RECENSIONI IN BREVE

 

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TESLA "Simplicity"

Per questo nuovo album dei Tesla, il webmaster consiglia la seguente strategia d’ascolto: cominciare dal brano numero uno, poi saltare quelli dal due al cinque e riprendere dalla canzone numero sei per proseguire fino alla fine. Le canzoni escluse sono prive di mordente e di idee, sterili esercitazioni di sound che non portano da nessuna parte, e comprendono per giunta un nauseabondo lamento grunge (“Honestly”), fuori tempo e fuori luogo. Il resto è discreto ma non in grado di riportare Frank Hannon e soci ai fasti dei primi due album: sono i soliti Tesla che mescolano con disinvoltura metal classico e moderno, blues e classic rock, ma l’ispirazione non è quella dei tempi migliori, e teniamo conto che la china discendente questa band l’ha presa fin dai tempi del sonnolento ‘Bust a nut’. Come altri reduci dei Big 80s, i Tesla ormai non hanno sostanzialmente più nulla da dire e procedono per pura inerzia, contando sulla devozione dei fans ed il prestigio accumulato dal moniker: ‘Simplicity’ è senza dubbio superiore a tanta immondezza contemporanea, ma la freschezza, il piglio e l’estro di ‘Mechanical resonace’ e ‘The great radio controversy’ sono irrimediabilmente (temo) lontani.

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Frontiers - 2014

 

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ROCKABYE "Rockabye"

Nel 1988 la differenza tra un lavoro inciso per una major ed uno pubblicato da un’etichetta indipendente era quasi sempre palese, e quest’unica testimonianza lasciataci dai Rockabye può essere presa come simbolo di un certo genere di prodotto discografico di fine anni ’80. La qualità audio è buona, la band è competente, il songwriting vaga nei meandri del risaputo con qualche guizzo che parla di una voglia di osare ma anche di una mancanza di mezzi (in termini di tempo e/o soldi) che taglia le gambe a qualunque tentativo di architettare davvero qualcosa di diverso nell’ambito del genere scelto (metal californiano sulla scia di Crüe, Ratt, Keel, Vinnie Vincent Invasion e compagnia). Avessero avuto a disposizione uno studio da mille dollari al giorno ed un produttore esperto, i Rockabye avrebbero forse potuto diventare quello che due anni dopo saranno i Firehouse o gli Slaughter; confinati al mercato indipendente, sono svaniti nella nebbia senza che nessuno si accorgesse veramente di loro.

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Epigram - 1988

 

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AOR "L.A. Connection"

E dalli con le celebrazioni… ma Frederic Slama è uno che di celebrazioni se ne intende, dato che con la serie AOR è arrivato alla tredicesima (!) replica. Non che sia difficile o impegnativo assemblare questi album, considerato che le dieci canzoni di ‘L.A. Connection’ sono praticamente tutte uguali: stesso riff, stesso tempo, stesse timbriche di chitarra e tastiere, è una specie di interminabile karaoke al servizio dei cantanti e degli assoli sempre un po’ alla Neil Schon di Slama. I cantanti cambiano in ogni canzone, e fanno il loro dovere, nei limiti delle loro possibilità: alcuni sono ormai decisamente giù di voce (Jeff Paris, Paul Sabu, David Forbes) e sono stati convocati da Slama giusto perché, essendo dei nomi celebri, dovrebbero (nella sua fantasia, almeno) dare lustro al prodotto, altri fanno il loro compitino senza mostrare soverchio entusiasmo (i coniugi Champlin, in particolare Tamara), altri ancora ci danno dentro discretamente, ma manca comunque la sostanza in cui affondare i denti, la base è inconsistente e lascia alle voci il compito di caratterizzare un po’ i brani, un gioco che riesce parzialmente e solo quando dietro il microfono stanno personaggi come Sabu o Jeff Paris che hanno uno stile vocale inconfondibile (anche se le performance offerte non sono certo quelle dei tempi d’oro). La noia, alla fine, regna sovrana e la voglia di assaggiare ancora questo insipido pappone (leggi: riascoltare l’album) è, ovviamente, zero.

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Escape - 2014

 

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MITCH PERRY PROJECTS "Mitch Perry Projects"

Più volte ristampata, pubblicata in origine con un titolo diverso (‘Better Late Than Never’), questa antologia documenta due progetti del chitarrista Mitch Perry: i Badd Boyz (un album all’attivo, pubblicato solo in Giappone nel 1993) ed i 7% Solution (band rimasta inedita fino alla pubblicazione di quest’album). Le canzoni sotto il moniker Badd Boyz erano affidate a Paul Shortino, mentre il cantante dei 7% Solution era Ralph Saenz (L.A. Guns), e questi due nomi già bastano a distinguere le proposte: i Badd Boyz erano difatti una splendida band di metal melodico californiano, i 7% Solution praticavano più volentieri un hard rock metallico dal forte flavour Van Halen e con un deciso orientamento street rock. Tutte e dieci le canzoni qui incluse sono comunque eccellenti, forse i pezzi registrati sotto il moniker 7% Solution sono un po’ più ispirati (“45 Reasons” ha un andamento pigro e insinuante che mi ha ricordato piacevolmente la “Do It Again” degli Steely Dan), ma anche il materiale dei Badd Boyz (mai ristampato nella sua integrità, il CD giapponese su etichetta Alpha gira su eBay a più di cento dollari) è di tutto rispetto. Un’altra piccola meraviglia sbucata dal passato.

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Z Records - 2005

 

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BOMBAY BLACK "Walk of shame"

Di questa band non si parla abbastanza, eppure sono in giro da diversi anni, hanno già pubblicato sette album e li ritroviamo regolarmente nel cartellone di molti festival importanti, sia in USA che in Europa. Il loro suono ha le sue radici nel metal californiano, ma sa farsi garbatamente moderno (il riff zompettante di “America’s Sweetheart”, le chitarre stoppate di “Come Over Here”) concedendosi spesso a melodie di stampo Cheap Trick ma con notevole eclettismo, così che “Living On Mars” è una power ballad di cui i Bon Jovi avrebbero potuto andare fieri, “Haunting L.A.” sembra uscita da uno degli ultimi lavori degli Winger e si sentono distintamente i Nickelback nella melodia di “Sucker”. Insomma, ‘Walk of shame’ è un album vario, stuzzicante, divertente, che aggiorna i temi sonori che ci sono cari con intelligenza e ottimo gusto: se il futuro passasse dalle parti dei Bombay Black, personalmente non avrei nulla da obiettare.

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Triage Music - 2014

 

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X-DRIVE "Get Your Rock On"

Mi aspettavo chissà che da quest’album, ma le attese sono state in gran parte deluse. Il songwriting è opaco ed il chitarrismo del leader Jeremy Brunner risulta veramente anonimo, sia in fase ritmica che solista. Keith St.John ci mette molto del suo, inventandosi linee melodiche sempre accattivanti ma intessute su una trama spenta o scontata. Qualche nota lieta viene da “Rattlesnake Eyes” (molto festaiola), “Just Can’t Stay” (più vivace, grazie soprattutto ai cambi di tempo) e dalle ballad, sempre dense di sfumature west coast, ma nel genere specifico (hard rock metallico e californiano) quest’anno abbiamo sentito di meglio e di più. In definitiva: catalogate gli X-Drive alla voce “band inutili” e passate pure oltre.

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Frontiers - 2014

 

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MARTINA EDOFF "Martina Edoff"

In campo AOR, era da qualche anno che non veniva fuori una voce così bella e così ROCK come quella di Martina Edoff, siamo assediati da soprani leggeri falliti ridotte a riciclarsi nell’AOR o ugole caramellose, acutissime e chiocce  che dovrebbero cantare solo le sigle dei cartoni animati (due esempi recenti: Angelica e la front girl dal nome impossibile degli Adrenaline Rush). La voce di Martina richiama quella di Robin Beck, è potente, tagliente, espressiva e sempre a suo agio nelle dieci schegge di questo esordio che porta il suo nome, impostato su un AOR hard edged classico e ben assemblato, il songwriting non fa gridare al miracolo ma è convincente, qualche sfumatura di rock adulto contemporaneo compare solo e a volte nei tappeti di tastiere, per il resto si viaggia in territori ben noti a chi bazzica il nostro genere, con il top nell’AOR blues patinato di “Hero” e in “Seeds Of Love (Mother Nature Song)”, fascinosa power ballad policroma che modula il sound ottantiano degli Heart sul registro del southern rock più sognante. La qualità audio è in genere sempre buona, ma in due o tre canzoni spuntano dei rumoracci da distorsione che in una produzione professionale e curata come questa risultano difficilmente spiegabili (beninteso: non possono averceli messi a bella posta, questo non è un album dei Graveyard…). Se amate quelle belle voci femminili toste e potenti che per misteriosi motivi sono diventate nel nostro genere sempre più una rara avis, l’ascolto di questo album è vivamente consigliato.

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MRM Production - 2014

 

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MOONLAND "Moonland"

Quello che davvero colpisce in questo album è la sua quasi perfettà identità con lavori più o meno recenti di band a conduzione femminile editi dalla Frontiers: Issa, Angelica, adesso i Moonland. Produzione sontuosa (di Alessandro Del Vecchio, naturalmente), base ritmica quasi sempre impostata sui medesimi tempi, ondate di tastiere e chitarre anonime e inconcludenti, un’assoluta, disarmante banalità delle linee melodiche intonate dalla voce pure gradevole di Lenna Kuurmaa. Mi dispiace dover sottolineare il fatto che è proprio dalla gloriosa Frontiers che ci arrivano questi lavori fatti con lo stampino, privi di un minimo di ispirazione, noiosi oltre ogni dire, prodotti usa-e-getta destinati ad essere ascoltati un paio di volte e poi accantonati con uno sbadiglio. Che senso ha pubblicare album a raffica che non solo valgono pochissimo di per sé ma per giunta si rivelano poi la fotocopia l’uno dell’altro?

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Frontiers - 2014

 

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HOUSE OF X "House of X"

Insospettabilmente buono, questo esordio degli House of X. Dato che nel progetto sono coinvolti diversi vecchi ronzini della scena metal UK (Danny Peyronel, Laurence Archer, Clive Edwards, Rocky Newton), mi aspettavo qualcosa di pericolosamente vicino ai Saxon (brrr…), invece l’album si muove in prevalenza nei territori dell’hard rock inglese, spavaldo, potente, variando spesso registro, tra le ombre bluesy di “Do Me Wrong”, l’hard n’roll stile macigno di “The Road Less Troubled”, il riff zeppeliniano di “Long Arm Of The Law”, la melodia di “Second Son”, il metal californiano di grana grossa intitolato “Busted”. Se “Martian Landscape” è un brutto episodio heavy rock, indeciso se sbrodolare nel metal stile NWOBHM o nello stoner, “Rage” si sviluppa invece come uno stumentale un po’ alla Satriani, ben orchestrato, vivace e accattivante, con un sorprendente finale slow blues. Il chitarrismo di Laurence Archer è sempre duttile e stuzzicante e anche se la voce trasandata di Peyronel non mi piace molto, confermo il giudizio positivo: ‘House of X’ darà quasi un’ora di piacere a chi ama l’hard britannico tradizionale, in bilico tra i ’70 e gli ’80, selvatico ma non rozzo, vigoroso e privo di fronzoli.

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Escape - 2014

 

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DANGER ALLEY "American made"

Vi dico subito che di questa band non so praticamente un beneamato cazzo, soltanto che ci propongono un album conciso (nove canzoni, trentaquattro minuti scarsi) e apprezzabile nel suo replicare con buona efficacia la ricetta sonora degli Autograph in chiave più elettrica. Naturalmente, per la ballad (“Stay”) non possono fare a meno di rivolgersi ai Journey e “Catrina” ruba dieci secondi alla “Jump” dei Van Halen, ma non si esagera con le citazioni, ci sono un paio di acuti notevoli, la qualità audio è impeccabile e la produzione adeguata. Il punto debole è il cantante: è intonato (e bisogna specificarlo, considerato che ormai qualsiasi montato che si crede la reincarnazione di Elvis può comprare un ProTools e registrarsi un album che inevitabilmente cercherà di spacciare come la cosa più eccitante e cool incisa dai tempi di ‘Escape’) ma è un po’ scarsino in fatto di tecnica: niente di veramente drammatico, ma in qualche occasione il fatto che non sia il gemello vocale di Steve Perry diviene anche troppo evidente. Comunque, ‘American made’ è un album ben più che dignitoso, raccomandato in particolare agli amanti del hard melodico californiano.

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Autoproduzione - 2014

 

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UNRULY CHILD "Down the rabbit hole (side one)"

Il giocattolo si è rotto? L’ascolto di ‘Down the Rabbit Hole (Side One)’ porta inevitabilmente a pensare qualcosa del genere. Dov’è finito quell’equilibrio mirabile che la band aveva dimostrato di riuscire a mantere con invidiabile scioltezza ancora su ‘Worlds Collide’? In queste sei canzoni la lingua parlata è quella di un prog leggerino (potrei quasi definirlo “commerciale”): gradevole, certo; magnificamente prodotto e arrangiato, non si discute. Ma questo mix di chitarre in prevalenza acustiche, tastiere e stratificazioni di vocals policrome (con linee melodiche che passano dagli Yes, ai Def Leppard ai Beatles con la solita, eccezionale disinvoltura) con l’AOR o l’hard melodico, infine, ha poco a che fare. Non manca soltanto l’energia, ma la precisa volontà (in passato, sempre chiara) di fondere e intrecciare generi diversi. Bruce Gowdy e Guy Allison qui hanno fatto una scelta precisa, che li riporta indietro fino all’esperienza World Trade, almeno nello spirito: perché qui la base non è il rock melodico, ma il prog: levigato e addolcito (annacquato, diranno i maligni), ma pur sempre prog. Rispetto le scelte della band, ma – si sarà capito – non trovo il risultato di queste scelte particolarmente stimolante. Comunque, ne riparleremo (magari più a fondo) tra qualche mese, quando uscirà la seconda parte di ‘Down the Rabbit Hole’, siglata come ‘Side Two’.

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Autoproduzione- 2014

 

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ADRIAN GALE "Defiance"

Più passa il tempo, più gli Adrian Gale somigliano (o cercano di somigliare) ai Def Leppard. C’è qualche intrusione moderna nel riffing, ma le melodie tessute tramite la voce solista ed i backing vocals hanno quella inconfondibile matrice. Non i Leppard spettacolari, quelli bombastic, da arena rock, festaioli e scanzonati. Il mood è più… melanconico? Forse solo più freddo e un po’ cupo. Resiste qualche vaga reminiscenza Van Halen qui e là, ma alla fine la canzone migliore mi pare la conclusiva “Speed”, all’insegna del più classico metal californiano, con una linea vocale per niente Joe Elliot inspired. Comunque, un album interessante.

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LABEL - 2014

 

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ELI "Push It Hard"

Dato che questo album viene scambiato su eBay a cifre nell’intorno dei 700 $, considerate la seguente review come pura accademia. ‘Push It Hard’ è un lavoro tutt’altro che imprescindibile, ma se pure fosse una lost gem di caratura (musicale) equivalente a quella del Koo-i-Noor, la quotazione lo renderebbe praticabile solo per collezionisti assatanati (e benestanti). Comincia con il melodic metal scontato della title track, prosegue con un party anthem altrettanto scontato, “Long Tall Baby Doll”, con il refrain ricalcato senza fantasia su quello di “I Love R’n’R” (divertente comunque), ma prende di colpo quota grazie a “Head Over Heels” e poi a “Do You In” e “Love Somebody”, in cui i ragazzi suonano come dei Warp Drive meno avventurosi, o degli INXS in versione class metal e senza una goccia di funk. C’è poi una power ballad drammatica e pompata (“Never Been Loved”), la bella sintesi di Ratt e Van Halen intitolata “One More Drink”, un mid tempo che le tastiere trasformano quasi in un arena rock (“Gasoline”) mentre la chiusura è affidata al buon metal californiano “Lonely in Love”, cromato al punto giusto. Dopo due anni gli Eli ricomparvero con l’EP ‘Beware Of The Dog’, anche questo prezzato al giorno d’oggi oltre i limiti di qualsiasi ragionevole desiderio.

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Era Records - 1990

 

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VINCE O'REGAN "Temptation"

Questo primo (?) album solista di Vince O’Regan (chitarrista di Pulse e Legion) ha uno strano rendimento altalenante. Comincia benissimo con le prime due canzoni, si affloscia di brutto con un blocco di quattro tracks insignificanti, riprende notevolmente quota tramite gli ultimi quattro pezzi. L’hard melodico di cui è fatto sembra ispirato in prevalenza dagli ultimi House Of Lords, e magari dagli Shy dell’album omonimo: spesso solenne, sempre un po’ enfatico, ma decisamente yankee nello spirito. Dietro il microfono si alternano vari cantanti, fra cui Paul Sabu ed un altro ex Pulse, Simon Abbot. La qualità audio è discreta, ma il mastering è di quelli rumorosi. In definitiva: niente per cui andare fuori di testa, ma un ascolto lo vale di sicuro.

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NEH Records- 2014

 

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IMPERA "Empire of sin"

Appena un anno dopo ‘Pieces of eden’, la band di J.K. Impera sforna un nuovo album, ‘Empire of Sin’, che non si discosta molto dal predecessore, salvo per una certa sterzata heavy metal, sopratutto nelle prime track in scaletta: mano a mano che l’album procede l’atmosfera si fa meno rovente, lasciando (fortunatamente) più spazio a tematiche class ed atmosfere di metal californiano. Si staccano abbastanza dal resto “End of The World”, hard melodico dal flavour celtico e la ballad elettrica e bluesy “Darling”. La resa globale del prodotto è sopra la media, ma la fruizione viene limitata (come già per ‘Pieces of eden’) dalla scelta di un mixaggio rumoroso ed un mastering assordante, rendendo l’ascolto (in cuffia, almeno) affaticante e mortificando una qualità audio che si intuisce più che buona ma la scelta idiota di pompare il volume al massimo in fase di masterizzazione in buona parte rovina.

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Escape - 2014

 

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LEAH "Kings & Queens"

Non è proprio il genere di materiale sonoro che frequento d’abitudine, ma un ascolto preventivo mi ha convinto a segnalare questo interminabile (circa un’ora e venti) album ai miei fedeli lettori. La ricetta sonora di Leah prevede una miscela di ingredienti tutt’altro che originali ma raramente combinati fra loro a questo modo: sintetizzando, immaginate un misto di Lacuna Coil, Lana Lane ed Enya. C’è una forte componente gothic su cui si innestano vocals spesso di stampo celtico, modulate dalla voce veramente accattivante di Leah, calda, espressiva ma sopratutto policroma. Il punto debole di tutto il gothic sinfonico sta infatti nella quasi perfetta intercambiabilità del materiale, senza esagerazioni si può affermare che sentita una canzone le hai sentite tutte: i riff moderni e stoppati sempre identici, i tappeti uniformi di tastiere d’archi, quelle voci da soprano che gorgheggiano instancabili e monotone… Il genere avrebbe potenzialità enormi ma solo due o tre ensemble le esplorano: Leah ci prova, qualche volta lo fa davvero bene, qualche altra meno, ma le sue canzoni sono sempre decisamente vivaci a livello di arrangiamenti, con momenti heavy che si alternano a parti leggiadre, delicate, suggestive ed un varietà di ispirazione molto piacevole (‘In The Palm of Your Hands’ è impostata su una melodia vocale un po’ Ten). Per chi già è affezionato al genere, ‘Kings & Queens’ è sicuramente un ascolto obbligato, ma anche quelli meno portati alle evoluzioni sinfoniche in ambito metal potranno trovare qui più di un motivo d’interesse.

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Inner Wound Recordings - 2015

 

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HAREM SCAREM "Thirteen"

Questo ‘Thirteen’ non è certo ‘Mood Swing’, ma neppure uno di quegli album registrati a cavallo del nuovo millennio in cui pareva che gli Harem Scarem tentassero di proporsi come versione melodic rock dei Green Day. Album molto gradevole, con qualche tocco di originalità e una certa varietà di ispirazione: i frequenti riferimenti ai Def Leppard si alternano a innesti moderni alla W.E.T./Eclipse (“The Midnight Hours”), mentre su “Early Warning Signs” si sentono distintamente i Queen. Il top? “Stardust”, eccellente melange di riff elettrici non banali, armonie vocali metà Def Leppard e metà Beatles proiettate su un variegato tappeto di keys. Davvero un buon album.

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Frontiers - 2015

 

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REVOLUTION SAINTS "Revolution Saints"

Non fatevi impressionare dai nomi coinvolti in questa band estemporanea, il vero artefice del progetto Revolution Saints è il solito Alessandro Del Vecchio, che compone e arrangia il grosso del materiale (e, naturalmente, lo produce). Le dodici canzoni dell’album si dividono tra un AOR moderno di prevalente matrice scandinava già sentito un paio di miliardi di volte e ricalchi in chiave più heavy di cose prelevate dal repertorio dei Journey. Jack Blades non incide minimamente, Doug Aldrich neppure, Deen Castronovo fa il suo eccellente compitino nel ruolo dello Steve Perry clone e, alla fine della fiera, è legittimo chiedersi perché diavolo qualcuno dovrebbe mettersi all’ascolto di canzoni che somigliano tanto a quelle dei Journey cantate da qualcuno che ha una voce che somiglia tanto a quella del cantante dei Journey quando potrebbe ascoltare direttamente i Journey. Gli strombazzamenti orchestrati attorno ai Revolution Saints ricordano molto quelli che l’anno passato accompagnarono il primo album degli L.R.S.. Se avrete la bontà di seguire il link, scoprirete che quanto avevo predetto a suo tempo per gli L.R.S. si è avverato: non ho il minimo dubbio riguardo il fatto che un destino del tutto simile toccherà anche ai Revolution Saints.

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Frontiers - 2015

 

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COMPANY OF STRANGERS "Company of Strangers"

In ambito AOR, l’Australia ha prodotto alcuni act da non sottovalutare, capaci di sfornare piccole (e neanche tanto piccole, talvolta) gemme che reggevano senza imbarazzo il confronto con quanto pubblicato dalle band Nordamericane. Era il caso di questi Company Of Strangers (ma anche di Pseudo Echo, 1927, Broken Voices), che con questo loro unico (da quel che so) album uscito nel 1992 ci offrivano un’eccellente collezione di AOR patinato, con riflessi pop, R&B e west coast. Il top in “Lost In The Rhythm Of Love”, delizioso impasto di atmosfera ed elettricità, fascinosa e frizzante nella stessa misura e “Should’ve Known Better” che fa corpo unico con lo strumentale “Very Light Hell” per oltre otto minuti di AOR policromo sulla scia di The Works e Glass Tiger. Caldamente consigliato.

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Columbia - 1992

 

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ROB MORATTI "Tribute to Journey"

Le canzoni dei Journey sono conosciute in tutto il sistema solare e abbiamo già dovuto subire una serie infinita di cover, allora, che senso ha reincidere dodici pezzi della AOR band per eccellenza, quasi tutti super classici degli anni d’oro, per di più in versioni al limite del filologico? Ha senso dal punto di vista di Rob Moratti, che a Steve Perry ha sempre guardato come un modello vocale. È un omaggio, è, cito le parole di Rob dalla bio fornitami, “il mio modo di dire grazie”. Che poi la dichiarazione di gratitudine in esame abbia un interesse solo relativo per il pubblico è sottinteso dal fatto che la Escape ha deciso di stampare questo ‘Tribute to Journey’ in appena mille copie numerate. Il risultato finale? Discreto, almeno per me che apprezzo la voce di Rob Moratti ma non sono un suo fan sfegatato. C’è la solita insistenza sugli acuti e sembra (a me, che non ho studiato musica al conservatorio e vado, letteralmente, a orecchio) che in qualche frangente (“Who’s Cryin’ Now”, fra gli altri) Rob abbia alzato la tonalità della canzone di un’ottava o giù di lì (gli edotti nella teoria musicale trattengano le risatine ironiche, please). Grande attenzione alla tecnica ma poche sfumature nelle interpretazioni (dov’è la passione, ardente eppure malinconica, che dovrebbe sgorgare da “Separate Ways”? E la tenerezza in “Who’s Cryin’ Now” che fine ha fatto?), va meglio sui pezzi più rock (“Anyway You Want It”, una “Stone In Love” condotta da una chitarra decisamente heavy) su cui Rob può sfogare al meglio la sua vocalità sempre un po’ sopra le righe. Insomma: questo è un album only for fans. Fans di Rob Moratti, naturalmente.

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Escape - 2015

 

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MA KELLEY "Banned in America"

Passano per essere uno dei nomi minori della scena hard USA, e non del tutto a torto, eppure i Ma Kelley da Indianapolis avevano qualità da vendere: sapevano svariare bene su diversi registri, passando con disinvoltura dal melodic metal californiano al funk allo street rock più corrosivo, impostando le canzoni su arrangiamenti che traevano la loro forza principalmente da un impiego parco ma intelligentemente dosato delle tastiere e interventi solisti sempre ben ambientati. Trascurando le stranezze di “Maneater”, possiamo dire che ‘Banned In America’ è un album davvero interessante, raccomandato soprattutto ai fan dello street metal più eclettico e meno contaminato col glam.

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MK Records - 1993

 

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VERITY "Rock solid"

Rock Solid’ fu il secondo album solista di John Verity, chitarrista britannico che militò negli Argent e nei Phoenix. Tagliato per il mercato USA, mostrava una decisa inclinazione verso l’arena rock, ma di grana non proprio finissima: questa tendenza ad atmosfere bombastic contagia anche le ballad (più o meno power), con risultati a volte opinabili, come su “Lonely In The Night”, impasto inedito e di dubbio gusto fra Journey e Kiss (entrambi ripetutamente presi a modello nel corso dell’album). Archiviata una versione in chiave hard melodico della sempiterna “You Keep Me Hangin’ On” riuscita solo a metà, il meglio sta nelle due ultime canzoni, “Play To Win” e “Two Hearts Burning”, grazie ai begli arrangiamenti variegati chitarre/tastiere. Verity ritornerà al disco solo nel 2010, con il discreto ‘Rise Like the Phoenix’.

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WEA - 1989

 

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WORRALL "Worrall"

Recentemente ristampato, questo solitario parto della band dei fratelli Worrall ebbe l’unico torto di uscire troppo tardi, nel 1991, quando il genere di AOR su cui era impostato (quello vagamente pop di Van Stephenson, Jeff Paris, John Parr, magari con qualche spruzzata di Triumph periodo mid 80s) non riscuoteva più i favori del grande pubblico. La devozione al genere era testimoniata anche dalla coverizzazione (molto ben fatta) della “Suspicious Heart” di Van Stephenson, ma c’era spazio anche per il good time AOR di “Summertime Radio”, le sfumature anthemiche di “Hard Times”, le venature blues di “Ordinary Man”. In definitiva: niente di trascendentale, ma senza dubbio il recupero dall’oblio se lo è meritato.

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Spy Records - 1991

 

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PETERIK / SCHERER "Risk Everything"

Superato lo choc per il nuovo look di Jim Peterik (come definire quell’insieme di parrucca riccioluta con il ciuffo viola, occhiali dalle lenti magenta e pellicciotto da esquimese? Tardo-freak sconvolto? Psyco-punk artico? E quale impulso autolesionistico ha spinto Jim a farsi fotografare agghindato in quella maniera? Nasce tutto da un improvvido abuso di sostanze allucinogene, da un disperato tentativo – indubbiamente riuscito – di farsi notare, oppure siamo al cospetto delle prime avvisaglie di demenza senile?), bisogna riconoscere che il frutto di questa collaborazione con lo sconosciuto cantante Marc Scherer ha dato frutti di notevole valore. Il sound rimanda (ovviamente) ai Survivor, ma si allarga a comprendere un’ampia fetta dell’AOR Nordamericano dei Big 80s, includendo Foreigner (l’eccellente “Cold Bloded”), Styx (“Thee Crescendo”) e Journey (inclusa, naturalmente, “How Long Is A Moment”, tanto simile ad “Open Arms” da lasciare interdetti). Scherer ha una voce limpida e potente (un tantino fredda, magari), la produzione è impeccabile, la qualità audio superba. Insomma, per chi ama l’AOR classico, un album assolutamente imperdibile.

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Frontiers - 2015