosso. Comincia in maniera piacevolmente brusca con la classica “Linin’ Track” di Lead Belly, che anche gli Aerosmith omaggiarono includendola nella loro “Hangman Jury” su ‘Permanent Vacation’, proposta con un arrangiamento molto elettrico. “Wedding Day” è un boogie dal riff pulsante spezzato da luminosi scoppi di melodia anni ’70 orchestrati da keys e organo Hammond mentre la deliziosa “Walk Away” vira nei territori dell’hard melodico Journey inspired. “Kinda Wish She Would” è lo stesso boogie che Bernie registrò con i Company Of Snakes (su quell’album si intitolava però “Kinda Wish You Would”: per saperne di più, seguite il link), questa nuova versione risulta più vivace ed elettrica, a seguire “Ladyfriend” omaggia apertamente i Free: uno slow dalla grande atmosfera, con un’armonica (suonata da Mark Feltham) ora suadente ora lacerante. Spazio alla nostalgia con la ripresa di “Trouble”, reincisa in una versione quasi da film western, potente e suggestiva, con l’individuo che Bernie aveva definito a suo tempo un avido pavone egocentrico dietro il microfono. Rispetto alla recente reprise di “Sailing Ships” che abbiamo potuto ascoltare sull’album di Adrian Vandenberg (altro link per gli smemorati), direi che qui David Coverdale appare un po’ più a suo agio, meno affaticato: purtroppo, come ho più volte sottolineato, quando c’è da andare sui toni bassi, la voce di David mostra implacabilmente la corda. Questa nuova versione di “Trouble”, comunque, non sfigura affatto di fronte agli originali.

Se “Who Do We Think We Are?” si muove in territori al limite dell’AOR, “Bad Blood” è invece uno slow blues morbido e piccante affidato alla bellissima voce di Cherry Lee Mewis, mentre la title track parla la lingua dei Deep Purple e non per caso vede come ospiti Ian Paice e Don Airey (che regala a Bernie un grande assolo di organo Hammond) con l’ulteriore plus di un ispirato solo di chitarra di Joe Bonamassa (quando mi deciderò a scrivere della musica di quest’uomo sarà sempre troppo tardi). “Dragonfly” è morbida ed esotica, fatta di chitarre limpide e tinnanti che fanno molto Santana, “You Better Run” risulta invece totalmente Whitesnake, maschia e spavalda, con le caratteristiche chitarre soliste che procedono appaiate. Con “Hoxie Rollin’ Time” Bernie torna al blues canonico, ma sempre godibile, aggiungendo una bella dose di wah wah al suono della sua Les Paul, chiudendo l’album con l’acustica leggiadra e sognante dello strumentale “Nw8”.

Un lavoro molto vario, ‘Shine’, dunque, in armonia con la lunga carriera di Bernie, quasi un sunto, ben prodotto dal suo ex compagno negli Alaska Rob Kass. Certo non imperdibile, ma di sicuro molto piacevole aldilà delle sviolinate del suo autore.

 

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RED ZONE RIDER

 

 

  • RED ZONE RIDER (2014)

Etichetta:Magna Carta Reperibilità:in commercio

 

Quando la torta è ricca, voluminosa e ben farcita, tutti cercano di assicurarsene una fetta. La torta del retro rock tira bene e, devono aver pensato Vinnie Moore, Kelly Keeling e Scot Coogan, perché non provare a prendercene una porzione? Chiunque abbia dimestichezza con band e solo project precedenti dei tre, non potrà che sentire puzza di marcio, dato che solo in rari casi i nostri hanno affrontato questa materia, ed il sospetto che la nascita dei Red Zone Rider sia avvenuta in base ad un ragionamento di natura finanziaria è tutt’altro che maligno. Ma, insomma, quello che conta è il risultato finale. Che non fa gridare al miracolo, ma è sicuramente positivo. Anche perché Kelly e soci, a quel genere di hard rock, come già sottolineato, non è che nel passato si siano dimostrati molto devoti. Il suono delle chitarre di Vinnie Moore è sempre bello chiaro, ricco, profondo: un suono anni ‘80. Ed il suo stesso modo di suonare non ha molto del tipico stile dell’epoca dei pantaloni a zampa d’elefante, c’è sempre un pizzico di shredding nel suo chitarrismo, quella volontà di complicare (piacevolmente) le cose anziché semplificarle fino alla demenza rumoristica in cui tanti retro rockers si rifugiano per mera mancanza di idee e capacità. Il songwriting non pecca comunque di originalità, ed i ragazzi si adagiano nel solco ormai familiare a chi bazzica questo genere, anche se non mancano guizzi, tentativi di architettare qualcosa che non sia mero ricalco, sforzi episodici che staccano certe schegge di questo album dalle restanti in maniera abbastanza netta. Prendiamo i due episodi funk: “Hit The Road” è una canzone policroma, illuminata da quattro strepitosi assoli di Vinnie che si incrociano e sovrappongono, mentre “Save It”, pur gradevole, risulta piuttosto scontata. Anche “Hell No” non si distingue dalla massa (ormai ipertrofica) di materiale “Black Dog” ispired tanto in voga, mentre “By The Rainbow’s End” cerca qualche distinzione infilando nel solito tessuto zeppeliniano un ritornello caratterizzato dalle tipiche melodie cantilenanti tanto care a Kelly. E la connection con la band di Jimmy Page non finisce qui, dato che “Cloud Of Dreams” è un bello slow blues che non può non ricordare “Tea For One”. “Never Trust A Woman” omaggia i Black Sabbath era ‘Heaven & Hell’ con un hard blues tempestoso ma inutilmente lungo, ed una durata eccessiva segna negativamente pure “The Hand That Feeds You”, altro hard blues, questo selvatico e galoppante, mentre anche “Count’s 77” non ha molto per distinguersi, viaggiando su un riff secco di scuola Grand Funk su cui viene drappeggiata la melodia. Il meglio mi pare si trovi in tre canzoni: “There’s A Knowing”, dove suonano come dei Deep Purple intrisi di blues; “Obvious”, piece melodica, una sorta di ballad elettrica densa di chiaroscuri, dov’è ancora Kelly a salire in cattedra; “House Of Light”, il top assoluto del disco, che parte incantata e diventa ancheggiante, cadenzata e caldissima, con un refrain degno dei Free.

Alla fine, ci ritroviamo con un album che se non è un classico risulta perlomeno piacevole. Forse è inutile stare a chiedersi cosa avrebbe potuto essere ‘Red Zone Rider’ se Kelly e soci avessero deciso di osare di più: il genere affrontato non permette grosse deviazioni dalla rotta prestabilita e, come già annotato, nessuno dei protagonisti ha dimostrato in passato di maneggiarlo con disinvoltura. A meno che un consistente successo non spinga verso l’alto il moniker, credo che questa band sia destinata a rimanere una riga solitaria nelle bio dei suoi membri.

 

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WALTER TROUT

 

 

  • THE BLUES CAME CALLIN' (2014)

Etichetta:Provogue Reperibilità:in commercio

Questo disco è stato pubblicato a giugno dell’anno passato, e se ne parlo solo oggi non è per pigrizia. Quando è uscito, le notizie riguardo la salute di Walt erano tutt’altro che buone, ed esisteva più di un valido motivo per ritenere che ‘The Blues Came Callin’’ dovesse rappresentare il suo epitaffio musicale. C’era, insomma, un suono di campane a morto che aleggiava attorno e dentro questo album, troppo sinistro perché mi venisse voglia di scriverne. Non erano solo le foto, quelle foto che ritraevano Walt devastato dalla malattia al fegato che lo ha costretto ad un trapianto (riuscito) qualche mese fa, non era solo la sua voce diventata di colpo fragile e debole. Il blues può avere un tremendo potere evocativo e le parole di Walter Trout sulla title track mettono a disagio. Quest’ uomo sentiva il fiato freddo della morte sul collo e trasferiva (Dio solo sa quanto consciamente) quel gelo nella propria musica. Non c’è assolutamente nulla di patetico in questo disco e neppure di commovente: non muove alle lacrime, non ti fa venire un groppo alla gola. Dà i brividi, invece. La salute di Walt sta migliorando, al punto da permettergli di pianificare un nuovo tour per l’estate del 2015, ma questa luce di speranza riaccesasi nella vita del Nostro non arriva ad illuminare ‘The Blues Came Callin’’, riesce solo a renderlo un po’ meno macabro. Gli esempi di musicisti che in punto di morte o quasi ci hanno dato album che erano gioiosi inni alla vita non sono pochi, ma ‘The Blues…’ non appartiene a questa categoria: è l’opera di qualcuno che sente che i propri giorni stanno per finire, che il futuro può essere terribilmente breve: non ci piange sopra ma certo non si prepara ad accogliere la signora con la falce sorridendo serenamente. Non ci lancia messaggi di speranza, né c’affligge con delle prediche. Si limita a comunicare quello che sente. È inutile che vi sciorini l’album nota per nota, la musica non è diversa da quella a cui Walt ci ha (piacevolmente) abituato: la voce arranca, ma le mani sono sempre forti e salde ed il fraseggio resta infuocato e selvatico, sempre più vicino all’hard rock che al blues propriamente detto (verificatelo nel favoloso shuffle texano di “Willie”). Ci sono piuttosto tre canzoni chiave che comunicano senza equivoci come si sentiva Walter Trout mentre incideva. La prima è “Wastin’ Away”; a proposito di questa canzone, Walt ha detto (la traduzione è mia): “Anche se il mio corpo sta andando in malora, non mi arrendo. Non me ne andrò senza lottare”. Il testo sembra però smentire Walt: è cupo, gelido, rassegnato, forse addirittura disperato. Quelle parole si adatterebbero di più a “The Bottom Of The River” – uno strepitoso voodoo blues, un po’ Bad Company – con la sua storia di un uomo che sta per annegare ma trova la forza di risalire alla superficie e continuare a vivere. Ma a vivere come? Questo, Walt pare chiederselo sulla title track, un inesorabile mid tempo (con John Mayall all’organo Hammond), e la risposta che trova non è certo consolatoria, dato che l’ultimo verso della canzone dice: non sarai mai più l’uomo che eri prima. È questa tremenda realtà che Walter Trout ci presenta, senza piagnistei ma neppure scherzandoci sopra. E la sincerità di Walt, ammettiamolo, mette a disagio. Da chi sente quel certo fiato gelido sul collo ci aspettiamo (o, peggio, pretendiamo) versi alati, filosofia (spesso a buon mercato) o quell’atteggiamento da “io non mollo e penso positivo” che ha ispirato anche una fiction per la TV. In questo contesto, la velata franchezza (se mi passate l’ossimoro) di Walt riguardo i suoi sentimenti su un futuro che, se ci sarà, non si presenta comunque roseo sicuramente spiazza ma per onestà e coraggio si merita dieci e lode.