recensione

HARD BLUES DEPARTMENT

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SISTER WHISKEY

 

 

  • LIQUOR AND POKER (1993)

Etichetta:Warner Reperibilità:scarsa

 

A volte mi domando se non ho sbagliato a chiamare questo sito “AOR ARCHIVIA”. La mia intenzione non era certo quella di scrivere solo ed esclusivamente di AOR, e difatti il primo pezzo che pubblicai fu quello sui Savatage… Ma è un fatto che quel nome attira sopratutto chi, tra le tante correnti dell’hard rock, predilige quella adult oriented, e difatti quesiti e domande che mi giungono via e-mail (nonostante i perentori avvisi presenti nella pagina dei contatti) riguardano quasi sempre bands di rock melodico, mentre pare che tutto il materiale più raw o blues oriented stuzzichi la fantasia di pochissimi o quanto meno sia apprezzato solo da quella maggioranza silenziosa che si limita a leggere senza poi sollecitare al sottoscritto giudizi e pareri. È un fatto che non ricordo richieste di chiarimenti riguardo Lynch Mob o Kik Tracee, Bang Tango o Outlaw Blood, Tora Tora o Jeff Healey. Non è che le stia sollecitando, mi limito a prenderne atto. Ed a chiedermi perché. La risposta più ovvia sembra essere che il gradimento ottenuto nel nostro paese da quel certo genere di hard rock è molto inferiore all’AOR. O, forse, è proprio la presenza del nostro beneamato acronimo nel nome del sito ad allontanare i fruitori dell’hard più bluesy, nonostante la finestra affacciata su questo genere abbia un nome esplicito: hard blues department. In certi momenti, questo sospetto di scarso gradimento mi scoraggia un po’ dal presentare le bands del ramo. Ma poi la passione (solitaria?) verso l’hard rock meno patinato riprende il sopravvento, accompagnata dalla speranza che quanto scrivo spinga chi conosce poco la materia ad approfondirla. E cosa c’è di meglio di questi Sister Whiskey per fare un salutare tuffo nell’hard rock bluesy e/o abrasivo? Nonostante il look rustico ostentato sulla back cover i Sister erano una band di Los Angeles, prodotta da Dana Strum (Vinnie Vincent Invasion e Slaughter… ma c’è bisogno di scriverlo?), con un occhio puntato verso lo street metal della città degli angeli, anche se in quel 1993 che vide l’uscita di ‘Liquor and poker’ la scena metal di L.A. si era già liquefatta e lo Strip era affollato di musicisti disoccupati che facevano la fila per comprare una lumberjack da boscaiolo e prenotare un biglietto d’autobus per Seattle. Ma ai Sister Whiskey, del grunge e merdate punk varie è chiaro non gliene fregava un beneamato cazzo. Sapevano passare con disinvoltura dall’ hard rock con sfumature root alla Bon Jovi o Tesla (“Simple Man”, la pigra ballad con assolo e bridge metallici “Keep Waitin’ ”, l’altro lento molto Tesla “Cryin’ Inside”) allo street metal più decadente, al crocevia di L.A. Guns e The Scream (le canoniche “Moonshine” e “Sleepin’ Your Life Away”; “Ain’t ‘Bout Love”, lenta, insinuante, ipnotica, notturna; “Edge of the Night”, che ha una linea melodica con qualche straniata sfumatura Beatles). E poi, il clima southern irrobustito da riff secchi e metallici, un po’ alla Junkyard, di “Can You Satisfy Me” e “I’d Lie to You for Your Love”, i boogie scuotichiappe “Count Me In” e “Don’t Cha Know Ya Need It” – quest’ ultima con un bell’assolo lungo e cangiante –, una ruvida ballad alla Lynyrd Skynyrd con tanto di armonica, “Excuse Me”, ed una power ballad intensa ed elettrica tra Faster Pussycat e Guns ‘N Roses, “Open Your Heart”. Il singer Dennis Lee Duncan era una specie di Jeff Keith meno lamentoso e più abrasivo, i chitarristi facevano il loro dovere, la produzione di Dana Strum è secca ed efficace. Dulcis in fundo, ‘Liquor and poker’ è uno di quei dischi sfuggiti ai maniaci delle lost gems o presunte tali, quindi gira su eBay ed Amazon in buona quantità e costa pochi dollari. Non è un masterpiece epocale, solo un album divertente ed onesto, parto di una band che pur arrivata fuori tempo massimo non volle rinunciare alla musica che amava per mettersi al passo con i gusti del pubblico come tanti altri facevano in quella cupa alba degli anni ’90.

 

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TONY MARTIN

 

 

  • BACK WHERE I BELONG (1992)

Etichetta:Polydor Reperibilità:discreta

 

Dei quattro cantanti che si sono succeduti e/o alternati dietro il microfono nei dischi dei Black Sabbath (non conto Glenn Hughes, dato che ‘Seventh Star’ era un lavoro solista di Tony Iommi, pubblicato con l’ambiguo monicker “Black Sabbath featuring Tony Iommi” solo per discutibili strategie di marketing; e neppure Ray Gillen, considerato che la sua militanza nella band è stata testimoniata fino al 2010 solo da un rarissimo bootleg), Tony Martin non è semplicemente quello meno amato e considerato: è stato addirittura rimosso, come un brutto sogno o un ricordo spiacevole. È un fatto che i Sabbath della prima era Martin conservavano poco della magia nera del passato. ‘Eternal Idol’ era fatto principalmente di class metal, mentre ‘Headless Cross’ e ‘Tyr’ aprivano all’epic più sinfonico. Grandissimi dischi, ma oggettivamente molto lontani da quanto aveva fatto la fortuna di una band che nell’immaginario dei fans era sempre identificata con i furori schizofrenici di Ozzy o tutt’al più con i toni arcani e solenni di Ronnie James Dio. I riscontri, sia in termini di vendite che di presenze ai concerti, furono tanto scarsi da spingere Tony Iommi a riannodare i rapporti con Dio prima e Ozzy dopo. A Tony Martin toccò inghiottire per ben due volte il boccone amaro: messo da parte a favore di Dio, riassunto per un paio di album (l’eccellente ‘Cross Purposes’, seguito dal molto meno convincente ‘Forbidden’), fatto definitivamente fuori per il trionfale ritorno di Ozzy. Più che sfortunato, Martin dobbiamo considerarlo una sorta di martire rassegnato al destino (pare) inevitabilmente triste che accomuna tutti coloro che vanno ad occupare la posizione di cantante in una band storica succedendo al titolare già ampiamente mitizzato: dalla sua bocca non sono mai uscite parole troppo acri su quel doppio licenziamento che ha aperto la porta a reunion fatte sopratutto per amore dei soldi (la piattezza di ‘Dehumanizer’ parlava da sola), le regole del music business e l’ottusità dei fans le conosceva bene, dunque, perché prendersela con Tony Iommi o le varie case discografiche? Era andata così perché non poteva andare in altro modo. Punto.

L’uscita di questo suo primo album solista l’accolsi con piacere, anche perché nelle recensioni si parlava di una discreta vena blues e rhythm & blues che mi pareva ottimo terreno per la sua ugola calda ed un po’ rauca (il ricordo di quel diabolico hard blues intitolato “Black moon” che resta per me la miglior track di ‘Headless Cross’ aumentava ancora di più le aspettative). E Tony Martin non deluse le (mie) attese, ‘Back where I belong’ si rivelò difatti un bel disco di rock melodico e bluesy nella miglior tradizione britannica, con un riguardo particolare per il sound dei vecchi Whitesnake, che fanno capolino (in chiave AOR) fin dall’iniziale “If It Ain’t Worth Fighting For”, con il suo assolo di sax; rispuntano nella drammatica title track, che è arricchita da begli interventi di piano ed Hammond; nella perla “Now You’ve Gone”, AOR suadente e notturno che si fa via via più elettrico, con un refrain breve ed incisivo; nel piacevole hard bluesy “India”, movimentato da indiavolati interventi di pianoforte ma con una linea melodica un po’ opaca. C’era poi il blues puro e semplice di “It Ain’t Good Enough”, con gran spolvero di Hammond e sezione fiati, il soul AOR della ballad “If There Is A Heaven”, un bell’hard rock serrato alla Purple/Rainbow intitolato “Sweet Elyse”. Lo strumentale d’effetto “Ceasefire” precedeva “Why Love”, power ballad dal grande atmospheric power con qualcosa dei Bad Company era Paul Rodgers, “The Last Living Tree” era invece una ballad tutta archi e piano con pregevoli ricami soul, mentre  “Angel In The Bed” si risolveva in un caldo hard rock melodico. Per chiudere l’album, Tony Martin decideva di reincidere “Jerusalem” (completa del suo intro strumentale “The Road To Galilee”), prelevata da ‘Tyr’, in una versione più AOR e meno epicheggiante di quella originale.

In definitiva, un signor disco, suonato da vari ex colleghi dei Sabbath e personalità più o meno in vista dell’hard rock britannico (da Brian May a Zakk Starkey), prodotto benissimo e che avrebbe dovuto essere tenuto in maggior considerazione dai fans dell’AOR più bluesy.

 

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LESLIE WEST

 

 

  • AS PHAT AS IT GETS (1999)

Etichetta:Mystic Music Reperibilità:buona

 

Nessun elenco di grandi rock bands degli anni ’70 può essere completo senza i Mountain. Durarono appena quattro anni, dal 1970 al ’74, ma bastarono per creare una leggenda. Dopo ‘Avalanche’ la montagna franò perché Leslie era sempre strafatto di droghe pesanti ed il povero Felix Pappalardi stava diventando sordo a causa del volume troppo alto della musica durante i concerti (!!). E così, Leslie West avviò una carriera solista che continua fino ai nostri giorni, l’ultimo album ‘Unusual Suspects’ è uscito l’anno scorso, sempre fatto di hard rock blues pesante e duro come il granito. Perché non vi parlo di questo disco, e punto invece i riflettori su ‘As Phat as it Gets’? Così, solo uno dei soliti sadismi del webmaster, penserà qualcuno… Non questa volta, dato che ‘As Phat as it Gets’, nonostante risalga al 1999, è reperibile senza problemi (ed essendo vecchio di qualche anno, costa meno del fresco di stampa di ‘Unusual…’, oltretutto). È che questo disco resta il mio preferito fra quelli solo di Leslie, tutto qui. Lui, l’ex grassone (da parecchi anni è riuscito a ridurre la propria mole a dimensioni più ragionevoli) più talentuoso della storia del rock, che nonostante gli eccessi ed una salute tutt’altro che perfetta (ha il diabete e l’anno passato i medici sono stati costretti ad amputagli parte della gamba destra), continua ad ostentare un ottimismo ed uno humor ammirevoli. Basta a rappresentarlo una foto che potete trovare sul suo sito web, seduto su una sedia a rotelle, con il bordo del jeans che penzola su quanto gli resta della gamba destra, un gran sorriso sulla faccia ed il pollice risolutamente puntato verso l’alto. O una delle storie che racconta nel booklet di ‘Unusual…’, di quando i Lynyrd Skynyrd lo presero seriamente in considerazione per rimpiazzare Ed King, ripiegando poi su Steve Gaines per le insistenze del loro manager Peter Rudge, che riteneva Leslie avesse una personalità troppo forte. E quando Leslie seppe dell’incidente aereo in cui erano morti Ronnie Van Zant e Steve Gaines, spedì a Rudge un biglietto di ringraziamento per non averlo raccomandato alla band…

As Phat as it Gets’ vede Leslie all prese con pezzi originali e cover, assistito da ospiti prestigiosi (Joe Lynn Turner, Randy Coven, Kim Simmonds dei Savoy Brown, Popa Chubby, Vince Converse, la band di George Thorogood e tanti altri), per un album di hard rock blues massiccio e devastante. Basta il riff dell’iniziale “Saturation (I’m in Love With You)” per dare un quadro esatto del materiale bollente che Leslie ci fa rotolare addosso, un riff grasso, pesante, pachidermico, bluesy, sporcato con wah wah, da cui si stacca un assolo impostato su note acute e tirate. “The Cell” è fatta di acustiche western che sfumano in un telaio elettrico dal suono denso e luminoso su cui svetta una grande melodia, per un altro theme for an imaginary western…Allergic” è un hard blues nello stesso tempo graffiante e suadente, notturno, incandescente, spigoloso ma pieno di fascino, rifinito da una bella sezione fiati. Il classico “Palace of the King” viene opportunamente elettrizzato, e anche la storica “Stormy Monday” (uno standard di T-Bone Walker) non passa indenne tra le mani di Leslie, sette minuti di slow blues da urlo, condivisi con la chitarra di Popa Chubby (un chitarrista che chiunque ami l’hard blues dovrebbe conoscere). Joe Lynn Turner prende il microfono per “I Can’t Shake It”, un super boogie elettrico e sinuoso che fa tanto Bad Company. Ancora due classici con “Tequila”, strumentale al calor bianco fatto praticamente solo da due chitarre elettriche che giocano ad intrecciarsi ed inseguirsi, e “Me and My Guitar”, su cui Leslie duetta con la voce e la chitarra di Vince Converse. “Dragon Lady” è di nuovo slow blues, un chitarrone lacerante, grasso e tagliente, il pianoforte, flash di ottoni: grande! “Raw Nerve” è un boogie molto ZZ Top, divertente e bastardo, chitarra slide e tanto ritmo, tocca poi alla “Respect” di Otis Redding di venire maltrattata (si fa per dire) dalla chitarra e dal vocione di Leslie che cavalca una scatenata sezione fiati e duella con un sax impazzito. In chiusura, la title track, poco più di una boutade, con la chitarra grassa e sporca sul battere della cassa e Leslie che canta con la sua voce rauca e pastosa (immaginate un Joe Cocker più acuto) “Ero grasso, ma ora non lo sono più…” e altre amenità su questo registro.

Se poi proprio non vi va di andare sul web alla ricerca di ‘As Phat as it Gets’, ripiegate pure su ‘Unusual suspects’, ugualmente eccellente, anche qui Leslie non si fa mancare duetti con amici e colleghi (Slash, Steve Lukather, Billy Gibbons) per un’altra collection di hard blues come altri possono solo sognarsi.

 

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PRINCESS PANG

 

 

  • PRINCESS PANG (1989)

Etichetta:Metal Blade Reperibilità:in commercio

 

Nella breve stagione dello street rock, i Princess Pang possono reclamare un primato: furono l’unica band (almeno l’unica band di mia conoscenza) guidata da una voce femminile.

La storia predebutto dei Princess Pang è intricata e movimentata. Il nucleo della band era formato dalla cantante Jeni Foster e dal bassista svedese Ronnie Roze, che incontrò Jeni mentre si trovava di passaggio a New York. I due, non riuscendo ad individuare elementi adatti nella scena newyorkese per completare i ranghi, si trasferirono a Stoccolma, reclutarono un po’ di indigeni e suonarono nella capitale svedese per un annetto prima di tornare negli USA con il solo chitarrista Andy Tjernon e rifare da capo la band aggiungendo l’altro chitarrista Jay Lewis (che pare fosse finlandese…) ed il drummer Brian Keats, con un passato nella scena punk. Nel 1989 arriva il debutto autointitolato per la Metal Blade ma – nonostante show a supporto di Ace Frehley, Mr. Big e Wolfsbane  – la band cade quasi subito nel dimenticatoio e si scioglie fra l’indifferenza generale. Peccato, perché ‘Princess Pang’ era un gioiellino di rock grezzo ed elettrico, benedetto dalla produzione robusta di Ron St. Germain: non un classico, certo, ma comunque un’opera che non sfigurava affatto nei confronti della concorrenza.

Trouble in Paradise” apriva le danze con un ruvido hard boogie blues sospeso tra AC/DC e ZZ Top, festonato di svisate di chitarra slide e tagliato come un rasoio da un assolo sporco e sguaiato. “Find My Heart a Home” era invece un mid tempo lento, con una bella melodia fresca sull’incedere del riff molto heavy. Se “South St. Kids” era un ispido street rock punkeggiante, “No Reason to Cry” tornava sui sentieri del boogie, c’era anche un pianoforte a completare l’arrangiamento variegato e vivace ed un bell’assolo incisivo e tirato. “Sympathy” partiva al ritmo di un riff rotolante e zeppeliniano, con Jeni che si concedeva di planteggiare un po’ prima del ritornello essenziale ed anthemico, ed un assolo  lungo, colorato, emozionante. “Scream and Shout” era ancora street rock, serrato, veloce, senza fronzoli, “China Doll” parlava invece la lingua del metal californiano, bel ritmo e notevole incrociarsi degli assoli: come dei Ratt ruvidi e selvatici. “Baby Blue” era un riff come un mattone di piombo che sfumava su un malinconico impasto elettroacustico prima di ricomparire sotto il ritornello urlato, “Too Much, Too Soon” era fatta di un sovrapporsi di riff secchi, ombre funky, un ritmo ancheggiante e pigro, un assolo tutto wah wah, un grande refrain. Tornavamo a L.A. grazie a “Any Way You Want It”, con il suo riffing geometrico e metallico, sempre un po’ ratteggiante e chiudeva “I’m Not Playin’”, cupa ed heavy ma condotta da una sezione ritmica sinuosa, qualche sprazzo funky ed un bel refrain.

Per quanto riguarda la reperibilità dell’opera, occorre fare un distinguo sostanziale tra i supporti. Su LP e cassetta gira tra eBay ed Amazon in discreti quantitativi ed a prezzo onesto. Su CD, invece, è una rara avis con quotazioni che vanno dai 70 ai 260 dollari (su Amazon, per l’edizione giapponese). Dal 2011 è però scaricabile da Amazon USA per la miserabile somma di dollari 8,99. Considerato che il futuro della distribuzione musicale passa (sembra) per il web, debbo ritenere questo disco regolarmente in commercio e non credo che qualche label dedita al settore ristampe – stante la sua sostanziale reperibilità tramite il maggiore store on line del pianeta – possa sentirsi stimolata a riproporlo su CD. Insomma, il modo più semplice per entrarne in possesso è rivolgersi al downloading, a meno che non possiate permettervi lo sfizio di prenderlo a carissimo prezzo su Compact o non apparteniate alla categoria dei feticisti del buon vecchio vinile nero.

 

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FASTWAY

 

 

  • EAT DOG EAT (2011)

Etichetta:SPV Reperibilità:in commercio

 

Un paio d’anni fa, scrivendo dei Fastway di ‘All fired up’, concludevo il pezzo manifestando un moderato pessimismo riguardo la possibilità che quel moniker tornasse a farsi vivo. Invece, a dicembre del 2011, i Fastway sono tornati tra noi con questo nuovo ‘Eat dog eat’, che vede accanto a Eddie Fast Clarke l’ex Little Angels Toby Jepson come nuovo cantante.

Eat dog eat’ segna un sostanziale ritorno al passato per i Fastway, e non intendo tanto quello dei primi due storici album, affonda ancora di più negli anni ’70, hard rock blues polveroso ed essenziale, potente ma con un ordito melodico. Toby Jepson non si limita a prestare la propria (grandissima) voce, suona tutte le parti di basso e produce impeccabilmente il disco, solo nell’ultima canzone, “On and On”, spuntano (vaghe) reminiscenze Little Angels, lo spirito ed il carattere dei Fastway restano intatti nonostante la profonda diversità di impostazione vocale tra Toby ed il planteggiante ed acutissimo Dave King.

Apre la superba “Deliver Me”, totalmente zeppeliniana dal riff all’interpretazione di Toby, spezzata da un notevole assolo rauco e potente. “Fade Out” è aperta da accordi dissonanti che ci portano su un riff essenziale, in un’atmosfera cupa che si attenua nella melodia del refrain, mentre “Leave a Light On” ha un riff molto AC/DC, tempo boogie, un bridge melodico ed un ritornello rhythm & blues: super. Con “Loving Fool” ci tuffiamo nel più tradizionale hard rock inglese, bluesy e melodico, non si può fare a meno di pensare ai Thunder, mentre i Bad Company  presiedono a “Dead and Gone”, nettamente divisa in una prima parte acustica e fascinosa ed una seconda vigorosa ed elettrica. Ancora i Thunder vengono chiamati in causa su “Sick As a Dog”, ritmo irresistibile e grande refrain. Il riffing secco di “Freedom Song” si apre alla melodia nel refrain, “Who Do You Believe” viaggia su un riff duro e plumbeo su cui si adagia una melodia sinuosa intarsiata di interventi di chitarra suonata col wah wah, “Love I Need” è un hard blues lento e intenso, che ricorda distintamente certe cose di Walter Trout, mentre la conclusiva “On and On”, come già scritto, è l’unico ricordo dei Little Angels, con la sua melodia vivace trapiantata però in un contesto più rude, senza quella produzione sofisticata e lussuosa a cui la band di ‘Don’t Prey for Me’ (recentemente riformata, ma solo per qualche concerto) ci aveva abituato.

Insomma, un disco magari non proprio uguale a quelli dei Big 80s, senza la minima traccia di metal californiano, ma ugualmente in grado di entusiasmare gli amanti del classico hard rock inglese.

 

 

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THE GRAVEYARD TRAIN

 

 

  • THE GRAVEYARD TRAIN (1993)

Etichetta:Geffen Reperibilità:scarsa

 

Nella recensione della compilation ‘Street Survivor’, tra le band perdute su cui varrebbe la pena di spargere qualche lacrima mettevo gli NRG, autori per quella raccolta di una notevole scheggia di hard rock zeppeliniano. Ma questa band, in effetti, non svanì nel nulla, piuttosto si trasformò: qualcuno andò via, qualcun altro arrivò e infine assunse un nuovo moniker: The Graveyard Train. I motivi del cambio di denominazione stavano forse nella decisione di spostare l’asse del proprio sound in direzioni spiccatamente bluesy e southern rock? Quien sabe? Ci resta di loro un disco, uno solo, e che gran bel disco. Prodotto da Tom Werman, ‘The Graveyard Train’ è aperto alla grande da “Down to the Wire”, un’esercitazione sul tema del voodoo blues in pieno stile Badlands: chitarre acustiche e fingersnaps che procedono lenti e insinuanti prima che esploda un refrain elettrico e sinuoso. “Hell on Wheels” e “Walkin’ the Line” (bello l’assolo di chitarra slide sulla seconda) sono hard blues zeppeliniani, polverosi e metallici nello stesso tempo , con un certo smalto Tesla. “Memphis #999” è invece un meraviglioso impasto di acustiche ed armonica country & western ed un crescendo elettrico singhiozzante, decisamente southern nello stile dei Black Crowes. E ancora i Crowes, nella loro versione più soul, spuntano fra le righe di “Medicine Man”, piece elettroacustica dal gran ritmo su cui occhieggiano anche i Cinderella (era ‘Heartbreak Station’, naturalmente). “Graveyard Boogie”, come il titolo suggerisce, è un boogie elettroacustico, lento e divertito, mentre “In the Orange Grove” è invece un hard blues tagliato col rasoio, riff essenziale e qualche ombra di Hammond: come dei Salty Dog più melodici e patinati. Immensa “Salvation Psalm”, chiaroscuri incantati di chitarra acustica ed Hammond che si incendiano in un refrain tra l’anthem e la danza di guerra pellerossa sopra una caldissima slide guitar. “Spirits A Movin’ ” parla di nuovo la lingua di Tesla e Black Crowes, una power ballad dai forti accenti southern, mentre la successiva “Love and War” è una sensibile ballad tutta acustiche, Hammond e armonica. Il boogie blues torna a dettare legge con “Change the World”, elettroacustico e con un suono vintage da brividi. “The Reason (I Love You)” è un’altra scheggia melodica che guarda al rock degli stati del sud e chiude “Breakout”, suggestiva, trascinante cavalcata western.

Svaniti nella nebbia poco dopo l’uscita del disco (era il 1993: devo aggiungere spiegazioni?), i The Graveyard Train restano una delle più efficaci e talentuose band hard blues dei bei tempi che furono. L’album gira su eBay ed Amazon a prezzo onesto ed è tutt’altro che difficile da reperire: per chi ama l'hard rock più bluesy, un acquisto irrinunciabile.

 

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TSOL

 

 

  • STRANGE LOVE (1990)

Etichetta:Enigma Reperibilità:scarsa

 

Storia curiosa, quella dei TSOL (acronimo che dovrebbe significare True Sound Of Libery). Cult band per punk arrabbiati e radicali, piano piano si accostano al rock mainstream e infine all’hard rock metallico e stradaiolo che a fine anni ’80 è il trend dominante a L.A.. È infatti proprio nella scena hard rock / metal che i TSOL contano prestigiosi estimatori: più di una volta, membri di Metallica e Guns N’ Roses si sono fatti fotografare indossando magliette che portavano il loro logo stampato sopra, Steven Adler ne indossava una addirittura nel videoclip di “Sweet child o’ mine”. È sopratutto grazie a questa pubblicità proveniente dalle alte sfere che la band è riuscita ad agguantare un contratto major con la Enigma dopo anni passati a incidere per microscopiche etichette con distribuzione inesistente. Nel 1990, questo ‘Strange Love’ segna il loro definitivo ingresso nell’ambito dell’hard rock, di punk e hardcore non c’è più ombra fra le dieci canzoni prodotte da John Jansen (Faster Pussycat, Bang Tango, Cinderella), la voce maligna e disperata di Joe Wood (provate ad immaginare un incrocio tra Blackie Lawless e Brian Johnson) ci porta dritta sulle strade di L.A. con “Hell on Earth”, ruvida e cupa sull’asse Guns N’ Roses – L.A. Guns. Un gran riff saltellante introduce la title track, con qualche sprazzo funky ed un clima decadente degno dei migliori Lynch Mob, mentre “In the Wind” e “Angel” sono quasi delle power ballad, la prima ha un inizio sognante prima di avviarsi con decisione nei territori cari ai Guns N’ Roses di ‘Appetite…’, la seconda risulta cupa e desolata, ma è impostata su linee melodiche molto suggestive. Se “White Lightning” è una bella esercitazione sul classico sound AC/DC, “One Shot Away” risulta invece molto metallica e californiana nello stile dei primi L.A.Guns, e “Blow by Blow” è addirittura un vero e proprio power metal dalla ritmica galoppante. Giro di ruota con “Candy”, divertente hard blues, scanzonato e randagio, con qualche bell’intarsio di chitarra acustica e armonica; poi arriva il capolavoro del disco, “Let Me Go”, piece lenta ed elettrica, sinuosa e notturna, disperata senza essere patetica, mortifera eppure incredibilmente fascinosa. Ancora street rock con “Stop Me at the Edge”, tagliente ed ipnotica alla maniera dei Kik Tracee e chiude “Good Goodbye”, metal californiano in cui i TSOL suonano come dei Ratt più ruvidi e violenti.

Dopo ‘Strange Love’ la band praticamente si disfa, poi si sdoppia, infine si riunisce per registrare dischi che tornano al vecchio sound punkeggiante, l’ultimo è ‘Life, Liberty & the Pursuit of Free Downloads’ che, come il titolo suggerisce, era offerto gratuitamente per il download sul sito della loro label, la Hurley International: stranezze di punk pentiti o rassegnata resa ad una realtà piratesca che ormai permette ai musicisti di guadagnare qualche spicciolo solo suonando dal vivo?