AORARCHIVIA

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SAVATAGE

 

 

  • STREETS (1991)

  • EDGE OF THORNS (1993)

 

Etichetta:Atlantic

Reperibilità:in commercio

 

L'Heavy Metal, si sa, vive di eroi. Chi sceglie l'HM puro e duro deve passare attraverso l'esame implacabile di fans esigenti e intolleranti ad ogni album. I Savatage stavano per essere cancellati dal pantheon metallico dopo il loro tentativo di svolta Class con 'Fight for the rock', ma la pronta riconversione al più solido e massiccio HM classico - pur con le inevitabili concessioni al tipico sound metal d'oltreoceano - riuscì ad aprirgli di nuovo il cuore dei fans. Con l'arrivo dei '90, e il metal classico sempre più vicino al capolinea creativo, i Savatage si trovarono di fronte all'esigenza di fare comunque qualcosa di nuovo. Cambiare, aggiornarsi o sparire poco a poco. Mancandogli quel ruolo istituzionale riconosciuto ai Maiden, il seguito fanatico dei Metallica, o il credito intellettuale che la stampa dava ai Queensryche, per i Savatage poteva essere tutto facile o difficilissimo. Scelsero di rimanere fedeli al genere, ma di rifarlo a modo proprio e, forse addirittura senza rendersene conto, aprirono potenzialmente una strada nuova.

'Gutter ballet' fu una specie di prova generale, diviso com'era tra le novità che emergevano sulla prima facciata ed il solito Heavy rauco e massiccio che dominava la seconda (parliamo del disco di vinile, of course). Con 'Streets' , la conversione - chiamiamola così - è praticamente completa.

Ma in cosa consiste questa novità ? Anzitutto, in un uso mai così completo delle tastiere, nella ricerca di una solennità quasi pomp, di un enfasi drammatica e teatrale infinitamente più raffinata del classico andamento epico da marcia vichinga di tanta produzione marcata Manowar o Maiden. E poi, nel recupero di quel touch of class che - aborrito dopo l'esperimento di 'Fight...' - dona al complesso una pulizia melodica ed una ricercatezza che, nella tradizione del miglior Class Metal, non sminuisce la potenza dell'impatto, ma piuttosto l'amplifica in tutto il suo splendore metallico.

All'epoca dell'uscita, nessuno osò appiccicare a quelli che per i fan erano ancora autentiche divinità del metallo l'obbrobrioso termine 'Class': eppure, il crossover che fuoriesce da 'Streets' è imparentato più con l'heavy melodico e cromato che nella seconda metà degli anni '80 dettava legge negli states grazie a Ratt, Dokken e Firehouse, che con il classico HM sound di stampo epico. La differenza capitale sta nell'atmosfera e, naturalmente, nel cantato al vetriolo di Jon Oliva, rauco e stridente fino all'inverosimile ma espressivo ed energico. Il tutto era rilegato con una produzione sapiente, in cui spiccava la cura per i suoni della chitarra di Criss Oliva buonanima, suoni che in certi frangenti diventavano addirittura spettacolari, con breaks pompatissimi, e assoli brevi e deraglianti che si incuneavano fra innumerevoli sovrincisioni.

Più che soffermarsi sulle singole canzoni, qui conta sotto­lineare l'atmosfera generale ma ci piacciono particolarmente la Vanhaleggiante "Sammy and Tex", il class cupo di "Ghost in the ruins", la Ratt-inspired "Strange reality". Dunque, promossi a pieni voti, con una sola, grossa tirata d'orecchi. I Savatage proclamano, infatti, di aver scritto una 'rock opera'. In una siffatta realizzazione, dovremmo trovare una storia raccontata attraverso le canzoni o, attraverso queste, perfettamente ricostruibile: l'esempio perfetto sono i Queensryche di 'Operation Mindcrime'. In 'Streets', invece, l'unico modo per seguire la storia è leggersela sul booklet del CD, due pagine scritte fitte fitte: le canzoni non raccontano nulla o quasi, ma sottolineano o commentano le varie fasi della storia. Dunque, non di 'rock opera' si tratta, ma piuttosto di un concept album, e neanche tanto riuscito, dato che, spesso e volentieri, anche con l'aiuto dei sottotitoli - diciamo così... -  non si riesce a collocare la canzone in un punto preciso dell'azione. Poco male, perché i testi sono comunque godibili, indipendentemente dalla storia che pretenderebbero di narrare.

Con l'album successivo, 'Edge of thorns', il cammino verso lidi sempre più marcatamente melodici pare proseguire senza sbandamenti, grazie anche al cambio di singer: va in panchina il fin troppo rugginoso Jon Oliva ed entra il giovane Zachary Stevens, un bel vocione ancora un po' grezzo, ma infinitamente più gradevole dei gorgheggi alla carta vetrata di Jon, che si limiterà a suonare le tastiere e con i Doctor Butcher troverà una dimensione molto più adatta alla propria, abrasiva vocalità. Tra le solite pieces fra l'epico ed il teatrale, ballad pianistiche, due strumentali classicheggianti ( "Exit Music" è un solo piano di J.Oliva !), piacciono sopratutto la riffeggiante "Skraggy's Tomb", il bellissimo mid-tempo melodico "Conversation Piece" e la quasi thrash "Degrees of Sanity".

Con i dischi successivi i Savatage rinnegarono parzialmente i loro teoremi melodici, sposando la rinnovata aggressività che il genere sembrava richiedere per gli anni '90, firmando comunque dischi più che buoni, ma lontani dalle aperture al Class che avevano fatto scintillare questi due album.

Insomma: Heavy + Class. Si poteva fare, ed i Savatage lo hanno dimostrato. Ai posteri...

 

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JOURNEY

 

 

  • TRIAL BY FIRE (1996)

Etichetta:Columbia/Sony

Reperibilità:in commercio

 

É troppo semplice liquidare questo disco scrivendo cose tipo "ci siamo giocati anche i Journey". Una cosa è rinnegare un genere (un genere che - in questo caso - è stato addirittura creato dalla band in questione), un'altra è venire fuori dopo dieci anni con un disco che è brutto e basta.

E va bene: i ragazzi non sono più tali, gli anni passano, i capelli diventano grigi (o spariscono del tutto, come è successo a Steve Smith, che oggi sembra il sosia di Tony Levin), la voglia di rockare e rollare svanisce, ma i Journey erano sopratutto grandi ballad fra pop e rock duro, songwriters eccelsi ed illuminati. Non aspettatevi miracoli ed illuminazioni da questo disco. C'è una produzione stellare, suoni favolosi e poco altro.

Cominciamo dal fondo: Steve Perry. Una volta era la voce più intonata d'America, l'uomo dagli acuti violinacei su un timbro pastoso. Oggi è rimasto solo il timbro, ma con i polmoni scarichi il povero Steve deve limitarsi più che altro a sussurrare, e il risultato finale è sinistramente somigliante al nostro Fred Bongusto (giuro!). Ecco il perché di tante ballatone tutte archi & piano, che spesso scivolano tristemente verso cose da puro piano bar. Nei pochissimi pezzi più tosti, Steve arranca sul confine del colpo di tosse, manca di espressività, la sua voce tutto miele si fa legnosa e rigida. E va bene: almeno ci rimangono le ballad, penserà qualcuno...

Io non sono contrario per principio alla musica pop, mi basta che sia buona. Avrei accettato anche un disco di puro pop, purché le canzoni fossero buone. Ma in questo disco mancano proprio le canzoni. Non c'è una sola melodia che si ricordi al primo ascolto: un ritornello o un passaggio, una strofa, qualcosa. É il songwriting che manca su 'Trial by Fire'. Fate il confronto con i dischi di Anngun o Shania Twain, giusto per citare due eccellenti produzioni pop. Ma, naturalmente, quelli che hanno comprato questo disco il pop non lo volevano. Volevano i Journey di 'Escape' e 'Frontiers', quella band che aveva saputo camminare in miracoloso equilibrio sulla linea che divide il pop-rock dall'hard, tracciando un confine ideale come non era riuscito a Boston, Toto e Foreigner, e ballandoci allegramente proprio sopra. E cosa hanno avuto? La caricatura di "Open Arms" con "When you love a woman"...

Quasi non vale la pena di soffermarsi su ogni singola canzone, ma, come diceva Nanni Moretti, facciamoci del male...

Le prime due canzoni, "Message of love" (che ricalca smaccatamente il refrain di "Separate ways") e "One more", sono anche i pezzi più tosti, come di regola, ma anonimi e poco incisivi, grazie anche al cantato, di cui abbiamo già detto a sufficienza. C'è in compenso un grandissimo guitar work, che però appare curiosamente slegato dal contesto delle canzoni, quasi come se Neal Schon avesse registrato le sue parti alla fine, dopo che tutto il resto della band aveva già inciso: è qualcosa che si ripete lungo tutto l'arco dell'album, la band da una parte e Neal Schon dall'altra, parti di chitarra magnifiche che diventano l'unico, reale motivo d'interesse dei brani, al punto che finisci per ascoltare le canzoni aspettando solo il momento in cui entra la chitarra e Neal Schon - almeno lui - non tradisce davvero mai. Seguono tre ballad sonnolente, fra cui la già citata "When you love a woman" (che non ha niente a che fare col pop né col rock, adulto o meno, ma sembra estratta dal repertorio di Dean Martin o Perry Como: immagino che Steve Perry, per cantarla come si deve, abbia prima indossato uno smoking...) e  una "Feel like blue" che più pop non si può. Se dopo questo tedioso quarto d'ora siete ancora svegli - ma ne dubito - ecco arrivare il brano più duro, "Castle burning", che può ricordare certe cose dell'ultimo Bad English, ma anche questo non convince, da un lato per l'atmosfera cupa, dall'altro perché è troppo lungo, con una parte finale francamente tediosa. Altre due ballad - non mi ci soffermo perché tanto sono tutte uguali - poi c'è 'Color of the spirit', che vorrebbe essere un anthem, ma si rattrappisce su un coro tronfio ed un po' fesso.   Ancora due ballad, e fra queste "Easy to fall" risulta la più movimentata, la più rock del disco, con una bella parte centrale di keys e chitarre, poi irrompe "Can't tame the lion", per la quale Neal si inventa un riff pulsante, quasi psichedelico, sembra dover succedere chissà che e invece non succede niente, la canzone si sgonfia nel coro come un pallone bucato. Un'altra ballad e poi la title track a chiudere, buona, piena d'atmosfera, ma sono i Journey, questi, oppure Sting? Il fondo, però, è il brano nascosto: tre minuti scarsi di pseudo reggae che traducono alla perfezione il concetto che la band ha oggi del divertimento più selvaggio, roba che fa sembrare la vecchia "Lay it down" un outake dell'ultimo Metallica...

C'era chi aspettava questo disco con trepidazione, ritenendolo l'unica chance per l'AOR di riproporsi al grande pubblico, l'ultima occasione per cercare di tornare in sella alle classifiche di Billboard, un nuovo 'Escape' capace, come accadde nell' '81, di generare un tornado di proporzioni epiche. I venticelli che spirano da 'Trial by fire' non riuscirebbero a smuovere neppure una foglia secca: questo disco non sarà mai l'occhio di un ciclone, piuttosto potrebbe diventare una lapide, su cui incideranno: "Qui giace l'AOR, riposi in pace". E non c'è proprio niente da ridere.

Se riascolterò questo disco sarà solo per godermi la produzione (veramente straordinaria per la qualità dei suoni e la pulizia) e la chitarra di Neal Schon. Non c'è nient'altro. Amen.

 

 

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THE STORM

 

 

  • EYE OF THE STORM (1995)

Etichetta:Music For Nations

Reperibilità:scarsa

 

Siamo vecchi, e ci piace. Vecchi con i nostro pantaloni di pelle nera, gli stivali da cowboy con la punta di metallo, le camicie  di seta, gli spolverini svolazzanti, le lunghe criniere tinte di biondo. Siamo chic-rockers, e siamo vecchi, ma chi se ne frega ? Finché avremo dischi come questo a farci sognare, finché ci saranno in giro musicisti completamente pazzi come questi cinque signori, alcuni dei quali si trovano ben oltre la quarantina e quindi - almeno per il rock - sono vecchi davvero, nient' altro avrà importanza. Pazzi, si, proprio pazzi. Bisogna esserlo per venire fuori con un album del genere nel 1995: AOR all'ennesima potenza, nel più puro stile degli ultimi anni '80. Melodie gigan­tesche, tastiere che dipingono sfondi immensi e chitarre che san­no accarezzare languidamente o spaccare le ossa; un'atmosfera fe­stante, gioiosa, dove anche le canzoni per i brokenhearted vengo­no risolte con virile dignità senza lasciar colare ettolitri di miele. AOR, insomma, nel pieno significato di quest'acronimo così disprezzato: adult oriented rock, niente roba per bambocci neo-depressi che recitano tre volte al giorno il requiem a Kurt Cobain o pseudo punk brufolosi ancora stupefatti dalla scoperta che vent'anni fa cinque inglesi che si facevano chiamare Sex Pistols avevano già scritto tutte le canzoni dei Green Day...

 

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BLUE MURDER

 

 

  • BLUE MURDER (1989)

  • NOTHIN' BUT TROUBLE (1993)

 

Etichetta:Geffen

Reperibilità:"Blue Murder" buona

                    "Nothin'..." scarsa

 

Fino a quando gli Whitesnake non fecero il botto in USA con '1987', John Sykes era solo uno dei tanti chitarristi Heavy Metal venuti a galla nella Perfida Albione durante il maremoto della NWOBHM. Nè con i Tygers Of Pan Tang, né con i Thin Lizzy, Sykes era riuscito a farsi conoscere ed apprezzare in america. Poi, l'ingresso nella band di David Coverdale, il lavoro di remixaggio su 'Slide it in', arricchito dei suoi assoli al fulmicotone, e la composizione del masterpiece '1987' assieme all'ex cantante dei Deep Purple, garantirono a John Sykes quella notorietà e - sopratutto - quel credito presso i discografici che le esperienze precedenti non erano state in grado di offrirgli. Dopo la burrascosa uscita dalla band all'indomani della pubblicazione del disco, Sykes rimase fermo un anno buono, ripresentandosi al pubblico nell'89 con un trio a nome Blue Murder del quale era il cantante oltre che il chitarrista. In un primo momento, Sykes si era rivolto a Ray Gillen per le parti vocali, ma la ferma opposizione dell'allora manager della Geffen J. Kalodner a questa soluzione, lo costrinsero ad interrompere la collaborazione con il futuro cantante dei Badlands e ad occupare anche il ruolo di vocalist, per altro con ottimi risultati. La sezione ritmica era formata da Tony Franklin, già visto in azione nei Firm, e il veterano Carmine Appice. Le tastiere, presenti in maniera significativa nel sound della band, erano affidate a Nik Green, che entrerà ufficialmente nella line up solo col secondo platter.

L'album, pur partorito da una mente britannica, era assolutamente americano nel suono e negli arrangiamenti, oscillando tra class metal e robusto hard rock melodico, ed appariva la logica prosecuzione del discorso che Sykes aveva intrapreso con gli Whitesnake, esplicite a questo proposito "Sex Child" e "Black Hearted Woman" (anche nei testi...). La carica Zeppeliniana esplode fragorosa in "Valley Of The King", con il suo riffone alla "Kashmir", e la funkeggiante "Riot", mentre due tostissime bordate metalliche sono "Blue Murder" e "Ptolemy". La frenetica "Billy" è class metal di caratura eccezionale, "Jelly Roll" una splendida ballad divisa nettamente tra una prima parte scandita da chitarre acustiche quasi country ed un finale molto bonjoviano, mentre "Out Of Love" è una tipica power ballad in linea con quanto era già stato presentato in precedenza da band come Dokken e Winger. Nonostante la produzione di Bob Rock ed il mixaggio di Mike Fraser, due luminari che avrebbero potuto garantire al disco una resa sonora a ventiquattro carati, è proprio il sound l'unico, relativo punto debole del platter: leggermente opaco e con una prevalenza quasi irritante del fretless bass di Tony Franklin al centro dell'immagine stereo. Si ha quasi l'impressione che Mike Fraser non sia riuscito a trovare il bandolo della matassa: come inserire questo strumento insolito per una produzione hard rock nel mosaico sonoro della band. Il fatto poi che il mastering sia stato affidato a tre tecnici diversi, uno per ogni supporto ( LP, CD, cassetta), rafforza l'impressione che il rendimento della fonte originale non sia stato considerato fin da principio soddisfacente.

Per riascoltare la band dobbiamo attendere la bellezza di quattro anni: solo nel 1993 la Geffen pubblica 'Nothin' but trouble', che è il risultato di più session di registrazione e vede il solo Mike Fraser come ingegnere e mixer, mentre John Sykes si incarica della produzione. La sezione ritmica è ora composta da Tommy O'Steen e Marco Mendoza, ma pare che sulla maggior parte dei brani basso e batteria sono incisi dalla coppia Franklin/Appice. 

La vera novità è l'ingresso nella band di Kelly Keeling. L'ex-singer dei grandi Baton Rouge era stato contattato da John Sykes e Kalodner per occupare il ruolo di vocalist, in cui John evidentemente non si sentiva ancora del tutto a proprio agio. Kelly lavorò per più di due anni assieme a John Kalodner e Sykes sulla produzione delle parti cantate per il nuovo disco, ma John Sykes, non trovando le linee vocali e le melodie di Kelly di proprio gradimento, decise di riprendersi il ruolo di singer, emarginando progressivamente il nuovo acquisto fino a lasciare alla sua formidabile ugola la sola "I'm on fire". A quel punto, di fronte alla prospettiva di andare in tour a fare semplicemente il chitarrista ritmico ed il corista, Kelly Keeling decise di lasciare la band: quello che era successo in precedenza con Ray Gillen forse avrebbe dovuto  metterlo sull'avviso...

Il brano di apertura, "We all fall down", è puro heavy metal, sicuramente fuorviante considerata la natura del resto del materiale presentato. A seguire, una cover, "Itchycoo Park" dei Mott The Hoople, anche questa curiosa e fuori posto con il suo flavour così britannico, poi si aprono - finalmente... - le danze, e arriva "Cry for love" , sofisticato e bellissimo class metal, subito doppiato da "Runaway". Il suono stavolta è perfetto, curato e senza sbavature, segno che Fraser stavolta è riuscito a prendere le misure alla band. Con "Dance" si spara un boogie che farebbe impazzire gli ZZ Top, poi la già citata "I'm on fire", un funk selvaggio e minaccioso a cui segue una ballad poco ispirata, "Save My Love", molto Whitesnake oriented. "Love Child" è piena di suggestioni Aerosmithiane, grazie all'uso di una scatenata sezione fiati, innestate su un robusto telaio metallico, "Shouldn't Have Let You Go" è sinuosa, elaborata, suggestiva, elegante: forse il miglior pezzo dell'album. Con la drammatica power ballad "I Need An Angel" si torna a seguire la pista del serpente bianco, mentre la conclusiva "She Knows" è una delicata melodia tutta archi e clavicembalo piena di risonanze beatelsiane. Da segnalare una presenza ancora più massiccia delle tastiere, e l'insolita posizione degli assoli di chitarra, che spesso Sykes piazza quasi all'inizio dei brani. Globalmente, questo disco si rivela un pizzico meno aggressivo del suo predecessore, ma molto più elaborato nel songwriting e, come già detto, decisamente superiore per la qualità del suono. John Sykes e Kelly Keeling hanno timbri e stili abbastanza diversi da rendere (fortunatamente) improponibile qualsiasi confronto tra le loro voci: personalmente, da grande fan di Kelly, avrei avuto piacere a sentire tutto il disco cantato dalla sua magnifica voce.

L'unica cosa certa è che quest'album uscì troppo tardi, in piena bagarre grunge. Pubblicato forse solo per rientrare in parte nelle spese di registrazione, quando 'Nothin' but trouble' fece la sua comparsa negli scaffali dei negozi, i Blue Murder praticamente già non esistevano più.

 

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TEN

 

 

  • TEN (1996)

  • THE NAME OF THE ROSE (1997)

  • THE ROBE (1998)

  • SPELLBOUND (1999)

  • BABYLON (2000)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Ecco una band che sembra fatta apposta per distruggere reputazioni consolidate e prendere a calci in culo gli esperti di turno. Quelli che dicevano che all'alba del 2000 l'AOR e l'hard melodico erano cadaveri in avanzato stato di decomposizione. Quelli che sostenevano che senza l'apporto tecnico (e finanziario) di una major nessuna band di class rock poteva realizzare un prodotto decente. Quelli che ricordavano come dietro tutti i dischi migliori ci fossero giusto una dozzina di songwriters, e senza il loro apporto creativo erano tutti ricalchi e repliche. Quelli come me, insomma. Ma che piacere ricevere calci come quelli che i Ten hanno rifilato...

Si cominciava nel peggiore dei modi: l'etichetta era la Now&Then. Mark Ashton è un uomo pieno di fede e buona volontà, ma ha notoriamente mezzi molto scarsi, e nei lavori della sua casa discografica la musica è generalmente ricoperta da fruscii che fanno tanto analogico e massacrata da produzioni inesistenti. Poi c'erano i ragazzi della band, tutti sconosciuti tranne Vinnie Burns, chitarrista di quell'ottimo ensamble che erano i Dare, dove però le canzoni le scriveva Darren Warthon, e Gary Hughes, con due dischi alle spalle di AOR bluseggiante, il primo uscito per la Mercury  norvegese nel '90 e praticamente irreperibile, il secondo per la Now&Then, più class ma con i soliti vizi delle produzioni di Ashton che abbiamo già detto.

Ma poi...

Guardi il nome del produttore e rimani con tanto d'occhi: Mike Stone! Se l'uomo che ha inventato il suono dei Journey è coinvolto in questa cosa, deve esserci del buono per forza.

La qualità del suono di 'Ten', difatti, è degna di una major. Il songwriting è un mosaico di felici intuizioni e dosi massicce di citazioni così scoperte da lasciare magari un po' sconcertati, ma il tutto viene servito con una tale grazia che la flagranza dei furti non infastidisce per nulla. Gary Hughes non ha certo polmoni da vendere, ma Mike Stone è abilissimo ad incastonare la sua voce fragile tra le tostissime chitarre di Vinnie Burns ed i tappeti di tastiere.

Fare solo qualche titolo sarebbe un insulto ad un disco che è globalmente un capolavoro, ma è impossibile non citare almeno "After the love has gone", ovvero la canzone che i Bad English non hanno fatto in tempo a scrivere: uno dei più travolgenti, sublimi attimi di hard-AOR che mai abbia solleticato le mie orecchie (e che nasce da una costola della “Innocent Days” dei campioni Giant innestata sul telaio della "Separate ways" dei Journey). La dimostrazione ultima che ciò che fa grande una band è la sua capacità di scrivere canzoni, non creare minestroni e pastrocchi di generi vari messi assieme senza costrutto né cucire puzzle di performances strumentali appiccicate l'una all'altra fino a raggiungere una durata sui dieci minuti a pezzo (chi ha nominato i Dream Theatre?...).

  E se qualche dubbio circa l'effettiva tenuta della band su terreni più metallici poteva esserci a causa della voce non potentissima del cantante, col secondo capitolo, 'The Name Of The Rose', anche queste incertezze (tutto sommato, legittime), si sgretolano di fronte a bordate di puro hard rock come la title track, "Goodnight Saigon" o la sensuale e furibonda "You're my religion", vette acuminate che spiccano fra ballad e semi-ballad da infarto, con una "The Quest" che dimostra come si possa cantare di castelli, dame e cavalieri senza cadere nell'abominevole romanticismo muffito di tanto prog medievaleggiante.

Il terzo album, 'The Robe', pur seguendo la scia dei due dischi che lo hanno preceduto, tende vagamente ad atmosfere tra l'epico ed il pomp che ricordano tantissimo i Magnum ed i lavori fine anni '80 di Gary Moore. Questa nuova vena esplode fortissima sopratutto nella title track e nell'atmosfera guerriera di "Bright on the blade", chetandosi considerevolmente nelle successive "Standing on the edge of time" e "Virtual reality", begli hard melodici ad ampio respiro e forte caratterizzazione USA. Un capitolo a parte è la bellissima "Arcadia", dove si uniscono Pomp alla Magnum, AOR ed una vaga sinuosità zeppeliniana che danno alla canzone un' affascinante, solare solennità. Tra gli altri pezzi - tutti, comunque, ottimi -, val la pena di ricordare "Ten fathoms deep", assolutamente british sia nel testo che nella musica, costruita sul riff della "Last in line" di R.J.Dio.

'The Robe' venne poi stampato in abbinamento ad una 'Bonus Collection' che comprende quattro pezzi in versione acustica (di cui due live) e sette canzoni pubblicate solo nei singoli per l'insaziabile mercato giapponese. Generalmente le raccolte di B-side non fanno che male alla reputazione di una band, ma nel caso dei Ten, era lecito aspettarsi come minimo del materiale dignitoso, e le attese non vengono tradite. Apre le danze "Warpath", una buona track di soft-AOR, poi segue la canzone migliore del lotto, "Venus and Mars", che aggiorna temi tipici dell'AOR dei primi anni '80 - l'inconfondibile andamento della tastiera solista, quasi danzabile - con la freschezza melodica del tramonto dei Big Eighties. Le altre canzoni mostrano il lato più derivativo - ma non per questo sgradevole, tutt’altro - della band, muovendosi tra il pop metal alla Cheap Trick ( “If only for a day” ), variazioni Bonjoviane ( “Give me a piece of your heart”, che però ha il coro spudoratamente rubato nota per nota alla "Vampire Kiss" dei Baton Rouge), AOR condito di melodie alla Beatles ( “To die for”, con un bel riff zeppeliniano e “Rainbow in the dark”), una “Black moon rising” che sul riff della “Lagrange” degli ZZ Top riesce ad imbastire una melodia addirittura epica e “Xanadu”, piacevolmente westcoast.

Con 'Spellbound' pare che i Ten vogliano partire definitivamente in quelle direzioni eroiche che avevano a suo tempo fatto la (s)fortuna dei compianti Magnum. Ma la tensione verso il class sembra troppo forte per Gary Hughes, che appiccica testi fantasy o celtici a musica non troppo pertinente all'argomento: vedasi la scatenata "The Alchemist", dove si parla di un mago buono, che protegge la gente dal male, eccetera eccetera, ma il ritmo è puro party metal - anche se il refrain ricorda a tratti quello della "Neon Knights" di Sabbatthiana memoria - e stride fin quasi al comico con il testo. Decisamente riuscita, invece, "Inside the pyramid of light", sensualissima trasfigurazione della storia di Antonio e Cleopatra dominata da un andamento a-là Page (per citare il nostrano  profeta dell'AOR Beppe Riva). Nessuna meraviglia che ai cori di "We rule the night" partecipi anche Bob Catley, dato che questa è la canzone più magnumizzata dell'album. "Red" è quasi un omaggio (chiamiamolo così, invece di usare il più corretto termine di "appropriazione indebita"...) al Gary Moore più celtico (quello di "Over The hills and far away" e "Blood of emerald"), ma la storia è di ambientazione scozzese anziché irlandese ed il clima pende più verso l'epico, mancando di quella solennità da marcia di guerra caratteristica del periodo pro-IRA di Moore. La title-track, "Wanderland" ed "Eclipse" sono decisamente più melodiche e la conclusiva "Till the end of time" è una ballad graziosa e nulla più. Piuttosto, c'è qui un deciso scivolone nella qualità audio, che in alcuni frangenti diventa veramente modesta.

La band saluta il nuovo millennio con un inatteso abbandono di quelle tematiche leggendario/favolistiche che parevano doverne costituire la nuova dimensione ed un ritorno - gradito - a sonorità più class (e ad una resa fonica del prodotto finale di nuovo di ottimo livello). 'Babylon' è un concept album dalla storia non troppo originale, di ambientazione che potremmo definire soft-cyberpunk. Per fortuna, i riferimenti alla trama - similmente a quanto avvenne con i Savatage di 'Streets' - sono scarsi nei testi delle canzoni, che si possono ascoltare tranquillamente ignorando la storia ed i brevi stacchi che sovente tra un brano e l'altro provano (senza molto successo) a creare un senso di continuità con voci, rumori d'ambiente ed altre amenità. E le canzoni, al solito, sono magnifiche. Poco importa che il riff di "Timeless" sia rubato pari pari alla "Ariel" dell'ultimo disco dei Rainbow, i Ten riescono a farlo proprio senza suscitare scandalo, mentre l'heavy metal Purpleliano e furibondo di "Thunder in Heaven" resta un episodio isolato, quasi una necessita scenica dettata dalla trama della vicenda che vuole un attimo di rabbia prima che il protagonista della storia compia la sua vendetta. Qui, i Ten si riagganciano ai loro primi numi ispiratori: Bad English, House Of Lords, Giant, all'AOR solido e muscolare, sposandolo ad un'inconfondibile flavour britannico mutuato dalle grandi bands di albione, Deep Purple, Led Zeppelin e Whitesnake in testa. Rispetto al passato, c'è solo una maggior concisione, il solismo di Vinnie Burns è meno scatenato e più "incollato" alle canzoni. E "The Stanger", primo tassello di questo nuovo mosaico, è la conferma dell'identità ormai solida della band, hard melodico come solo i Ten sanno e possono scriverlo. "Barricade", nella sua bella alternanza chitarra/hammond si risolve quasi in un anthem, "Give in this time" è una power ballad (molto power) di splendido effetto, "Love become the law" un class metal lento, di grande drammaticità. Se "The heat" pare raccogliere l'eredità dei Queensryche più melodici, quelli dell'epoca di 'Empire', "Silent Rain" e "Timeless" (fatta per metà con la "Wild world" di Cat Stevens, canzone familiare a chi bazzica il nostro genere perché coverizzata anche dai Mr. Big su 'Bump ahead') sono di nuovo puro Ten-style, ricche d'enfasi ma mai magniloquenti o pompose, fedeli fino in fondo alla vena melodica della band. E a concludere, una ballad che per intensità e lirismo si può tranquillamente considerare il capolavoro assoluto che la band sia riuscita fino ad oggi a regalarci, ed è impostata su un riarrangamento dei temi melodici che Nino Rota scrisse per la colonna sonora del film 'Il Padrino': "Valentine" è puro AOR senza romanticismi zuccherosi, un inno drammatico e disperato all'amore perduto, privo di piagnistei e banalità, pervaso dalla forza senza consolazione di un dolore cupo e virile, qualcosa a cui erano riusciti ad avvicinarsi solo il Gary Moore di "Empty Rooms" ed i Great White di "House of broken love".

 

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SIGNAL

 

  • LOUD & CLEAR (1990)

Etichetta:EMI - ristampa AXEKILLER Reperibilità:in commercio

 

Difficile parlare di una leggenda. E questo disco è stato una leggenda per quasi dieci anni, un nome sussurrato con devozione e desiderio da tutti gli AOR-maniacs che avrebbero venduto madri e sorelle per procurarselo. La EMI americana ne pubblicò solo una manciata di copie prima di licenziare la band, fregandosene delle recensioni entusiastiche che fioccavano sui giornali di mezzo mondo. E nacque il mito dei Signal, un mito alimentato anche dall'eccellenza dei nomi coinvolti nel progetto: perché se la band, tranne per Mark Free, fresco reduce dai fasti dei King Kobra, era formata da semisconosciuti, il team che la seguiva era stellare o quasi. Produttore: Kevin Elson. Ingegnere del suono: Tom Size. Songwriters: Mark Baker, Bob Halligan jr, John Bettis, Van Stephenson, David Roberts...

Nel 1999, la francese Axekiller ristampò infine il disco (tralasciando qualche rara ristampa giapponese spuntata fuori a prezzo folle a metà degli anni '90), e finalmente questo misconosciuto capolavoro dell'AOR divenne reperibile per il grande pubblico.

Ma era davvero un capolavoro? Dopo dieci anni passati a rimuginarci sopra, a chiedersi quali tesori fossero racchiusi in questo scrigno, era possibile cadere nell'errore di pretendere troppo, e rimanere delusi da un disco che poteva magari rivelarsi di AOR competente ma ordinario. Invece, si può affermare senza tema di smentite che 'Loud & Clear' è un autentico capolavoro, assolutamente competente e nient'affatto ordinario o scontato. Dall'anthem ("Run into the night", "Does it feel like love") alla ballad ("Could this be love") , dallo slow ("This love, this time") all'athmospheric power ("Wake up you little fool", "Go"), ogni scheggia della costellazione del rock adulto viene interpretata dalla band in maniera personale, e non c'è un solo punto debole, un minimo segno di cedimento, di concessione al "già sentito". Il ruggito elegante di "You won't see me cry" e "Liar" è hard rock melodico come solo i grandissimi sanno e possono eseguirlo. E che dire di "My mistake", col suo andamento sinuosamente funky, il top dell'aggressività sofisticata che permea tutto l'album, col suo ritornello cantato a due voci da Mark Free e dall'ospite d'eccezione Eric Martin?

L'autentica meraviglia è che la EMI, dopo aver speso solo Dio sa quanto per incidere questo disco (produttore, songwriters, e studi di registrazione si pagano, ovviamente, in anticipo), l'abbia praticamente ritirato dal mercato dopo averne pubblicato solo una manciata di copie, e questo nel momento in cui l'AOR viveva il suo periodo di massima popolarità sul mercato nordamericano e giapponese: un'estrema dimostrazione dell'incoerenza con cui le major USA hanno sempre trattato il fenomeno del rock melodico, arrivando a cancellarlo dai loro cataloghi senza misericordia quando si affacciò all'orizzonte il fenomeno grunge, pilotato poi senza pudore e eliminato a sua volta per far spazio al nuovo punk di Green Day e compagnia brutta.

 

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WHITESNAKE

 

 

  • RESTLESS HEART (1997)

Etichetta:EMI Reperibilità:in commercio

 

David, non dovevi farci questo. Meglio lasciarci con il superbo 'Slip of the tongue' e sparire nella nebbia. Dire che 'Restless Heart' è un brutto disco è dire tutto e niente. È, prima e più di ogni altra cosa, un album dal songwriting scadente, dodici pezzi che procurano sbadigli - nel migliore dei casi - sconcerto - a voler essere buoni a tutti i costi - o crampi allo stomaco. I blues in minore sono tutti incredibilmente noiosi, mollicci, e il cantato è piatto e privo di feeling, tirato via, buona la prima e andiamocene tutti a casa.I pezzi più svelti, quelli che si ricollegano con maggior veemenza alla tradizione dei primi album, da 'Ready an’ willing'  a 'Slide it in' mancano completamente di energia e mordente, un compitino svolto alla meglio autocitandosi senza riuscire ad architettare una melodia o un riff appena decenti. Il periodo zeppeliniano degli ultimi anni ‘80 e dei primi ‘90, quello che comincia con 1987 e termina con il disco assieme a Jimmy Page riserva le sorprese più atroci. Si comincia con un plagio evidente , "You're so fine", che è per metà quasi identica alla “Addicted to Love” di Robert Palmer. Poi il fondo, il patetico o il ridicolo, ossia la parodia - non si può definirla in altro modo - di “ Don’t Leave me this way” dal disco con Page, quì reintitolata "Take me back again": un suono cavernoso, e fin troppo anni ‘90 ci trascina per sei lunghissimi minuti che fanno rimpiangere il fertile sodalizio con Page e danno la misura definitiva della piccolezza di Adrian Vandemberg, un chitarrista assolutamente ordinario che lungo tutto il disco non riesce a trovare una sola scintilla di ispirazione e quando - come in questa canzone - cerca di fare il verso ad un grande della chitarra blues si rende ridicolo o quasi. Le uniche note positive vengono dai pezzi di apertura e chiusura: "Don’t fade away" è una canzone AOR fin troppo rilassata, ma illuminata comunque da una melodia convincente ed un buon lavoro di atmosferic power; la conclusiva "Women trouble blues" - pur reminiscente a tratti di "Child of Babylon", dal magnifico 'Come an' get it' -  è cattiva e zeppeliniana quanto basta, con un bel suono ed un cantato in falsetto degno dei giorni migliori.

L’addio all’hard rock dopo questo disco era doveroso: Coverdale non ha più le corde vocali per prodursi in un genere che pure lo ha visto tra i protagonisti assoluti.

 

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UNRULY CHILD

 

 

  • UNRULY CHILD (1992)

Etichetta:Interscope Reperibilità:scarsa

 

Mentre la putrida armata discesa da Seattle spodestava gli act di hard melodico ed AOR dal loro trono nelle charts USA, e la scena si avviava a diventare un ricordo del passato o un genere di import giapponese, sepolto dalla recessione, dalla guerra del golfo e - sopratutto - dalle manovre forsennate e speculative dei discografici, poche, solitarie band, indifferenti a tutto quello che gli stava turbinando attorno, continuavano ad inseguire il sogno del perfetto album AOR che riuscisse a coniugare aggressività , eleganza, grandi arrangiamenti ed un suono di qualità assoluta. Se è vero che la perfezione non è di questo mondo, pure gli Unruly Child ( allo stesso modo di Bad English e Giant) riuscirono ad intessere un arazzo sonoro di sbalorditiva grandezza unendo con suprema efficacia chitarre metalliche dal forte retrogusto zeppeliniano e arrangiamenti di tastiere di chiara estrazione progressive su cui si adagiava con grazia ferina la voce ambigua e planteggiante di un Mark Free che dopo la grande e “clandestina” prova di forza con i Signal trovava finalmente un palcoscenico adeguato alle proprie possibilità espressive. Ma anche per Bruce Gowdy (ch.) e Guy Allison (ts.), gli Unruly Child costituirono un momento chiave dopo le poco felici esperienze precedenti, prima del solo Gowdy negli Stone Fury, e poi assieme nei fin troppo yesseggianti World Trade. Il lavoro di Beau Hill dietro la consolle era improntato al raggiungimento della più alta qualità possibile e se il suono non raggiunge i vertici del secondo Bad English o dell’ultimo White Lion, è pure vero che - paragone non troppo irriverente - c’era nella musica della band una sfumatura umbratile che ricordava tanto ( a livello di puro feeling) i loro maestri ispiratori Led Zeppelin, un’ombra melanconica che Hill riuscì con grande efficacia a mettere in luce con un mixaggio dove si alternavano magnificamente tinte splendenti ad altre più maliose ed oscure. Impossibile scartare una canzone, e impresa difficilissima descriverle una ad una; ma due pezzi in particolare meritano di finire in una ideale compilation del meglio del meglio che l’AOR abbia mai espresso: "On the rise", dinamico atto d’apertura, nella quale la lezione degli Yes anni ‘80 viene riletta e trascritta in un solido telaio a lá Page dove predominano soluzioni ritmiche di grande scioltezza e fluidità dettate in eguale misura dalla chitarra e da un’agilissima sezione ritmica, e poi il capolavoro assoluto, la perla inestimabile, uno di quelle rare canzoni che autorizzano ad usare la pesantissima e scomoda parola “perfezione”; "Long Hair Woman", pur zeppeliniana fino al midollo, è un distillato di pura magia elettroacustica, dove lo spirito della band di Plant e Page viene ricreato e reinterpretato aldilà di ogni citazione e manierismo in un mosaico di suadenti chiaroscuri, una scheggia che pare strappata a forza da 'L. Z. III' o 'Phisical Graffiti' e tirata a lustro e poi sapientemente cromata per rifulgere in quel malinconico tramonto degli ‘80 (l’album uscì nel ‘92), stella solitaria fra le nuvole cupe del nuovo, nerissimo decennio.