AORARCHIVIA

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DEADRINGER

 

 

  • ELECTROCUTION OF THE HEART (1989)

Etichetta:Grudge

Ristampa: Bad Reputation

Reperibilità:in commercio

 

Fino alla provvidenziale ristampa proposta dalla Bad Reputation l’anno passato, per entrare in possesso dell’unico album dei Deadringer ci si doveva svenare: le quotazioni arrivavano ai 200 dollari per i vinili ancora incellofanati, e il giro d’affari era talmente ghiotto da spingere i falsari a replicare il CD (ovviamente il tarocco – di provenienza russa – porta l’etichetta originale, quella della indie Grudge). Per inciso, è strano che ‘Electrocution Of The Heart’ sia diventato così raro, dato che, pur essendo una indipendente, la Grudge aveva i suoi mezzi e ha pubblicato tanti dischi di interpreti più o meno prestigiosi (fra gli altri, contiamo Little Richard, Crack The Sky, Godz, Frank Marino, Brian Auger, American Angel) che rari non lo sono mai stati. Il fatto poi che ci sia gente disposta a sborsare cifre – come si dice pudicamente oggi – “importanti” per qualcosa che si può ottenere nella sua essenza con la massima facilità e senza pagare un soldo visitando uno dei tanti siti consacrati al downloading illegale dice cose interessanti (ma anche un pelo inquietanti, se vogliamo) sulla natura umana.

Ma chi erano i Deadringer? A leggere i nomi della line up e gli autori delle canzoni che compongono ‘Electrocution Of The Heart’, appaiono una sorta di succursale dei Blue Oyster Cult: alle tastiere figurava Joe Bouchard, e tra i songwriter c’erano (oltre a Joe) suo fratello Albert e Donald “Buck Dharma” Roeser. E il resto della band non era certo formato da giovanottelli appena arrivati dal paese con la chitarra sotto il braccio: al microfono troviamo Charlie Huhn (Ted Nugent, Humble Pie, Foghat, Gary Moore, Victory), Jay Jesse Johnson (Arc Angel, Cannata, Rossington Band) alle chitarre, Neal Smith alla batteria e Dennis Dunaway al basso (la sezione ritmica della band di Alice Cooper). Tutta gente navigata, insomma, che tentava la sorte con il rock melodico nel momento storico che vedeva il genere al top del gradimento negli USA, facendosi produrre da un altro veterano, John Stronach (già al lavoro con Joe Walsh, Keith Moon, REO Speedwagon, Roadmaster). Il risultato?

L’album non comincia bene: anzi, diciamo pure che comincia malissimo con “Everybody Rock”, melodic metal tra l’anthemico e l’epicheggiante che riassume in peggio Malice, Dio e Y&T, e già in quel 1989 che vide l’uscita di ‘Electrocution…’ non poteva che suonare banale, sorpassato e stantio. Facciamo (per quanto è possibile) finta di niente e passiamo a “When You’re In You’re In”, track senza infamia e senza lode che fa pensare a dei Twisted Sister in una versione più commerciale e patinata, e comincia a suscitare dubbi sinistri nell’ascoltatore, che (legittimamente) si chiede: questo non doveva essere un disco di rock melodico? E allora, il rock melodico dov’è? Arriva – infine – con “Love’s a Killer”, power ballad dalla bella melodia che procede fra chitarre acustiche e tastiere che si fanno via via più presenti, salendo al proscenio nel finale con toni quasi pomp. Se “Secret Eyes” è un riuscito innesto Journey / Survivor, “Balls Out” ci porta dalle parti degli Autograph, ruvida, divertente, con un refrain da un milione di dollari. “Summa Cum Loud” (che i Blue Oyster Cult eseguiranno più volte dal vivo) è un classico metal californiano, melodico al punto giusto, un po’ Ratt, un po’ Keel, e su quella falsariga si muove “Double Talk”, con il plus di un trascinante ritmo boogie. “Dangerous Love” è un’altra pregevole power ballad, drammatica e potente, mentre “Bring on the Night” ci serve una melodia molto Journey su un tessuto di solido hard rock punteggiato di keys. Chiude l’album “Unsung Heroes”, arena rock dallo spettacolare impasto chitarre / tastiere, condizionato però da un mixaggio incoerente che ne smorza la carica. Non per caso, proprio di questa canzone viene offerto nella ristampa un nuovo mix che corregge il difetto principale della versione già edita (la voce troppo avanti nello spazio sonoro) però guasta la qualità audio, dato che il suono risulta qui un po’ impastato.

Escludendo quel mezzo obbrobrio in apertura (quale demone abbia spinto la band a scriverla, inciderla e piazzarla addirittura al primo posto in scaletta non è dato sapere: forse è solo un caso – tutt’altro che infrequente – di black out dello shit detector), ‘Electrocution Of The Heart’ è dunque un album di buona caratura. Una produzione più brillante e multilayered l’avrebbe senza dubbio incrementata, ma la Grudge non era label che potesse permettersi di mandare una band in studio a registrare per sei mesi o piazzare dietro il banco del mixer a dirigerla gente come Bruce Fairbairn o Mike Stone. Un sentito ringraziamento, allora, alla label francese per aver cavato l’unico prodotto a nome Deadriger dall’ambito del collezionismo duro e puro.